Per cominciare

A memoria del proletariato, ricordiamo ciò che scriveva l’Internazionale Comunista nel suo “Appello alla classe lavoratrice dell’America del Nord e del Sud”, nel 1920: “Il socialismo dell’America latina è arci-traditore delle masse. Esso è una cosa misera, riformista, un balocco della democrazia piccolo-borghese o uno sport di avventurieri militar-rivoluzionari. Smascherare questo socialismo, distruggere la sua influenza sulle masse, conquistare al comunismo gli elementi rivoluzionari – questo è il fondamentale compito rivoluzionario immediato” [1].

Il nostro giudizio, a distanza di un secolo, non è cambiato e non desta in noi alcuna meraviglia che ancor oggi si presenti “quella cosa misera, quel balocco” e che qualche delirante chavista continui a immaginare, negli ultimi eventi che toccano il Venezuela e preludono forse al “licenziamento” del democratico Maduro, una situazione in qualche modo pre-rivoluzionaria o, a seconda dei punti di vista, pre-controrivoluzionaria. Con la crisi economica e petrolifera e il crollo il cosiddetto “welfare bolivariano”, le manifestazioni politico-sociali si sono infatti estese, nelle manifestazioni più confuse, alle grandi città, trascinando da un versante all’altro un proletariato colpito aspramente dalla discesa inarrestabile dei salari e dallo scompaginamento dell’intero apparato produttivo. Tra opposte fazioni, costituite per lo più dalle classi medie e dal popolo minuto, sul terreno della lotta politica nazionale si è affacciato un nuovo contendente alla presidenza, Juan Guaidò, il capo del Parlamento, appoggiato all’estero da un’alleanza imperialista che va dal Brasile alla Colombia e dagli Usa ai paesi europei, cui si è contrapposta una sorta di schieramento con Cina, Russia, Turchia, Iran, Messico e Bolivia. Un bel gioco, quello del risiko mondiale!

Non commenteremo quest’alleanza tra bande imperialiste rivali. Sappiamo bene che la storia latino-americana (ma anche quella mondiale!) è stracolma non solo di rivolte operaie, di giunte militari, di dittature, ma anche di “alleanze di pace” e “giochi di guerra”. I due articoli pubblicati su queste stesse pagine, il primo nel gennaio 2000 (“Vecchie e logore maschere latino-americane”) e il secondo nel luglio-settembre 2017 (“Venezuela: il socialismo del XXI secolo o dei banconi vuoti”), in certo modo racchiudono la storia di questo primo ventennio venezolano del nuovo secolo, attraversato da illusioni riformiste dure a morire: il primo tratta dell’ascesa al potere di Chavez, il secondo della probabile fine del governo di Nicolàs Maduro – Chavez e Maduro, due marionette che hanno finito per suscitare la curiosità e l’entusiasmo degli ingenui d’ogni risma per una possibile “via petrolifera bolivariana al… socialismo”… D’altronde, qual è l’interesse che spinge allo scontro fra questi nemici-compari nel bacino dell’Orinoco, se non quella cosa immane che sono i trecento miliardi di barili di greggio? Ovviamente, si tratta di “aspettative di affari”, di “affari virtuali”, almeno finché il petrolio starà sotto terra. Quel che appare a prima vista inverosimile è l’accalcarsi delle potenze imperialiste attorno al nero formicaio, ancor prima che esso si esprima in termini di valore.

Con la sua elezione e il successivo referendum sulle riforme costituzionali, Chavez fu il promotore di una politica che, a suo dire, avrebbe portato alla modernizzazione del Paese, estendendo la “distribuzione” dei proventi del petrolio al “popolo” e assicurando così la stabilità del potere e l’accumulazione del capitale, grazie alla straordinaria crescita della rendita petrolifera. In ogni caso, per tornare con i piedi per terra, basterebbe chiedere ai proletari quanto il cosiddetto “socialismo del XXI secolo”, proclamato nei palazzi e nelle strade e offerto dal petrolio à gogo, abbia davvero consentito loro di mettere insieme almeno un pasto al giorno. All’inizio del suo mandato, nel 2002, il tentativo di colpo di Stato, organizzato dai settori imprenditoriali e dal parassitismo militare strettamente legato alle oligarchie e alle potenze straniere, e fallito – così almeno si dice – per la fedeltà dell’esercito e per la mobilitazione popolare nazionalista, ruotò intorno al rialzo vertiginoso del prezzo del petrolio che raggiunse i 140 dollari il barile. Consolidatisi gli sperperi e la corruzione a tutti i livelli, la crisi economica americana e mondiale del 2008-2010 si abbatté poi sul Paese. Prima le dure sanzioni economiche imposte dagli Usa all’azienda petrolifera statale Pdvsa, mentre si generalizzava il prezzo dello shale-oil, quindi le enormi difficoltà nell’acquisto dei beni di prima necessità, lo sfruttamento della classe operaia e infine la disoccupazione cronica e l’altissima inflazione, diedero origine all’estremo contrasto tra la crescente miseria e la traboccante ricchezza. In pochi mesi, circa tre milioni di venezuelani (su una popolazione di 32 milioni) furono costretti a lasciare il paese trasferendosi in Colombia (cui bisogna aggiungere la massa di residenti, almeno 200mila, che affollano la Florida). Con la crescita del malcontento generale, una varietà di muffe d’ogni colore, prodotto specifico delle classi medie e della piccola borghesia, ha inquinato il terreno sociale, trascinando nel caos il proletariato. Per porre fine alla situazione di miseria, la contrapposizione tra le classi spurie dovrà inevitabilmente esplodere: e sarà uno scontro antiproletario, sia che la miserabile popolazione appoggi Maduro, la sua giunta militare e la sua macchina da guerra statale (corrotta e parassitaria e diretta dagli alti gradi dell’esercito), sia che quest’ultima si collochi a rimorchio della macchina bellica Usa, a favore di Guaidò.

Schierarsi a fianco dei proletari venezuelani, difendere i loro interessi di classe, unire il proletariato internazionale: questi sarebbero gli unici e veri obiettivi della nostra classe. Ma quella piccola borghesia che si agita dietro le bandiere della Patria richiamandosi agli eroi del passato, Bolivar, Sandino, Castro, piuttosto che dietro “la libertà” targata Usa e Brasile, con le maschere di Donald Trump e Jair Bolsonaro, rischia di precipitare in fondo all’abisso, dove l’attende una proletarizzazione temuta come l’inferno. Per adesso, il gioco delle parti ha preso una strada diversa da quella imboccata a Kiev, in piazza Maidan, quando gli agenti americani spararono dai tetti o quando i russi presero la via del Donbass, una volta venuti in possesso “legittimamente” (come dicono) della Crimea. A fronte dell’impopolarità di Maduro e mentre crescono i contrasti attorno agli aiuti umanitari ai confini della Colombia e sul paese si abbatte uno “strano” black-out elettrico, la domanda viene spontanea: quanto sono pronti russi e cinesi a dare una mano a Maduro? La risposta risiede in un’altra domanda, forse retorica: i 20 miliardi di debito accumulati dal Venezuela nei confronti della Cina e gli interessi geostrategici russi valgono uno scontro?

Dalla dominazione coloniale, al capitalismo commerciale e all’imperialismo

Così continuava l’“Appello” del 1920: “Il processo di produzione della ricchezza materiale in tutta l’America Latina è condannato a rimanere vincolato allo stato di dipendenza sia economica che politica. Sotto la dominazione coloniale prima, successivamente sotto quella capitalistico- commerciale e infine sotto quella industriale, finanziaria, imperialista, quel processo fu ed è deterministicamente tracciato. […] Se i paesi coloniali dell’Asia e dell’Africa furono spinti ad intraprendere le ‘guerre di liberazione nazionale’ e furono rivoluzionari in quanto la classe borghese nascente volle svincolarsi dalla tenaglia che la stritolava, tra passato feudale e imperialismo presente, i paesi dell’America Latina, che non hanno dovuto rovesciare vecchi regimi feudali [corsivo nostro – NdR], restano inchiodati a un’illusoria difesa dallo stato di arretratezza e dipendenza crescenti e sempre paralizzati dalla paura di suscitare un nemico interno, le masse di contadini poveri e senza terra, i miserabili, e soprattutto la classe operaia, che già tenta di organizzarsi in modo autonomo. I metodi di lotta che le borghesie riformiste sudamericane adottarono furono e sono quelli militari e politici più moderni, che le hanno obbligate a percorrere a marce forzate le tappe dello sviluppo capitalistico, i primi per impadronirsi dello Stato e rovesciare le vecchie classi dominanti, i secondi per imprimere un corso più accelerato allo sviluppo capitalistico. L’illusione circolante della borghesia è stata quella di poter attraversare tutte le fasi di uno sviluppo capitalistico puro insieme all’uso della democrazia come collante politico interclassista. La chimera dell’indipendenza dall’imperialismo americano ha accompagnato le rivendicazioni delle classi medie e della borghesia industriale. I cicli attraversati si sono compiuti poi senza che una vera borghesia abbia saldato i conti con il passato, che è il suo presente, una potente aristocrazia fondata sulle materie prime. […] Questo impero americano, con le sue immense ricchezze e le sue inesauribili fonti di materie prime, sarebbe infinitamente più potente di qualunque impero l’abbia preceduto: sarebbe una gigantesca potenza conquistatrice e devastatrice. La forza dell’America e il suo sviluppo costituirebbero il pericolo più grave per la pace e la sicurezza del mondo, per la libertà dei popoli e per l’emancipazione del proletariato. E’ questo il pericolo che voi dovete scongiurare, operai delle due Americhe”.

Ricordare tutto questo è vitale per il proletariato. Solo il comunismo rivoluzionario ha saputo e potuto raccogliere, in questo “Appello”, la memoria e l’esperienza storica di un continente, il cui tessuto intreccia tutte le classi in un unico ordito e in un’unica trama. Il carattere impresso dalla storia del proletariato a questo articolarsi e intrecciarsi di crisi politiche e sociali, dal Messico giù fino al Cile, è unico. Esso ha dato un senso importante alle vittorie del proletariato ottenute sul piano immediato e rivoluzionario, ma anche alle tremende sconfitte subite nel corso del secolo XX. Questa storia ci consegna e conferma, tuttavia, il profondo disagio per il ritardo storico della classe (e quindi del Partito rivoluzionario) su scala mondiale. Nei brani riproposti dell’“Appello”, i rivoluzionari comunisti del 1920 ci hanno indicato un percorso, deterministicamente espresso dall’arretratezza della borghesia latino-americana. Questo percorso non narra l’epopea dei “movimenti di liberazione nazionale” che si svolsero in Asia e in Africa: non è questo il suo obiettivo. Ma non ci consegna nemmeno un’America Latina staccata dalla storia mondiale, una sorta di gigantesca isola d’oltreoceano con la sua discontinuità economica, sociale e politica. Ci narra al contrario lo sviluppo a marce forzate del capitalismo da straccione a imperialista, e soprattutto quello di una classe borghese ammalata d’illusioni, che usa a piene mani la democrazia in tutte le sue varianti: radicale, guerrigliera, costituzionalista, nazionalista, dittatoriale, populista, decrepita comunque, con il suo collante politico interclassista. Ciò che risulta in piena luce è il terrore della borghesia per il movimento proletario, per la sua potenziale azione rivoluzionaria: il terrore cioè che esso prenda la testa del processo rivoluzionario in un’epoca in cui il capitale commerciale e finanziario sono dominanti, in un’epoca in cui i contadini poveri, in quanto tali, non sono il prodotto di un’arretratezza atavica, ma un prodotto specifico del capitalismo giunto alla fase in cui dimostra drammaticamente d’essere un modo di produzione superato dalla storia e dunque superfluo e dannoso, in cui le classi medie non sono altro che il risultato storico di una decomposizione continua, di un disfacimento dovuto alle crisi periodiche del capitale.

Nell’arco di dieci anni, dal 2009 al 2019, nel Sud e nel Centro America, s’è impiantata una nuova trama di governi (una “sinistra progressista”, poi sostituita da una “destra conservatrice”), trascinati nell’abisso dalla crisi economica americana e mondiale. Dal Messico al Brasile, dall’Argentina al Cile, lo scontro in atto fra le classi ha reso più grave la piaga della repressione e dello sfruttamento e ha rimesso per l’ennesima volta il dominio di classe nelle braccia dell’imperialismo statunitense. Non si tratta solo del Venezuela o di Cuba e delle loro illusioni nazionaliste e sovraniste: quelle stesse illusioni solleticano gli appetiti irrefrenabili d’ogni angolo dell’intero continente. Sprofondate nelle favelas, le plebi affamate non avranno più possibilità di riscatto se non le soccorre la ripresa della lotta di classe rivoluzionaria. Abbandonate le immense baraccopoli, la massa derelitta del proletariato si è messa da molto mesi in marcia per prendere d’assedio la gigantesca muraglia Usa che divide il mondo del capitale da quello del salariato. Solo l’unione degli sfruttati e la guerra di classe continentale potrà saldare il conto della devastante tragedia in cui è sprofondata l’umanità proletaria.

[1] L’“Appello” fu pubblicato in Die Kommunistische Internationale, n.15, 1921, pagg. 420-439, da cui traiamo le citazioni.

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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