Riunione Generale di Partito - Milano, 24-25/10/2015

 

La seconda parte di questo lavoro (pubblicata nel n.2/2016 di questo giornale), dopo aver introdotto il concetto di produttività del lavoro, fattore di dominio e di schiavitù del proletariato espresso dall’incremento del plusvalore, ha sviluppato le relazioni che legano la produttività alle grandezze intrinseche dell’economia marxista: in particolare, quelle tra produttività e plusvalore, tra produttività e accumulazione, tra produttività e dinamica storica del capitale, tra produttività e saggio del profitto. Nelle relazioni tra produttività, occupazione e popolazione, due tabelle hanno rappresentato, su dati degli Uffici di statistica del lavoro Usa (marzo 2013), la prima l’andamento dell’occupazione nei diversi settori dell’agricoltura, industria, manifattura, servizi (in %) in otto paesi (sviluppati ed emergenti), la seconda gli occupati nell’industria americana (in migliaia) divisi i due settori, beni durevoli (sez. I di Marx) e non durevoli (sez. II di Marx). Procediamo ora e concludiamo con l’analisi del rapporto fra produttività e condizioni di vita e lavoro del proletariato e con il ribadimento della necessaria prospettiva comunista.

 

VIII - Produttività e salari

La corsa dell'accumulazione sospinge la richiesta di forza lavoro e il saggio dei salari. A composizione organica costante, ciò si traduce in un incremento assoluto della spesa per la forza lavoro (v) e nella tendenza alla crescita salariale: è questa stessa dinamica a spingere il capitalista a ridurre la quota di v nella produzione in rapporto al capitale costante che cresce in dimensioni e valore, incrementando ulteriormente la produttività del lavoro. D'altra parte, l'aumento della produttività abbassa sia il valore del capitale costante (macchine e materie prime) sia il valore delle merci destinate alla riproduzione della forza lavoro, di modo che uno stesso salario può rappresentare nel tempo una massa maggiore di merci. Non esiste un rapporto diretto tra crescita della produttività e aumento dei salari (possono aumentare come ridursi e restare stabili) (1); ma anche se l'accresciuta produttività determinasse un aumento dei salari reali, cioè della massa di merci da essi rappresentata, in tutti i casi la miseria relativa dell'operaio è destinata ad aumentare. Lo stesso sviluppo del capitale porta all'incremento della sovrappopolazione relativa, cosicché si inasprisce la concorrenza tra gli operai: "quanto più il capitale produttivo cresce, tanto più si estendono la divisione del lavoro e l'impiego delle macchine. Quanto più la divisione del lavoro e l'impiego delle macchine si estendono, tanto più si estende la concorrenza fra gli operai, tanto più si contrae il loro salario"(2).

L'aumento incessante della scala della produzione richiede un incremento della disponibilità di forza lavoro, cosicché crescita del capitale e crescita del proletariato vanno di pari passo. Lo stesso sviluppo della produttività determina da un lato una progressiva dequalificazione del lavoro, dall'altro una riduzione relativa della componente di lavoro vivo in rapporto alla componente costante impiegata nella produzione. La “guerra industriale fra capitalisti [...] ha come carattere specifico che le battaglie in essa vengono vinte meno con l'arruolamento di nuove armate di operai che con il loro licenziamento. I comandanti, i capitalisti, fanno a gara a chi può licenziare il maggior numero di soldati dell'industria” (3).

Anche in questo caso, la contraddittorietà del processo è evidente nell'esigenza del capitale di utilizzare una massa crescente di forza lavoro nella produzione, e nella altrettanto vitale necessità di licenziare una percentuale crescente di operai nella perenne rincorsa all'aumento della produttività del lavoro. Il risultato è che con la crescita del capitale produttivo aumenta l'esercito industriale di riserva e cresce la concorrenza tra operai: “Se il capitale cresce rapidamente, cresce in modo incomparabilmente più rapido la concorrenza tra operai, cioè sempre più diminuiscono proporzionalmente i mezzi di occupazione, i mezzi di sussistenza per la classe operaia” (4).

Tutta l'argomentazione di Marx in Lavoro salariato e capitale mostra il legame indissolubile che unisce il capitale al proletariato, la loro reciproca dipendenza, come questa dipendenza sia a tutto vantaggio del capitale, spinto dalle sue stesse leggi ad aumentare la pressione sul proletariato, a creare le condizioni per una crescente subordinazione della forza lavoro al suo dominio, espressa nel gigantismo dei mezzi di produzione in rapporto al lavoro vivente.

La crescita della produttività del lavoro esprime l'essenza del dominio del capitale sul proletariato e sulla società intera. Il capitale lega a sé sempre più strettamente il lavoro umano proponendosi come condizione necessaria per la sopravvivenza stessa del proletariato. Se il capitale non cresce, non cresce nemmeno il proletariato, le condizioni della sua sopravvivenza entro questo sistema si riducono: “e ad onta di ciò [ad onta cioè del calo dei salari e dei licenziamenti che esso comporta - NdR] il rapido aumento del capitale è la condizione più favorevole per il lavoro salariato” (5). In questo passo che conclude l'opuscolo, la potenza dialettica di Marx rimanda ancora una volta alla prospettiva della rivoluzione sociale come unica soluzione possibile alle contraddizioni della società presente. Nei limiti del capitalismo, il proletariato vedrà aumentare la sua dipendenza e la sua miseria; solo spezzando le catene che lo legano al capitale, solo negandosi come classe, potrà liberare se stesso e la società intera: “Dire che gli interessi del capitale e gli interessi dell'operaio sono gli stessi, significa soltanto che il capitale e il lavoro salariato sono due termini di uno stesso rapporto. L'uno condiziona l'altro, allo stesso modo che si condizionano a vicenda lo strozzino e il dissipatore. Sino a tanto che l'operaio salariato è operaio salariato – scrive Marx – la sua sorte dipende dal capitale. Questa è la tanto rinomata comunità di interessi fra operaio e capitalista”.



IX - Dal mito del "benessere" alla realtà della miseria crescente

L'aumento della produttività sorge da una necessità interna alla dinamica capitalistica, ma raggiunto un certo grado di sviluppo entra in conflitto con limiti insuperabili dell'attuale modo di produzione. L'incremento della produttività si lega alla crescente composizione organica, e questa alla tendenza alla caduta del saggio del profitto, nella dinamica storica che sancisce inesorabilmente il declino dell'attuale modo di produzione e la necessità del suo superamento. Tuttavia lo stesso incremento di produttività è frenato dalla condizione che il risparmio di lavoro umano superi i costi dell'innovazione. E' per questo che "finché può il capitalista resiste alle innovazioni proprio per la ragione che qualunque spesa in capitale costante di grande valore determina una caduta del saggio del profitto di cui ha terrore" (“Chiodi de Il Capitale di Marx”, materiale interno di lavoro).

Tornando ai nostri tempi, si è visto che l'aumento della produttività della Germania dal 2000 in poi risulta inferiore rispetto a tutti i concorrenti, con l'eccezione della disastrato capitalismo italico, e ciò nonostante – e forse proprio per questo – il capitalismo tedesco ha contemporaneamente aumentato la sua competitività sui mercati mondiali. Il successo è derivato non da una crescita della produttività che tutti sembrano rincorrere come condizione sine qua non per la ripresa, ma dai benefici delle riforme del mercato del lavoro promosse dal governo Schröder, la cosiddetta "Agenda 2010": contenimento dei salari, riduzione degli investimenti pubblici e privati, aumento della percentuale di lavoratori con contratti temporanei e sottopagati, frammentazione del mercato del lavoro. Qualcosa di simile è accaduto in Italia, il cui declino non nasce affatto dalle scarse opportunità per gli investitori di fare profitti, se è vero che nel primo decennio di questo secolo il saggio del profitto ricavato dall'investimento di capitale in Italia è stato superiore – al netto delle tasse pur elevate – a quello di Germania e Francia (rispettivamente 16,1%, 12,5, 13,9) (7).

Per andare al nocciolo della questione dobbiamo sempre riferirci alla dinamica della produzione/valorizzazione capitalistica. L'alto saggio medio del profitto è frutto di una relativamente bassa composizione organica media, ma "al di là di certi confini un grande capitale con basso saggio di profitto si accumula più rapidamente che un piccolo capitale con un grande saggio di profitto! “(Marx, Il Capitale III, cap.XV). “Al di là di certi confini”, cioè in presenza di grandi masse di capitale in cerca di valorizzazione, quello che conta più del saggio è la massa del profitto che si può ricavare dal loro impiego, è l'incremento assoluto, non relativo, del profitto. Ancora una volta si conferma che il limite di un basso livello di concentrazione, cui corrisponde un grado di accumulazione relativamente basso, rende un sistema produttivo inadeguato a affrontare la competizione tra colossi produttivi mondiali, e che l'incremento di produttività è una necessità vitale del capitale.

Nel modo di produzione capitalistico la tendenza è “di diminuire a zero il lavoro necessario e di estendere al massimo il pluslavoro”. Il programma della società comunista prevede l'abolizione del pluslavoro e la riduzione della intera giornata lavorativa a lavoro necessario. Nella società capitalistica la spinta alla riduzione della parte di lavoro necessario – per l'aumentata produttività - può comportare una riduzione della giornata lavorativa senza che questo muti minimamente il carattere capitalistico della produzione: neppure quando “la forza produttiva del lavoro in aumento, il prezzo della forza lavoro potrebbe essere in caduta costante, mentre la massa dei mezzi di sussistenza dell'operaio potrebbe contemporaneamente e costantemente aumentare” (dal nostro testo “Scienza economica marxista come programma rivoluzionario”) (8). In questo caso, sarebbe aumentata significativamente la quantità di beni disponibili per il consumo operaio, ma in un contesto di calo generale dei prezzi di tutte le merci, forza lavoro compresa. Il quadro è quello dell'attuale capitalismo ipersviluppato, dove il proletario può disporre di TV al plasma, tablet di ultima generazione, frigo pieno di cibo-spazzatura, ecc. Finché è occupato. Ma tutta questa dotazione attiene alla sua riproduzione immediata, non è giammai valore che si conserva e che può preservare l'operaio dall'abisso della miseria.

Nella società capitalistica, la crescita della ricchezza coincide con la crescita del plusvalore, e il plusvalore deriva essenzialmente dall'espansione della produzione industriale (o meglio, dall'applicazione del lavoro umano all'industria); questo comporta che i cosiddetti “emergenti” non raggiungeranno mai i livelli di reddito pro-capite delle vecchie potenze industriali, il relativo “benessere” diffuso di cui il capitalismo si vanta di essere il generoso dispensatore. In essi l'inizio della fase di declino della quota di impiego nell'industria avviene da livelli di reddito pro capite molto più bassi rispetto a quelli dei paesi di vecchia industrializzazione (10.000 € circa per i vecchi”, ai prezzi del 1990; rispettivamente 5000, 3000 e 2000 € per Brasile, Cina e India) (9). Tanto nell'occidente imperialista quanto nelle nuove serre dell'accumulazione, il capitalismo mostra sempre più manifestamente il suo vero volto di dispensatore di miseria.



X- Verso il comunismo



Uno sviluppo delle forze produttive che avesse come risultato di diminuire il numero assoluto degli operai, che permettesse in sostanza a tutta la nazione di compiere la produzione complessiva in un periodo minore di tempo, provocherebbe una rivoluzione perché ridurrebbe alla miseria la maggior parte della popolazione” (Marx, Il capitale, Libro III*, cit., p.317).

La modesta ripresa della produzione mondiale seguita alla crisi del 2008-2009 si è accompagnata dunque a un ristagno di produttività in diversi paesi. La carenza di investimenti finalizzati ad aumentare la produttività e la tendenza ad aumentare il plusvalore assoluto (riduzione dei salari, flessibilità del lavoro, riduzione degli occupati a parità di composizione tecnica) per accrescere la redditività del capitale, non sono però la causa del ristagno produttivo, come vorrebbero gli interpreti borghesi, operando il solito ribaltamento idealistico.

La caduta degli investimenti e l'accresciuta pressione sul lavoro vivo sono conseguenze delle difficoltà di valorizzazione dovute al grado raggiunto dallo sviluppo delle forze produttive. I capitalisti sanno fare bene i loro conti: evidentemente investire in innovazione in un contesto di produttività già così elevata è meno conveniente della pressione sulla manodopera occupata e del contenimento salariale. Nella fase attuale si manifesta la potente contraddizione tra la crescita della produttività come massima leva dell'accumulazione e dell'incremento della produzione e il limite che questa crescita incontra nella riduzione ai minimi termini del lavoro necessario entro la giornata lavorativa. Ne derivano alcune importanti conseguenze:

-Si investe poco in “innovazione” semplicemente perché è sempre meno capitalisticamente redditizio. Il livello medio della composizione organica del capitale è già talmente alto che un suo ulteriore innalzamento non comporterebbe alcun vantaggio, perché il risparmio di lavoro umano pagato sarebbe minimo, non tale da compensare le ingenti spese dell'innovazione.

-I mercati del capitale sono "intasati” dalla necessità di investire produttivamente e dalla contemporanea mancanza di condizioni favorevoli all'investimento. Si è raggiunto il limite che il capitale pone allo sviluppo delle forze produttive come fattore potenziale di liberazione dal regno della necessità.

-Si diffonde la tendenza a sfruttare intensivamente i vecchi macchinari, per distribuirne il logorio su un periodo il più lungo possibile e per sfuggire alla caduta del saggio del profitto che consegue all'innovazione (la conferma più evidente si ha nella vetustà dei macchinari industriali giapponesi, il primo paese di capitalismo avanzato a entrare in stagnazione-deflazione).

-Aumenta la pressione sulla forza lavoro, si impone una nuova legislazione sulla flessibilità del lavoro, calano le retribuzioni, procede lo smantellamento del welfare, aumenta la percentuale di disoccupati cronici, di sottoccupati, ecc.

-La produzione ristagna, gli indici della produzione raggiungono a fatica i livelli che normalmente si registrano dopo le crisi cicliche. Ciò che viene a mancare è proprio la spinta all'aumento della produttività in seguito a un innalzamento della composizione organica. Di conseguenza viene meno l'aumento della massa del prodotto, l'aumento della produzione.

-Si gonfia la pletora di capitali in cerca di valorizzazione nei circuiti finanziari: masse di capitale finanziario si spostano rapidamente sui mercati mondiali alla ricerca di adeguati rendimenti in un contesto di tassi di interesse bassissimi, riflesso del basso livello del saggio del profitto medio. L'enorme liquidità garantita dalle banche centrali per salvaguardare il valore dei titoli nei portafogli dei sistemi bancari, non trovando impieghi remunerativi genera bolle speculative. Gli indici borsistici salgono non in conseguenza di una ripresa produttiva, ma per una abbondanza di liquidità che non trova impiego. Nel 2014 le grandi aziende americane, con le casse gonfie di denaro, non avendo dove collocare produttivamente i loro utili ne hanno devoluto il 95% in dividendi azionari, e qualcosa di analogo sta accadendo in Giappone. Paradossalmente, le tasche dei rentier si gonfiano di denaro proprio grazie all'inaridirsi della fonte dei profitti! (10) La religione produttivistica del capitalista disposto a rinunciare a una parte dei suoi consumi a vantaggio dell'investimento rivela tutta la sua ipocrisia: il capitalista non investe per produrre di più perché non ne ha tornaconto!

-La competizione sui mercati mondiali, resa sempre più acuta dalla tendenza alla sovrapproduzione di capitali e di merci e dalla contemporanea contrazione dei tassi di incremento del commercio internazionale, spinge verso un crescente interventismo statale a sostegno delle produzioni nazionali e a una continua ristrutturazione dei sistemi produttivi. Quanto più la dinamica dell'accumulazione segna il passo, tanto più i governi intervengono per favorire la concentrazione e l'innovazione tecnologica. Non per caso, nel dopo-crisi, proprio il capitalismo dominante e più organizzato ha registrato la crescita di produttività più alta rispetto ai tradizionali concorrenti e una ripresa della manifattura dopo decenni di declino, grazie al determinante sostegno governativo (11). Qui da noi, nel degrado della politica borghese, impegnata a farsi le scarpe e a intascare prebende, la bandiera della produzione è raccolta dalla "sinistra sindacale" e democratica, che invoca "politiche industriali" per il rilancio di economia e occupazione. Essi vedono la "crisi del lavoro", non la crisi del capitale.

***

Ritorniamo, per concludere, al dibattito di economisti e pensatori borghesi da cui siamo partiti. In rapporto alla riduzione non solo relativa, ma anche assoluta di impieghi indotta dalle nuove tecnologie, tanto nell'industria quanto nei servizi, alcuni prospettano fantasiosi scenari ottimistici, ma i più si preoccupano della crescita assoluta della disoccupazione come un problema sociale di difficile gestione (12). Si avanzano due scenari possibili: il primo prefigura una stagnazione cronica causata dalla fine del ciclo di sviluppo indotto dalla rivoluzione informatica e dall'assenza di adeguate prospettive di investimento in settori innovativi; il secondo prevede l'apertura di una nuova fase di innovazione su base informatica (IV rivoluzione industriale) che dovrebbe vedere “la comparsa di macchine veramente intelligenti che diventeranno i sostituti perfetti dei lavoratori di bassa e media qualificazione. I 'robot' e l'Internet delle cose daranno il via ad aumenti della produttività in aree quali l'efficienza energetica, i trasporti, l'assistenza medica e la personalizzazione della produzione, con le stampanti tridimensionali” (13). Se anche si verificasse questa seconda ipotesi "ottimistica", la conseguenza sarebbe un'ulteriore massiccia contrazione dell'occupazione nel terziario, il settore che ha permesso la tenuta dell'occupazione negli ultimi decenni, e un brusco innalzamento della composizione organica nella piccola produzione.

In entrambi i casi per il capitale si metterebbe male. L'alternativa sarebbe tra bassa crescita, difficoltà debitorie, inflazione/deflazione, protezionismo da una parte, dall'altra “persistente disoccupazione di massa." Con il rischio "che i problemi sociali diventino ingestibili, dato che i progressi tecnologici potrebbero essere considerati un vantaggio per i ceti abbienti e causa di più gravi difficoltà per le masse”. I proletari, continua l'articolo, potrebbero infine chiedersi: “Perché non dovremmo rallegrarci di un carico di 25 o 30 ore lavorative settimanali e di due mesi di ferie all'anno? [e si accontenterebbero ancora di ben poco!] Perché con i progressi tecnologici e con l'imminente aumento della produttività, tanti continuano a sostenere che tutti dovrebbero lavorare di più e andare in pensione più tardi...? (14). Il giornalista lascia la questione in sospeso, ma per noi comunisti la risposta è semplice: non rientra tra gli obiettivi del capitale il soddisfacimento dei bisogni umani se questi non sono piegati alle necessità dell'accumulazione. Accumulazione e profitto sarebbero colpiti a morte da simili concessioni che il capitale non può permettersi. Quelle che ha potuto riconoscere parzialmente, e solo in conseguenza di dure lotte operaie negli anni di massima espansione post-bellica (la cosiddetta "età dell'oro") sono state in gran parte ridotte o sono in via di cancellazione. Ora che arranca a tassi di crescita medi tra l'1 e il 2%, il capitale richiede dai suoi schiavi il massimo sforzo con la minima spesa: "remate, dannati del capitale, o la barca affonda!". E' giunto per gli schiavi salariati il momento di liberarsi dalle catene e, sotto la guida del loro Partito, affondare la nave prima che li trascini con sé negli abissi. Il comunismo prospetta loro ben più che qualche giorno di ferie e qualche anno di pensione in più.

Oggi come non mai l'umanità si trova al bivio tra il salto epocale verso una nuova era o la caduta nel baratro. Le potenzialità di innovazione tecnologica non sono in discussione come tali, anche se la qualità dell'innovazione e i suoi prodotti hanno il marchio indelebile dello scopo per cui sono nati, il profitto. Quando un modo di produzione ha esaurito la sua funzione storica, emergono i limiti che il sistema impone allo sviluppo delle forze produttive, non quantitativamente, ma nella loro potenzialità di liberazione dell'umanità dal bisogno, mai soddisfatto dalla immane raccolta di merci che esce dalla fucina del capitale. Il diaframma che si frappone alla liberazione delle forze produttive a favore della specie è davvero fragile, e se oggi il capitale dispone di apparati ideologici, repressivi e militari senza precedenti è perché la forza potenziale della rivoluzione è immensa (15). Anche affidandosi in modo crescente alla tecnologia, gestita da schiere di imbecilli superesperti, il capitale tuttavia trema di fronte alle dimensioni dell'esercito proletario mondiale e al potenziale rivoluzionario contenuto nelle macchine generate dal lavoro umano di cui si è impadronito.

(Fine)



Note

1- “Infatti l'accumulazione va di pari passo con l'incremento dei mezzi di produzione a parità di forza lavoro impiegata, ma mentre con l'accumulazione il prezzo della forza lavoro tende a crescere, tende invece a diminuire, per essere cresciuta la produttività del lavoro, il valore delle macchine e delle materie prime. Il fenomeno in esame [la forbice tra valore di v e di c] ne resta non annullato ma rallentato. Inoltre va notato che anche decrescendo il capitale salari per rapporto a quello costante, esso capitale salari può aumentare in grandezza assoluta se è stato forte l'aumento della massa totale del capitale [...]In generale, il mutamento della composizione del capitale può far sì che si abbia aumento, stazionarietà o diminuzione del fondo salari” (Elementi dell'economia marxista [1929], Edizioni Il programma comunista, Milano 1991, p.68-69).

2- Marx, Lavoro salariato e capitale, cit., p.78. In corsivo nel testo.

3- Marx, Lavoro salariato e capitale, cit., p.76. In corsivo nel testo.

4- Marx, Lavoro salariato e capitale, cit., p.78. In corsivo nel testo.

5- Marx, Lavoro salariato e capitale, cit., p.79. In corsivo nel testo.

6- Marx, Lavoro salariato e capitale, cit., p. 60.

7- M.Panara, “Tra i grandi di Eurolandia l'Italia regina dei profitti e cenerentola del lavoro", La Repubblica. Affari e finanza, 10/6/2013.

8- In “Scienza economica marxista come programma rivoluzionario” (1959). Il nostro testo fa riferimento al Capitale, I, V sezione, 15° capitolo, paragrafo 4: “Intensità e forza produttiva del lavoro in aumento e contemporaneo abbreviamento della giornata lavorativa”.

9- I dati sono presi da D.Rodrik, “Il futuro a portata di manifattura”, Il Sole24Ore, 16/10/2013.

10- M.Longo, “Fondi Usa: speculazione sulla Grecia”, IlSole24Ore, 31/5/15.

11- M. Valsania, “Il cuore industriale degli Usa”, Il Sole24Ore, 27/9/2014.

12- "Secondo la Banca mondiale, entro il 2030, il Pianeta perderà 2 miliardi di posti di lavoro, mentre nei prossimi dieci anni entreranno nel mercato del lavoro 1 miliardo di persone. Secondo l’ILO, entro il 2018 la disoccupazione nel mondo riguarderà 215 milioni di persone. Se si avverasse l’impatto di questi fenomeni previsti da grandi Organizzazioni mondiali, se si realizzasse l’ipotesi di una diminuzione d’incidenza dell’occupazione, che farà il resto della popolazione per vivere?" (Carlo Carboni, “Partita tecnologica sul lavoro”, Il Sole24Ore, 1/5/2015.

13- Kemal Dervis, “I conti da rifare con il nuovo progresso”, IlSole24Ore, 4/5/2014.

14- Kemal Dervis, “I conti da rifare con il nuovo progresso”, cit.

15- Cfr. al riguardo il nostro testo “Lezioni delle controrivoluzioni” (1951), ora in Lezioni delle controrivoluzioni. Classe, Partito, Stato nella teoria marxista, Edizioni Il programma comunista, Milano 1994.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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