La situazione della manifattura negli Usa conferma l'affanno del capitalismo dominante nonostante la crescita dei profitti

Prendiamo spunto da uno dei tanti articoli che – da qualche anno a questa parte – si sono occupati della tendenza al back to manifacturing , delle politiche per favorire il “ritorno alla manifattura” e invertire il processo di deindustrializzazione che ha visto per decenni trasferire le produzioni dai paesi di vecchio capitalismo a quelli “emergenti” (1).Le politiche di Trump a favore del rientro delle produzioni negli Stati Uniti sono in continuità con l'indirizzo del predecessore Obama nell'obiettivo di contrastare il declino industriale. Tra i dati del declino americano colpisce anzitutto quello sul calo degli addetti all'industria, dove “dal 2000 ad oggi gli occupati del settore [...] sono scesi da 18,5 milioni a 13,4 milioni”.

Il forte e rapido ridimensionamento (- 27%) risulta dall'azione combinata dell'aumento della composizione organica e del trasferimento delle produzioni più labor intensive nei Paesi con la manodopera più a basso costo. Sappiamo tuttavia che è in corso da tempo un processo di rientro delle produzioni negli Usa, per effetto del generalizzarsi delle tecniche produttive a più elevata intensità di capitale (automazione) e dell'incremento relativo del salari in Paesi come la Cina. Le politiche industriali di Obama e ora i tagli fiscali di Trump a favore delle imprese intendono assecondare e rafforzare questa tendenza.

Un altro dato significativo riguarda i profitti. Nel citato articolo del “Sole” si legge:nello stesso arco di tempo sono aumentati i profitti (il rapporto fra Ebit e valore aggiunto è salito dal 20% al 30%)”(2). Il dato da registrare è che il capitale si è impadronito di una parte crescente del “valore aggiunto” dai fattori produttivi – capitale e lavoro – ai costi di produzione (materie prime, capitale fisso, ecc...). Questa notevole avanzata del capitale a spese del lavoro non può che derivare dall'intensificazione dello sfruttamento, dal contenimento salariale e dalle condizioni in cui si svolge la produzione, ma vi concorrono anche fattori di altra natura.

Con Ebit si intende il profitto ottenuto dal processo di produzione sommato agli introiti da rendite e interessi finanziari, al lordo delle tasse e degli oneri finanziari (3)Queste caratteristiche ne fannoun indicatore della capacità dell'impresa di remunerare il capitale attraverso il ciclo di produzione-circolazione, ma anche tramite il ricorso alla finanza.Cometale, l'Ebit dà la misura di quanto l'impresa sia in grado di soddisfare gli appetiti del capitale finanziario che pretende la sua quota di profitto (attraverso fondi azionari, obbligazioni societarie, partecipazioni, ecc...), e della sua capacità di finanziarsi a debito. Ad un grado elevato di sviluppo capitalistico non c'è impresa che non si regga sulla finanza, tanto in veste di debitore (per attrarre capitali) quanto di creditore (per nutrirsi di interessi finanziari). Sotto questo aspetto, la crescita del profitto segnala anche la crescita degli introiti finanziari che le stesse aziende incassano, nel ruolo di creditrici o in virtù dell'aumento dei valori di borsa.

Tuttavia la base reale di questi successi delle imprese manifatturiere americane in termini di profitti si conferma assai fragile. Nell'articolo da cui abbiamo preso spunto si contrappone la crescita percentuale dei profitti al dato negativo della diminuzione della rotazione degli asset (4).Qui si tratta della rotazione del capitale, del tempo necessario al capitale investito per ricostituirsi integralmente e iniziare un nuovo ciclo di produzione/ riproduzione. Dal 2000 ad oggi, stando all'articolo, il tasso di rotazione si è portato per le imprese americane da 1,1 a 0,8. In altre parole, mentre nel 2000 il capitale investito si ricostituiva in un anno mediamente 1,1 volte, attualmente in un anno si ricostituisce solo 0,8 volte, e abbisogna di altro tempo per compiere integralmente il ciclo. Il fatturato di un anno, in media, non compensa l'investimento iniziale(l'input di capitale costante circolante + capitale variabile).

Il fenomeno del rallentamento della rotazione ha una forte incidenza sul saggio annuo del plusvalore, e di conseguenza sul saggio annuo del profitto, che del primo è la forma mistificata. Marx mette a confronto un capitale variabile A che produca un plusvalore del 100% e che compia in un anno 10 rotazioni con un capitale B di pari ammontare che ne compia una sola. Il saggio annuo del plusvalore è nel primo caso del 1000%, nel secondo del 100%. Soffermandosi poi sul caso specifico di una rotazione annua incompiuta, Marx rileva che il saggio annuo del plusvalore Pv' è più piccolo del plusvalore reale pv' se il numero di rotazioni annue è inferiore a 1 (5). La situazione descritta qui da Marx sembra adatta a rispecchiare la condizione media attuale dell'industria manifatturiera americana.

Il rallentamento generale del tempo di rotazione non si presenta come un fatto congiunturale, ma come portato dello sviluppo capitalistico, come effetto della crescente composizione organica, della dimensione media delle aziende, dell'aumento della produttività del lavoro e della massa di prodotti che l'azienda è in grado di mettere sul mercato, delle crescenti “immobilizzazioni” di capitale fisso in macchinari, magazzini, capannoni, ecc...(6). Sotto questo aspetto,il rallentamento del tasso di rotazione del capitale è un altro modo in cui si manifesta la tendenza alla caduta del saggio del profitto. Per un altro verso, all'aumento della produzione non fa seguito una crescita corrispondente della capacità del mercato di assorbire la massa delle merci prodotte, condizione perché si realizzi il valore in esse contenuto. La rotazione del capitale risulta così rallentata dalla dilatazione del tempo di circolazione, nonostante tutti gli espedienti messi in atto per favorire le vendite, a partire dal credito al consumo.

In queste dinamiche, la deriva finanziaria – la crescita percentuale della componente finanziaria sui profitti totali – non è causa delle difficoltà dell'economia reale, ne è una conseguenza. L'azienda capitalistica cerca nei circuiti della finanza quella remunerazione, in tempi brevi,che la generazione di plusvalore nella produzione non garantisce più ai tassi e ai ritmi di una volta, ma nello stesso tempo è sempre più dipendente dal credito anche per il rallentamento del tasso di rotazione, che non permette alla gestione capitalista d'impresa di ritornare in tempo in possesso del capitale monetario necessario a riavviare il ciclo di produzione alla stessa scala (7).

Il carattere di stagnazione che molti economisti attribuiscono al percorso del capitalismo mondiale dopo la crisi del 2008 ha tra le sue cause questo rallentamento del tasso di rotazione, paragonabile alla perdita di energia e dinamismo propria di un organismo vecchio. Il livello raggiunto dallo sviluppo delle forze produttive in forma di mezzi di produzione si traduce in un eccesso di produzione che il mercato stenta a smaltire e in un eccesso di capitale creditizio accumulato nei precedenti cicli di produzione/riproduzione e ora ulteriormente cresciuto dopo dieci anni di politica monetaria espansiva delle banche centrali dei paesi sviluppati. A quest'ultimo eccesso corrisponde una carenza di capitale monetario nel ciclo di rotazione, dovuto al fatto che il capitale iniziale si ricostituisce in tempi troppo lunghi. Questa carenza di capitale monetario è una conferma che la esasperata finanziarizzazione del sistema poggia su fattori oggettivi interni alla dinamica stessa del capitale.

Il crescente affidarsi delle imprese ai profitti derivanti da operazioni finanziarie ha un effetto retroattivo sulla produzione, allentando la propensione ad investire in innovazione per incrementare la produttività e, su queste nuove basi tecniche, mettere l'impresa nelle condizioni di competere sui mercati internazionali (almeno finché le innovazioni non si generalizzano, annullando i temporanei vantaggi di una maggiore produttività). E' un processo che si autoalimenta: inizialmente la finanza supplisce con introiti da speculazione alle difficoltà di ricostituire il capitale iniziale, ma contemporaneamente disincentiva l'investimento e in questo modo induce il declino produttivo. Questo fa sì che il profitto venga in misura crescente reinvestito nei circuiti finanziari o borsistici, o vada a remunerare i detentori di quote di capitale, azionisti, obbligazionisti e così via.

D'altra parte, se le imprese americane sono in grado di sopportare il rallentamento del ciclo di rotazione del capitale produttivo lo si deve da un lato all'intensificazione dello sfruttamento, dall'altro al sostegno del proprio ramo finanziario e del credito. Assieme alla quota di reddito sottratta al lavoro, è la finanziarizzazione a consentire che aumenti il profitto, nonostante perduri la tendenza alla caduta del suo saggio e rallenti il tasso di rotazione. In effetti l'Ebit non esprime propriamente il profitto quanto la remunerazione del capitale, contiene sia il profitto proveniente dal ciclo di produzione/riproduzione sia l'interesse da investimenti finanziari e i guadagni di borsa.

Se le imprese trovano nel debito la temporanea salvezza, sia in termini di introiti che di finanziamenti, contemporaneamente si stringe il cappio che poco a poco le strangola. Gli introiti finanziari e azionari garantiscono una certa tenuta dei profitti col “risultato d'impresa”, ma da un lato la compensazione del calo del saggio del profitto avviene a spese dei redditi proletari e delle classi di mezzo, approfondendo la polarizzazione sociale, dall'altro quella parte che concorre al risultato d'impresa con introiti da speculazione finanziaria ha un carattere sostanzialmente aleatorio. Basta un leggero stormir di fronde negli annunci delle banche centrali o qualche dato su occupazione, salari e inflazione perché le borse passino dall'euforia al panico, prenda avvio una fase massiccia di vendite di titoli e tutto il castello di carte cominci a traballare.

Un simile scenario si è riproposto ai primi di febbraio 2018, e poi ancora ai primi di dicembre dello stesso anno. Le chiamano “correzioni”, ma sono segnali degli squilibri di fondo che minano il sistema capitalistico mondiale e spesso annunciano la fine di un ciclo espansivo. Quello dell'economia Usa continua – per quanto a ritmi da “stagnazione secolare” - da quasi dieci anni, ma si riflette sull'andamento borsistico in modo completamente falsato. Nel corso del 2018 Wall Street, a parte le “correzioni”, si è sostenuta con il buyback, l'acquisto di azioni proprie da parte delle stesse aziende finalizzato a tenerne alto il prezzo. L'andamento azionario risulta a tal punto distorto da questa pratica, così svincolato dall'andamento della produzione che sono le aziende meno profittevoli a registrare i maggiori guadagni borsistici (8).

Un'ultima considerazione: sempre più il capitale necessita del sostegno di fattori esterni a quella che dovrebbe essere la fonte primaria della valorizzazione, il plusvalore. Gli stimoli fiscali sono l'ennesimo espediente – per nulla originale né nuovo - con cui lo Stato si fa carico di assistere il malato terminale, sia in Europa, dove le tasse applicate alle imprese sono già basse, sia in Usa in conseguenza dell'annunciata riforma del fisco di Trump, destinata ad inasprire la competizione fiscale tra Stati.

Il grazioso regalo alle corporations americane può sembrare un pegno alla loro onnipotenza, ma è frutto di una grande fragilità. Ora che si sta chiudendo la lunga stagione dei tassi bassi e si alzerà l'interesse dei corporate bonds, le obbligazioni che riempiono i bilanci delle società americane (9), tagliare le tasse alle imprese è un modo per sostenere i costi del loro indebitamento col solito espediente di socializzare le perdite.

La riduzione delle tasse compenserà le perdite derivanti dai costi di finanziamento delle obbligazioni, senza per questo risolvere minimamente il problema di fondo delle imprese: le difficoltà di accumulazione, espresse dal calo del saggio del profitto e dal rallentamento del ciclo di rotazione.

Al pari degli introiti da finanza e da rendita fondiaria, i tagli fiscali aumentano la remunerazione del capitale, non il profitto che, in quanto espressione del plusvalore, è vincolato allo sviluppo raggiunto dalle forze produttive, e come tale è destinato a diminuire in rapporto al capitale investito. Questoaumento della remunerazione del capitale, effetto di una sottrazione di risorse ai danni del proletariato e delle classi di mezzo, o ottenuto a scapito dei concorrenti sui mercati mondiali con azioni protezioniste e dumping fiscale, stenterà a trovare occasioni profittevoli di reinvestimento nella produzione ad incrementare il ciclo di valorizzazione. Piuttosto alimenterà una nuova redistribuzione della stessa remunerazione del capitale nei circuiti finanziari, con i collaudati meccanismi di moltiplicazione fittizia della ricchezza. Gonfierà ulteriormente l'eccesso di capitale, la sovrapproduzione di capitale, che già oggi raggiunge dimensioni mostruose nel debito globale.

La tendenza alback to manifacturing – argomento da cui siamo partiti - esprime tutt'altro che un ritorno alla centralità della produzione. Come il figliol prodigo della parabola, aziende dislocate all'estero ritornano a casa attratte dal banchetto predisposto da papà-Stato che le accoglie a braccia aperte suscitando nuovi fervori di produttivismo patriottico. Di questi entusiasmi nazionali il capitale si fa beffe: è solo un ritorno geografico dovuto più che al dumping fiscale allo sviluppo delle forze produttive sociali, all'aumento della composizione organica media mondiale. Anche se, finché il ciclo è nella fase espansiva, questo aumento, unitamente alle regalìe di Stato e agli introiti da finanza, può indurre un incremento della massa dei profitti, alla lunga porta alla contrazione del saggio del profitto e all'esaurimento della fonte primaria della valorizzazione, il plusvalore. Le conseguenze nefaste sono sotto gli occhi di tutti: aumento del debito mondiale, crescente instabilità sociale e politica, inasprimento della gazzarra tra predoni internazionali per la spartizione del bottino alla scala mondiale.

Note

1- Paolo Bricco, La doppia leva di manifattura e fisco rilancia l’industria Usa, Il Sole24ore,13 gennaio 2018.

2- Riportiamo la definizione di “valore aggiunto” dal Dizionario Treccani di economia e finanza: “Differenza fra il valore della produzione di beni e servizi e i costi sostenuti da parte delle singole unità produttive per l’acquisto di input produttivi, a essa necessari, presso altre aziende. Esso rappresenta quindi il valore che i fattori produttivi utilizzati dall’impresa, capitale e lavoro, hanno ‘aggiunto’ agli input acquistati dall’esterno, in modo da ottenere una data produzione (Economic Value Added, EVA)[...]Il v. a. corrisponde anche alla remunerazione dei fattori produttivi ed è quindi composto dai redditi da lavoro e dai redditi da capitale-impresa, ovvero il risultato lordo di gestione.”(www-treccani.it. Dizionario di economia e finanza)

3- Definizione di Ebit: "il significato di EBIT, anche detto reddito operativo, é letteralmente quello di Earnings before Interest & Tax, ossia di risultato aziendale ante oneri finanziari (tasse e interessi) [...] L’EBIT prende in considerazione non soltanto le componenti operative di reddito, ma anche oneri, proventi e quanto derivante da gestioni accessorie.” www.money.it. Per calcolare l'EBIT si sottraggono dal totale delle vendite i costi di produzione, di distribuzione dei beni, le spese generali e amministrative, le spese di ammmortamento e gli accantonamenti. Poi si sommano i guadagni non operativi (che derivano da rendite immobiliari o altro) e gli introiti da interessi finanziari e azioni. https://www.investopedia.com/terms/e/ebit.asp#ixzz5DPbzqU00

4- In linguaggio aziendale, il tasso di rotazione del capitale investito si esprime con la sigla ROT: “Il ROT [...] indica il tasso di rotazione del capitale investito. In formula, esso è pari a Ricavi vendita/Capitale investito.“ (dizionarioeconomico.com/rot-tasso-di-rotazione-del-capitale-investito). L'autore dell'articolo del “Sole” associa la rotazione degli asset al"rapporto tra valore aggiunto e capitale investito”.Nei bilanci aziendali questo rapporto è espresso nella seguente formula che fornisce l'indice di redditività del capitale investito (ROI).

_______________      X       _________________      =   __________________

ricavi netti                          capitale investito                   capitale investito

[da “L'analisi di bilancio”Impresaefficace.it]

5- Il Capitale, II, La rotazione del capitale variabile, Editori Riuniti,1980, capitolo XVI. Gli effetti della rotazione sul saggio del profitto sono trattati da Marx nel terzo libro del Capitale, capitolo quarto della stessa edizione (Libro III*); si vedano in particolare le pagine 105-106.

6- Dal Dizionario economico.com. alla voce “tasso di rotazione del capitale”: “Ora, se gli impieghi dovessero risultare sbilanciati in favore delle immobilizzazioni, potremmo ottenere un ROT tendenzialmente basso e persino inferiore all’unità, mentre se fossero sbilanciati in favore del capitale circolante, dovremmo assistere a un ROT più elevato” ” ( cfr. nota 4). Questo è vero in teoria. Il valore del capitale fisso entra nella circolazione in tempi lunghi, man mano che si consuma in successive rotazioni trasferendosi nel valore delle merci. La sua crescita dovrebbe pertanto aumentare la quota di capitale fisso contenuto nelle merci, ma questo aumento, nota Marx, è minore del corrispondente aumento della massa della produzione. Ciò che cresce in proporzione è la massa del circolante e principalmente, in essa,la componente delle materie prime. La questione è trattata da Marx nel Terzo libro del Capitale, cit. capitolo sesto, Effetti della variazione dei prezzi, in particolare alle pagine 144-145.

7- Il Capitale, II, azione del tempo di rotazione, cit. cap. XV, p.298.

8- Morya Longo, “Corsa senza sosta a Wall Street, ma crescono i rischi di instabilità”,Il Sole24ore, 22.09.2018. Nell'articolo si fa riferimento a un calcolo di Credit Suisse secondo cui nel 2018 il buyback avrebbe comportato un incremento artificiale di ¼ di utili per azione delle aziende quotate. Quanto agli effetti distorsivi del “cannibalismo finanziario”, che non di rado si finanzia a debito, l'articolo riporta esempi di aziende che non fanno profitti ma ciò nonostante registrano record di guadagni in borsa.

9- “Negli Usa la bolla dei corporate bond ha raggiunto i 14 trilioni di dollari, superando di molto anche quella delle ipoteche immobiliari che è di circa 11 trilioni. Perciò gli Stati Uniti potrebbero diventare nuovamente l’epicentro di un’ulteriore e più grave crisi finanziaria globale. Dal 2008 ad oggi negli Usa l’ammontare dei corporate bond è cresciuto del 75%, tanto da spingere persino il Fondo Monetario Internazionale a riconoscere che un aumento del tasso di interesse potrebbe far crescere il rischio di collasso per un quinto delle grandi corporation americane”. Mario Lettieri e Paolo Raimondi, La bolla del debito dei “corporate bond”, Www.wallstreetitalia,19 maggio 2017.A distanza di quasi due anni da questo rapporto allarmante, la minaccia è tutt'altro che scongiurata: “Il debito delle aziende Usa è sui massimi storici sia in percentuale sul Pil (75% secondo i calcoli di Credit Suisse), sia in rapporto all'Ebitda* (2,5 volte). Dal 2007, segnala Goldman Sachs, il numero di aziende con un livello di debito oltre due volte superiore all'Ebitda è praticamente raddoppiato. E non si tratta di un problema da poco: entro il 2020 giungeranno infatti a scadenza ben 1300 miliardi di dollari di debiti delle imprese Usa” (Corsa senza sosta di Wall Street, cit.).[* L' EBITDA, è il profitto lordo corrispondente all'EBIT più i costi derivanti dalle spese di ammortamento e dagli accantonamenti.]

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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