“… questa controrivoluzione di oggi non potrà nemmeno essa passare invano; e se avrà portato il capitalismo verso gli Urali e verso i mari del Levante, anche questo segnerà la strada per la rivoluzione proletaria, che batterà dall'Atlantico al Pacifico le forze mostruose del capitale; sola prospettiva storica che esso debba finalmente, e dopo tanti bestiali ritorni, piegare la testa” [“Sul filo del tempo. La controrivoluzione maestra”, Battaglia comunista, n.18/1951].

Ormai, anche al di fuori delle nostre cerchie, è sempre più diffusa la percezione che nei paesi a capitalismo avanzato la crisi non troverà soluzione, e che il suo approfondirsi accentuerà la polarizzazione di classe e spingerà il sistema politico a evolvere di verso forme di controllo totalitario. E' un processo che non può sfuggire a chiunque sia dotato di strumenti interpretativi e conservi un minimo di “onestà intellettuale”.

Ci riferiamo in particolare a un articolo in cui il filosofo Giorgio Agamben (1) interpreta la valenza della proroga dello stato di emergenza in Francia dopo i sanguinosi atti terroristici di Parigi, confrontandola con la vicenda della Germania tra le due guerre mondiali. L'autore associa la situazione emergenziale della Francia odierna allo “stato di eccezione” codificato nell'articolo 48 della Costituzione di Weimar, che consentì prima la repressione del movimento proletario tedesco nel pieno rispetto della legislazione democratica e poi, con l'ascesa di Hitler, la conferma di uno stato di emergenza permanente e l'instaurazione per via del tutto legale di un ordine totalitario. Nulla impedisce che la proroga dell'emergenza in Francia preluda a esiti analoghi in un futuro non troppo lontano. Secondo l'autore, anzi, l'insistenza ossessiva sulla “sicurezza” come priorità dell'iniziativa politica dello Stato, l'utilizzo dell'emergenza terroristica come fattore di legittimazione di una deriva autoritaria condotta in difesa della stessa democrazia prefigurano il passaggio dallo “Stato di diritto” a un nuovo assetto definito come “Stato di sicurezza”, dove una condizione di incertezza permanente, debitamente alimentata, autorizza gli apparati del potere ad agire in piena autonomia dai rituali democratici. L'esecutivo e gli organi alle sue dirette dipendenze, compresi quelli “profondi” che garantiscono continuità repressiva nel variare dalle stagioni politiche, assumono il pieno controllo dello Stato relegando parlamenti e magistratura a un ruolo ancillare. La lettura del filosofo rileva un'obiettiva trasformazione della politica borghese, anche se potrebbe sottintendere il rimpianto per uno “stato di diritto” che per noi è solo l'involucro formale della dittatura della classe al potere, solo lievemente “temperata” nelle fasi in cui il torpore proletario lo consente.

Tuttavia, scorrendo l'articolo, sorprende qualche passaggio particolarmente crudo. Per esempio: “Il rischio è qui la deriva verso la creazione d'una relazione sistemica tra terrorismo e Stato di sicurezza: se lo Stato ha bisogno della paura per potersi legittimare, si deve allora produrre il terrore o, quanto meno, non impedire che si produca. Vediamo così degli Stati perseguire una politica estera che alimenta quello stesso terrorismo che devono poi combattere all'interno e intrattenere relazioni cordiali, se non addirittura vendere armi a Paesi che risultano finanziare le organizzazioni terroristiche”.

In effetti, gli attentati che hanno insanguinato Parigi nel corso del 2015 e Bruxelles a marzo 2016, con le loro dinamiche spettacolari e per certi aspetti inverosimili, e gli interventi militari occidentali in corso e in preparazione nel Medio Oriente s’inquadrano perfettamente in questa lettura della perenne emergenza. Se a ciò si aggiunge la forte drammatizzazione del problema dell'immigrazione, alimentata dagli squilibri economici mondiali e resa esplosiva dalle guerre destabilizzanti condotte dall'Occidente (Iraq, Libia), il sospetto che vi sia una strategia finalizzata ad accrescere la percezione di precarietà, incertezza e paura in Europa non sembra del tutto campato in aria.

Agamben riconosce un altro parallelo storico nell'elemento che, secondo i giuristi nazisti, dava legittimazione allo Stato, in presenza di masse completamente “depoliticizzate”, private di ogni possibilità di manifestazione e iniziativa politica: l'“uguaglianza di stirpe e di razza”, il riconoscimento del nemico fuori da questa cerchia, nello straniero. Oggi, l'emergenza migratoria in Europa rafforza il senso dell'appartenenza a un’identità culturale, in cui i fattori etnici e religiosi svolgono un ruolo fondamentale.

Vengono alla mente gli episodi, di forte contenuto simbolico, del Capodanno a Colonia: “lo straniero insidia le nostre donne” è un messaggio arcaico che può toccare sentimenti profondi. Il parallelo tra immagini di immigrati ospitati in alberghi e quelle di famiglie italiane sfrattate e costrette a vivere in strada suggerisce una relazione di causa-effetto, o quanto meno associa un'ingiustizia non all'appartenenza di classe, ma all'appartenenza etnica: il messaggio “lo straniero ci toglie la casa” completa il più classico “ci toglie il lavoro”. La non-gestione e l'esasperazione del problema migratorio, al pari del terrorismo, alimentano la fobia xenofoba e rafforzano il senso di appartenenza nazionale, etnica, religiosa e razziale, di contro a quello di classe: se le altre formazioni politiche non si faranno interpreti di quel senso di identità, la strada per futuri successi elettorali dell'estrema destra è aperta (2).

Che ci sia una strategia o no, questa sembra essere la direzione presa dagli eventi. La perpetuazione di un'emergenza motivata da insidie provenienti dall'esterno impone la priorità “sicurezza” su ogni altro motivo di conflitto, specie se dai connotati sociali e classisti, e comporta la delega in bianco alle istituzioni che a essa presiedono.

D'altra parte, il repertorio della politica borghese non dispone di varianti che possano tracciare delle credibili linee di demarcazione tra un raggruppamento e l'altro. La democrazia borghese scivola naturalmente verso l'omologazione degli schieramenti, dove ormai “le persone” contano ben più delle “idee”, ridotte a cieca sottomissione agli interessi del mercato e dei grandi gruppi capitalistici. Se ne distinguono – all'apparenza – solo le forze che sostengono apertamente il ritorno a chiusure nazionali e a un forte intervento dello Stato nell'economia, facendosi paladine proprio di quei “diritti” (lavoro, salute, pensione) che tutti i governi, di destra come di sinistra, hanno progressivamente cancellato. Anche in questo caso viene immediato il parallelo con i sistemi totalitari del Novecento che hanno coniugato repressione anti-operaia e politiche “sociali” di rientro della disoccupazione, assistenza, previdenza, ecc… Lo stesso “partito della Nazione”, così spesso evocato, riprende pari pari la qualifica di cui si fregiava il PNF (Partito Nazionale Fascista) ed esprime l'intento di unificare tutte le forze borghesi per il rilancio dell'economia e della proiezione estera del paese, esattamente come intese fare, con una retorica più roboante, il fascismo storico. Il baricentro della politica borghese si sposta a destra e la partita tra schieramenti non si gioca su politiche differenti, ma sulla capacità di proporsi per condurre la stessa politica, obiettivamente fascista.

La deriva di destra è un tentativo di risposta al caos incontrollabile della “globalizzazione”. Tuttavia, la possibilità di una politica che realizzi il controllo totalitario delle forze economiche si scontra proprio con la complessità di strutture produttive e di supporto alla produzione che sono nazionali, ma inserite in una “catena di valore” internazionale e dipendenti dai mercati mondiali senza limitazioni di area. Richiede di conseguenza una corrispondente proiezione politica internazionale di vasto raggio che medie potenze come Germania, Francia e Italia non sono in grado di condurre separatamente. L'integrazione politica in un'area più vasta s’impone loro come esigenza vitale per sottrarsi alla morsa dei colossi statali d'America e d'Asia, ma gli ostacoli e le resistenze interne e internazionali a una simile prospettiva sono enormi. La stessa “emergenza profughi” favorisce una nuova forma di coesione interna ai singoli Stati, ma al tempo stesso rischia di approfondire la frattura Nord/Sud, tra Paesi mediterranei più esposti alle ondate migratorie e Paesi dai confini terrestri più controllabili.

Nonostante la fioritura di pubblicazioni del giurista nazista Carl Schmitt – riscoperto, guarda caso, tanto da studiosi di destra quanto di “sinistra” (3) –, la sua soluzione dei mali della globalizzazione con la creazione di grandi “aree di influenza” dai distinti caratteri culturali (“popoli del mare” e “popoli della terra”: Eurasia da una parte e America dall'altra, in definitiva) non è una risposta credibile al caos del presente. Esiste ormai un'unica economia mondiale, frutto inevitabile dello sviluppo capitalistico, e l'idea di retrocedere verso limitazioni di aree tra loro omogenee è, oltre che regressivo, utopistico. Se si realizzasse qualcosa del genere, sarebbe il preludio o l'effetto di una guerra generale.

D'altra parte, lo stesso processo di blindatura della politica europea è effetto della crisi storica del modo di produzione attuale, e come tale non reversibile né arginabile con mezzi pacifici. Come è avvenuto per il fascismo storico e per il nazismo, il processo si realizza senza contraddire le forme democratiche, e con largo consenso popolare. Già molti passaggi sono stati compiuti, o sono in via di perfezionamento: in campo sindacale, nel controllo sociale capillare, nel rafforzamento dell'Esecutivo rispetto agli istituti di rappresentanza, nella progressiva militarizzazione della società, ecc… La crisi, senza alterare la sostanza del dominio borghese, ne muta alcune forme esteriori, lo libera della finzione della partecipazione democratica, che ieri si svolgeva nell'appoggio incondizionato delle adunate oceaniche e oggi dei sondaggi d'opinione; si fa portatrice di scelte motivate dall'emergenza (crisi economica, disoccupazione, immigrazione, terrorismo, guerra) e su ciò costruisce il consenso. Ma la perenne emergenza, il pilastro su cui si regge l'intera costruzione, se non trova ancora alimento nell'insorgenza del proletariato, prepara e anticipa questa prospettiva. La blindatura di tutti gli aspetti della vita sociale, costantemente rafforzata da emergenze reali o presunte, è l'arroccamento della classe in declino di fronte alla minaccia di un proletariato mondiale enormemente accresciuto nei decenni della mondializzazione: guai se esso trovasse la strada per organizzarsi in forme indipendenti di difesa economica e soprattutto guai se la ritrovata consapevolezza della propria forza lo indirizzasse al suo partito!

 

1- Giorgio Agamben, “Da Weimar a Parigi. Guerra allo Stato di diritto”, Il Sole-24Ore”, 24/1/ 2016. Interessante anche un'intervista di Juliette Cerf al filosofo, su www.telerama.fr.

2- Sullo schiacciamento della politica francese sulle posizioni del Front National, cfr. l'articolo “Il Front National blinda l’ordine sociale”, Le Monde Diplomatique-il Manifesto, gennaio 2016.

3- G. Pedullà, “Il giurista dell'eccezione”, IlSole-24Ore, 24/1/ 2016.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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