Nel marasma più completo, nel marciume di un opportunismo politico che non si riesce nemmeno a paragonare a quello del secolo scorso quando, impugnata da socialdemocrazia e stalinismo, la scure si abbatté sui corpi dei proletari, la cosiddetta “questione nazionale” viene oggi riesumata da piccole bande politiche e da autentici saltimbanchi. E ciò non solo nel variopinto mondo dei “media” e della “rete”, ma in quello reale delle filiazioni nazional-“comuniste” di tutti i paesi: stalinisti rispolverati a nuovo, neo-situazionisti, rosso-bruni, “comunitaristi”, ecc., che, cercando di allontanare la riscossa proletaria, si mettono in gioco nell’arena politica borghese, proprio mentre si incancrenisce la crisi del capitalismo e di ben altro avrebbe bisogno la nostra classe. D’altra parte, la tragedia non si presenta come farsa, nella versione successiva della storia?

I buffoni di corte filo-americani, ad esempio (“sovranisti”, populisti, liberali e protezionisti) e i partigiani dell’“insalatiera russa” (in area baltica e caucasica, nel Donbass e in Crimea, ecc.), servono da diversivo per disorientare un proletariato che stenta ancora a emergere dalle macerie di tremende sconfitte storiche, di sanguinosi tradimenti. Non bastavano le borghesie imperialiste a decomporre e a ricomporre i puzzles dei popoli: occorreva pure frullare le cosiddette nazioni, gli stati fittizi, le dislocazioni pseudo-etniche, là dove, al seguito di guerre dirette o per procura, si intrecciano flussi di materie prime, armi, droga, mezzi monetari e finanziari, vere autostrade dell’immenso traffico imperialista…

Eccoci dunque, di nuovo, ad affrontare i residui e le cancrene delle cosiddette “questioni nazionali”, perché sempre più si allargano gli scenari e si riaccendono le luci della ribalta insanguinata del Medioriente. La domanda dunque è: è ancora attuale il postulato dell’autodeterminazione dei popoli nella presente situazione storica in cui, chiusa la fase delle rivoluzioni borghesi e delle doppie rivoluzioni, sono presenti le condizioni storico-sociali per una rivoluzione “proletaria pura”, non solo in Europa, ma nel mondo intero? La risposta per noi è chiara: NO. Ma non possiamo limitarci al monosillabo. Ripercorriamo invece brevemente le posizioni di Lenin nel 1914:

“Innanzi tutto, […] è necessario separare rigorosamente due periodi del capitalismo, periodi radicalmente distinti dal punto di vista dei movimenti nazionali. Da una parte, sta il periodo del crollo del feudalesimo e dell’assolutismo, il periodo in cui si formano la società e gli stati democratici borghesi, in cui i movimenti nazionali diventano, per la prima volta, movimenti di massa, trascinando, in un modo o nell’altro, tutte le classi della popolazione nella vita politica mediante la stampa, la partecipazione alle istituzioni rappresentative. ecc. Dall’altra parte, sta davanti a noi il periodo degli Stati capitalistici completamente formati, il periodo in cui il regime costituzionale è consolidato da lungo tempo, in cui l’antagonismo tra il proletariato e la borghesia è fortemente sviluppato, il periodo che può essere definito come la vigilia del crollo del capitalismo.  

“Tipico del primo periodo è il risveglio dei movimenti nazionali, nei quali vengono trascinati anche i contadini – lo strato sociale più numeroso e più difficile ‘da mettere in movimento’ – in rapporto alla lotta per la libertà politica in generale e per i diritti delle nazionalità in particolare. Tipica del secondo periodo la mancanza di movimenti democratici borghesi di massa: è il periodo in cui il capitalismo sviluppato, riavvicinando e mescolando tra di loro le nazioni già del tutto attratte nella circolazione delle merci, porta in primo piano l’antagonismo tra il capitale che si è internazionalizzato e il movimento operaio internazionale.

“Naturalmente, i due periodi non sono divisi da un muro, ma sono collegati da numerosi anelli di transizione. Alcuni paesi si differenziano, inoltre, per la rapidità dello sviluppo nazionale, per la composizione nazionale, per il modo con cui la popolazione è ripartita sul territorio, ecc., ecc. Non si può iniziare l’elaborazione di un programma nazionale marxista per un paese determinato, senza considerare tutti questi fattori storici generali e le condizioni politiche concrete”.

E aggiunge, poco più avanti:

“Nella maggior parte dei paesi occidentali tale questione è risolta da molto tempo. È quindi ridicolo cercare, nei programmi occidentali, la soluzione di problemi che non esistono” 1.

Così dunque Lenin. Risulta allora chiara, a proposito della “questione nazionale”, la domanda: deve apparire ancora, nel programma del partito della rivoluzione mondiale, il “diritto all’autodeterminazione delle nazioni” nei paesi plurinazionali? è ancora possibile riprendere la tattica della “dittatura democratica del proletariato in alleanza con i contadini poveri” (la “rivoluzione doppia” o “veramente popolare”)? Quali sono le particolarità storico-concrete, come direbbe Lenin, che ci obbligherebbero ancora a conservare quella parola d’ordine nel nostro programma? Quali particolarità storico-concrete ci obbligherebbero a livello mondiale a riprendere tali e quali, le “Tesi di Bakù”, necessarie al tempo dell’Internazionale Comunista nel suo II Congresso del 1920? L’Internazionale dei primi congressi ebbe bisogno allora di affrontare i temi della “questione nazionale”: allora, la questione era aperta in una parte immensa del mondo e la “doppia rivoluzione” era ancora all’ordine del giorno. L’epoca che viviamo è invece quella in cui la questione nazionale non è più storicamente all’ordine del giorno. E’ caratterizzata da una complessità di percorsi storici, ma la direzione del moto è tracciata e le vicende spesso contraddittorie che si potrebbero presentare non possono mutarne il corso. Non si tratta dell’indipendenza economica delle nazioni, che non è mai possibile nell’epoca dell’imperialismo, ma dell’indipendenza formale degli Stati nazionali, nelle diverse aree del mondo in cui la questione del diritto alla separazione giocava un ruolo positivo quando esistevano ancora Stati plurinazionali. Il proletariato internazionale nella sua guerra di classe contro il capitalismo ha sempre considerato fondamentale la rivendicazione dell’indipendenza formale di uno Stato, non certo per gonfiarlo, ma come condizione per abbatterlo, soprattutto in presenza del proletariato “locale” ormai risvegliato dalle forze produttive.

Non possiamo, tuttavia, dimenticare l’importanza che hanno ancora, oggi, in alcune aree del mondo e nello stesso Occidente “avanzato”, contraddizioni non pure: che cioè non si limitano a quelle fra capitale industriale e proletariato salariato (moti nazionali marginali, movimenti residuali dei contadini) in alcune aree del mondo e nello stesso Occidente. La questione è: possono queste contraddizioni, secondarie nella reale dinamica della storia contemporanea, nei rapporti di forza tra le classi principali, far avanzare il movimento rivoluzionario del proletariato? Possono avere almeno una potenzialità quale l’epopea dei popoli colorati nel secondo dopoguerra? Di fronte a una “dinamica pura”, in cui fossero contrapposte apertamente solo e unicamente le due classi nemiche, il proletariato e la borghesia, non resterebbe altro che trascurare le dinamiche secondarie. D’altro canto, chi potrebbe trascurare la massa dei contadini in Africa e in Asia (nella stessa Cina e in India), tuttavia sempre meno capace di generare “moti agrari”, e le lotte etnico-nazionali che potrebbero venire alla ribalta sotto la spinta degli scontri inter-imperialistici? D’altronde, in mezzo alle contraddizioni, come ignorare la forza delle classi medie e dell’aristocrazia operaia dell’epoca imperialista, capace di costituire un fronte ampio reazionario proprio sfruttando le aspirazioni etniche, religiose, nazionali? E la possente marcia in avanti dello stesso proletariato non potrebbe, domani, nel corso della guerra civile rivoluzionaria, avere un effetto di trascinamento, tale da spostare le masse anche le più arretrate verso una direzione opposta?

Con la fine del vecchio colonialismo e il sorgere dell’imperialismo moderno tutte le grandi potenze si sono date un gran da fare per uscire dalle difficoltà della gestione delle occupazioni territoriali e annessioni forzate. Le hanno trasformate in “accordi” economici e politici: in verità, sordide alleanze e sottomissioni materiali e finanziarie. Il “diritto all’autodecisione dei popoli”, come sappiamo, campeggia dall’alto delle assise dell’ONU; “l’uguaglianza delle nazioni” è sancita universalmente; il riconoscimento a separarsi, quando conviene agli interessi della borghesia, è fatto ormai collaudato: il lascito ideologico diffuso dalla borghesia imperialista è ormai dominante nella società politica ed economica mondiale. Gli ultimi avvenimenti nei Balcani attestano che la spinta alla disgregazione della ex Jugoslavia (la sua balcanizzazione, come nell’800) fu un prodotto della politica di potenza di Germania e Usa, dell’Occidente ultra-sviluppato. Sono le grandi potenze che hanno dato il fuoco alle polveri delle divisioni territoriali (Croazia, Slovenia, Bosnia, Kosovo, etc), chiamandole “nazioni”. Ciò non toglie che altrove il “diritto a separarsi” delle minoranze venga represso dall’una o dall’altra borghesia, dalla grande borghesia come dalla piccola (Nord-Irlanda, Paesi Baschi, Cecenia, Kurdistan, Palestina, Tibet, tanto per fare degli esempi). E non sono solo lì. Mancano all’appello piccoli gruppi nazionali, residui di vecchi colonialismi, entità territoriali aggrovigliate nel tessuto di più nazioni, zone di confine da cui vengono ad alimentarsi le guerre locali, senza possibilità di uno sbocco reale. In Africa centrale si trova un groviglio indistricabile di popoli, di Stati, di gruppi etnici. Ma questo non impedisce che i vari stati fittizi inventati e ridisegnati, siano teste d’ariete imperialiste, la cui violenza antiproletaria non è da meno di quella degli stessi Stati super-potenti. Basta dare uno sguardo al Medioriente! Eppure, tra i nazional-comunisti, v’è sempre chi trova sacrosanta una “patria socialista” immersa nel petrolio (Venezuela) o candita nello zucchero (Cuba).

“Residui”: cioè, realtà marginali, la cui soluzione influenzerebbe poco o nulla la dinamica della lotta di classe complessiva (mondiale, continentale). E, tuttavia, può forse il ridimensionamento della parola d’ordine dell’autodeterminazione dei popoli nei termini in cui fu proposta in passato far sparire per ciò stesso la “questione nazionale”? No. C’è chi, nella “sinistra”, confida in una pseudo-proletaria, possibile, futura “guerra antimperialista” a sostegno delle “patrie socialiste”. Il marchio d’identità-patria, d’altronde, conforta, sostiene e battezza tanto la grande quanto la piccola borghesia di destra e di sinistra, non tralasciando anarchici e proudhoniani (e, non ultimi, “patrioti” e “partigiani a chilometro zero”). Per i comunisti, ogni patria, reale, fittizia, etnica, compresa “l’isola che non c’è” nella società capitalista, è un marchio di appartenenza impresso a fuoco sulla pelle proletaria: la rivoluzione proletaria passa per la cancellazione del marchio di appartenenza dei proletari alla nazione, che fa tutt’uno con il capitale, con l’azienda, con il padrone e con il sindacalista di professione. La cosiddetta “questione nazionale” è un “problema” della lotta di classe internazionale: un problema da risolvere, e non da liquidare. La realtà del Capitale sarà certo molto carica di contraddizioni, ma il compito della rivoluzione comunista è quello di cancellarla dittatoriamente e definitivamente.

Il proletariato non deve più farsi carico dei residui nazionalisti, con l’illusione che possano diventare trampolini di lancio per la rivoluzione socialista (questioni nordirlandese–basca- catalana- slava-palestinese-kurda-cecena-ucraina, ecc.). Essi sono autentiche cancrene. Il proletariato rivoluzionario lotta in un orizzonte di 360 gradi, e non vi trova “borghesie oppresse d’altre fasi storiche”, cui rimettere un “diritto all’autodecisione” o alla “separazione” per accelerare il corso della rivoluzione proletaria, perché sia in quantità che in qualità il problema è ormai “fuori tempo e luogo”. Il che non vuol dire che quei moti di natura piccolo-borghese non possano dar luogo a timidi e contingenti lotte dovute alle contraddizioni che si creano localmente, nel corso di occupazioni di guerra. Le cause però sono altrove. Perfino lo scoppio del primo conflitto mondiale non ebbe la sua causa nei Balcani, come invece si disse, con tutto il corteo delle fittizie entità etniche balcaniche; e tanto meno il secondo conflitto fu causato dagli incerti confini italiani, polacchi, francesi, cechi, austriaci, bensì da ben più complesse forze distruttive accumulatesi nei caveau delle potenze imperialiste.

Il primo motore si trova nella lotta mortale tra capitale e lavoro. Immaginare che le borghesie piccole, “oggi” cosiddette oppresse, di cui scriveva Lenin, possano costituire l’innesco di moti rivoluzionari proletari (l’unica cosa che ci interesserebbe) è un’illusione tanto ingenua quanto pericolosa: l’innesco è diventato troppo debole, rispetto a tutta l’area europea occidentale fino al 1871 e dal 1905 nell’Europa orientale, in Asia e in Africa. Oggi quella fase si è ormai chiusa a livello mondiale. Una borghesia rivoluzionaria che alimenti una guerra, offensiva, aggressiva, rivoluzionaria, democratica, come quella bismarchiana prima della guerra franco-prussiana del 1870-71, non esiste, e non esisterà, più: la fatica che hanno dovuto sostenere l’Italia e la Germania per costituirsi in nazione stanno a dimostrare l’impossibilità oggi, nel quadro della realtà presente (economica, politica e militare), di assecondare una nuova epopea nazionale e quindi una qualche possibilità del proletariato di sfruttare le contraddizioni politico-sociali per trasformarle in rivoluzione in permanenza, com’era scritto nel programma dei comunisti del 1848. Lo slancio dei “popoli colorati”, contro cui la borghesia imperialista e colonizzatrice oppose la propria forza, mascherata come “guerra fredda” tra colossi imperialisti (che a Yalta avevano patteggiato le zone di influenza), fu represso duramente e pacificato per la preoccupazione che altre giovani borghesie si accampassero sulla scena storica per rivendicare il proprio bottino nel mondo.

Il proletariato internazionale non può più prendere sulle sue spalle alcuna rivendicazione nazionale, non può appoggiare in un paese pluri-nazionale né la nazione oppressa in primo luogo (e la borghesia sua portavoce), la più interessata, né la nazione dominante ovviamente, perché negherebbe con ciò la difesa delle condizioni di esistenza e di vita dei fratelli di classe, i proletari, appoggiando privilegi, razzismi, divisioni create dalle due borghesie “nemiche”. Trova invece nella “nazionalità oppressa” il proletariato (e la massa dei senza riserve), che dovrà essere sollevato per istaurare la propria dittatura di classe insieme al proletariato della “nazionalità dominante”, con la parola d’ordine “Proletari di tutto il mondo, unitevi!” e con la tattica del disfattismo rivoluzionario contro le due borghesie alleate. Trova ancora gruppi etnici oppressi: residui rimasti economicamente marginali, aspiranti a federalismi e autonomie locali e culturali, effetti di antiche o recenti suddivisioni imperialiste, che li inchiodano a un passato e a un presente eterni. Trova occupazioni di guerra, come, in Palestina, sulla pelle del proletariato palestinese, di quello arabo-israeliano, e dei rifugiati miserabili della Nakba: occupazioni che non negano alla borghesia palestinese, piccola o grande che sia, di ritagliarsi il suo spazio economico vitale, con l’appoggio della borghesia dominante israeliana. Trova ritagli della mappa politica tracciata, prima, dal colonialismo e poi dall’imperialismo nell’intero Medio Oriente, come il Kurdistan spaccato in nuove e vecchie divisioni che si riflettono all’interno della stessa “nazione oppressa”: curdi iraniani, irakeni, siriani, curdi-turchi, che si spartiscono politicamente ed economicamente ciò che resta di un territorio, che doveva formarsi in “nazione kurda”, come avrebbe dovuto formarsi in “nazione araba” l’intero territorio che dall’Algeria arrivava fino alla Turchia. E il sogno latino-americano di un’unica nazione dalla Colombia al Cile, dov’è finito? Oppresse e/o dominanti, queste popolazioni sono il risultato di suddivisioni o condivisioni di aree di influenza non solo dell’imperialismo (USA in primis), ma delle stesse borghesie indigene: altri ritagli di territori che hanno già visto il passaggio a un’economia pienamente capitalistica. Nello stesso territorio, vive un proletariato materialmente e spiritualmente oppresso che non aspetta più una liberazione nazionale né etnica, ma una liberazione sociale dallo sfruttamento di classe: oppresso in una tale misura da non riuscire più a enucleare dal proprio seno neppure una coscienza dei propri semplici interessi di sopravvivenza.

Rimane la nostra rivoluzione da preparare, da accompagnare e da portare a compimento: la prospettiva non è lontana se perfino il proletariato egiziano delle fabbriche tessili e delle campagne si è fatto sentire… Nelle cosiddette “primavere arabe”, il proletariato ha tentato di scuotersi di dosso lo sfruttamento praticato non solo dalla borghesia imperialista, ma dalla stessa borghesia industriale e agraria nazionale e dalle sue varianti confessionali. Il proletariato, oppresso dalle guerre, dalle emigrazioni forzate, dai lager di contenimento, dagli odi della piccola borghesia e del sottoproletariato, dai potentati religiosi, si presenta, nella sua realtà materiale, senza patria e senza riserve, in balia delle tempeste controrivoluzionarie. Allargando il proprio orizzonte, il proletariato di quelle aree è alla ricerca della propria classe, della “fratellanza degli umiliati e degli offesi”, il cui legame costituisce di fatto la premessa della rivoluzione mondiale, tanto nelle economie ultra sviluppate che nelle economie che non hanno ancora attraversato il confine della sopravvivenza.

1 Lenin, “Sul diritto di autodecisione delle nazioni” (1914), in Opere scelte, Vol. II, p.232, 235.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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