Dopo oltre 50 giorni di bombardamenti con oltre 2000 morti, tra cui donne e bambini, l’aggressione delle borghesie israeliana e palestinese, scatenata negli scorsi mesi sui proletari di Gaza, si è momentaneamente fermata. L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha ripreso il proprio ruolo di controllo secondo gli accordi di sicurezza stipulati a Oslo nel 1993 con gli assedianti-occupanti israeliani. Villaggi, enclaves, rifugi, campi profughi, città della Cisgiordania della zona A (il 18% del territorio, area amministrativa governata dall’ANP), della zona B (il 21%, area in cui la responsabilità civile spetta ai palestinesi e la sicurezza agli israeliani) e della zona C (controllata esclusivamente dagli israeliani) ritornano dunque alla cosiddetta normalità. In questo territorio, che chiamano eufemisticamente “palestinese”, in cui povertà, miseria, disoccupazione dilagano tra case miserabili addossate le une alle altre, mura alte fino a 8 metri di altezza che cingono paesi e città, torrette che sorvegliano il territorio e una densità urbana al limite dell’impossibile, i due Stati, con le loro polizie, imbrigliano il proletariato, riprendendo il controllo delle strade e la caccia ai giovani manifestanti (gli arresti sono all’ordine del giorno). “Mettere in sicurezza” il territorio è compito comune dell’ANP e dell’esercito israeliano: è la parola d’ordine. Ma ci sono ancora alcune “anime belle” che, non potendo più mentire sulla condizione reale del proletariato palestinese, continuano a disquisire sulla pretesa “assenza di uno Stato riconosciuto” e al tempo stesso lamentano la “presenza pressante della polizia palestinese”… Delle due, l’una: o la polizia palestinese è una quinta colonna, una riserva dello Stato israeliano, oppure essa è l’espressione della borghesia palestinese e del suo Stato.

I media ci hanno riferito che, alla fine dell’ennesimo macello perpetrato a Gaza, s’è verificata una “resa dei conti” tra le varie fazioni di Hamas, con la fucilazione di cosiddetti collaborazionisti: essa dimostra che la frattura sociale tra le classi avanza e penetra in modo stringente in mezzo alle file dei miliziani. Noi osiamo pensare e sperare che anche elementi proletari stiano lentamente prendendo “consapevolezza” della propria condizione sociale e si preparino a battersi – purtroppo senza alcuna possibilità di vittoria oggi, se non li soccorre il proletariato delle metropoli occidentali. Sulla base degli accordi diOslo, l’Autorità Nazionale Palestinese (ci spiega Le Monde Diplomatique dell’ottobre 2014) “non ha alcun diritto di usare la forza in casi di attacco da parte dei coloni, […] deve rimettersi alle autorità israeliane cooperando nell’individuare e interrogare i militanti palestinesi che costituiscano un pericolo ‘potenziale’ rispetto a Israele”. La polizia palestinese è riconosciuta dalla popolazione come collaborazionista per i numerosi arresti di oppositori compiuti negli ultimi anni, spiega il direttore del campo di rifugiati ad Aida (Betlemme),“a volte su ordine israeliano […] Come è possibile aver fiducia in un organismo che è sottomesso al buon volere degli occupanti e che per noi è addirittura una minaccia?”. All’inizio del 2013, i rifugiati hanno distrutto il posto di polizia presente nel campo, cacciando i poliziotti.“Alla fine abbiamo l’impressione che l’unica cosa che li distingue dai soldati israeliani sia la bandiera (palestinese) sotto la quale lavorano”. Né all’Olp né a Fatah sfugge questa realtà, perché non suscitano scandalo le affermazioni pronunciate in assemblea da Abu Mazen, davanti a giornalisti e militanti, il 28 maggio di quest’anno a Ramalla: “Il coordinamento [con Israele, NdR] in materia di sicurezza è sacro, sacro. E continuerà, che noi siamo o no in disaccordo con gli israeliani”. L’accordo,firmato al Cairo nel 1994, così si esprimeva: “agire sistematicamente contro ogni incitamento alterrorismo e alla violenza contro Israele”, “impedire ogni atto di ostilità” contro le colonie e “coordinare le [loro] attività” con l’esercito israeliano, soprattutto attraverso lo scambio di informazioni e operazioni congiunte. Il 9 gennaio 2005, dopo le elezioni di Abu Mazen, questa politica ha preso nuovo slancio con la riforma dei servizi di sicurezza.DalRapporto dell’International Crisis Group (Squaring the circle: Palestinian security reformunder occupation, 7 sett. 2010, www.crisisgroup.org), traiamo alcuni dati: le forze di polizia e di gendarmeria palestinesi ammontano a circa trentamila uomini (1 su 80 abitanti in Cisgiordania – un rapporto fra i più alti nel mondo: in Francia, il rapporto è di 1 su 356). Queste forze sono state organizzate dagli Usa che hanno formato unità speciali dotate di veicoli moderni e armi sofisticate. I servizi di sicurezza, finanziati da Washington e dagli europei, assorbono oltre il 30% del bilancio annuale dell’Autorità, pari a 3,2 miliardi di euro per il 2014, un totale superiore alla somma delle spese destinate all’istruzione, alla salute e all’agricoltura. Così spiega l’ex ministro dell’interno palestinese, in carica dal 2009 al 2014, Said Abu Alì: “La politica di coordinamento è un successo per le due parti… gli sforzi che abbiamo fatto per ristabilire l’ordine sono riusciti a garantire una certa stabilità in Cisgiordania e a vincere contro terrorismo ed estremismo. C’è chi condanna la cooperazione dei nostri servizi con Israele e ci accusa di ‘collaborazione’ ma non ha nulla a che vedere con questo. Il nostro scopo è costruire uno Stato e la sicurezza è uno dei suoi pilastri fondamentali”. Ed ecco a che cosa porta questa politica della sicurezza (sempre da LeMondeDiplomatique, cit.): “Nel 2013 l’esercito israeliano ha arrestato in Cisgiordania oltre 4600 civili palestinesi nel corso di circa 4000 interventi, una trentina sono stati uccisi… quanto alla polizia dell’Autorità, è regolarmente accusata di compiere abusi e di mantenere in stato di detenzione arbitraria diversi oppositori politici (proprio come la polizia di Hamas a Gaza)”. A questi dati seguono le considerazioni del sociologo Abaher al Sakka, che insegna all’università di Bir Zeit(Ramalla):“Questa politica di sicurezza che i nostri dirigenti giustificano in nome dello Stato futuro, serve in realtà a dare garanzie alla ‘comunità internazionale’ da cui l’Autorità dipende finanziariamente, e a impedire focolai di rivolta nei territori”. La situazione di crisi generale, che tocca naturalmente anche quest’area, ha visto negli ultimi anni la mobilitazione della popolazione contro la politica del governo. Come dappertutto, le politiche liberiste cui il capitale ha fatto ricorso nel tentativo di fronteggiare la propria crisi“dal 2007 hanno visto il sostegno del Fondo monetario internazionale, dellaBanca mondiale e dei paesi donatori”. Come in molti paesi, buona parte della spesa statale e sociale è stata tagliata e messa sotto il controllo delle imprese private: “eliminazione di 150mila posti di funzionari, compressione dei salari, riaggiustamento della previdenza sociale, aumento delle disuguaglianze sociali, distruzione di posti di lavoro e aumento del costo della vita, discesa del Pil da 7% (2008) a 1,5% (2013)”. Il“boom economico” della “tigre palestinese” degli anni precrisi, tanto esaltato dagli esperti e merito in verità degli aiuti internazionali che “coprono metà del bilancio dell’Autorità”, si è rovesciato in “una crisi finanziaria senza precedenti non appena nel 2010 gli aiuti dei donatori si sono esauriti”. Il tasso di disoccupazione viaggia attualmente dal 20% al 30% in Cisgiordania e al 40% a Gaza, il tasso di povertà colpisce un quarto della popolazione, mentre il reddito dei ricchi è cresciuto del 10% nel corso della crisi.

Spiega ancora Abaher al Sakka:“La maggior parte dell’economia del paese si concentra nelle mani di grandi famiglie e di nuovi ricchi, legati in gran parte al potere e che si avvalgono delle sue reti. Sono alla testa di imprese che controllano settori della telefonia, delle costruzioni, dell’energia, dell’alimentazione, ecc. Alcuni di loro investono nel mercato israeliano e nelle colonie industriali. In cambio godono di privilegi assegnati loro da Israele, come possibilità di passare per primi ai check-point. A Ramalla è facile vedere sfrecciare al centro della città questi ‘Vip’ al volante di fiammanti autovetture; vivono in quartieri eleganti lontani mille miglia dall’universo dei campi di rifugiati”. Sempre Le Monde Diplomatique ci offre poi qualche dato sul commercio (i palestinesi importano da Israele il 70% dei prodotti e vi esportano l’85%) e sulle tasse doganali (incassate da Tel Aviv, mentre spetterebbero all’Autorità palestinese). Che fare, dunque?

Più interessante la rabbia espressa da un giovane che ha visto morire un suo amico ucciso dai soldati israeliani: “Le élite e i capitalisti di Ramalla, con le loro grosse Mercedes e i loro fuoristrada, non ci rappresentano. Ci trattano da ‘terroristi’ ed ‘estremisti’ mentre cerchiamo solo di resistere all’occupazione! Dobbiamo smantellare l’Autorità. Non serve a niente, solo a portare avanti negoziati vaghi, che alla fine sono la sua unica ragion d’essere, il suo business!”.

In questi affermazioni radicali d’ordine politico ci sono, confusi insieme, i bisogni e le illusioni delle nuove generazioni proletarie. A esse ci rivolgiamo: comprendano che due sono le borghesie confederate contro il proletariato, e contro di esse occorre combattere; che due sono gli Stati, e che entrambi vanno attaccati. Nulla può fermare l’avanzata della colonizzazione, il regime di occupazione militare, la miseria e lo sfruttamento crescenti, lo stretto legame (tra le due borghesie) che si nasconde dietro l’apparente contrasto, se non l’organizzazione del disfattismo rivoluzionario sui diversi piani(economico, sociale, politico e militare) del fronte unito proletario. Non possono farlo né una “terza Intifada”, né una sollevazione generale che coinvolga l’intero territorio israelo-palestinese, se non viene strappata la camicia di forza nazionale che i due Stati hanno cucito addosso al proletariato e che pesa come un macigno sugli obiettivi di classe. L’orizzonte ristretto dell’Intifada è stato superato da mezzo secolo dalle guerre portate dall’esercito israeliano nei diversi territori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza: una sollevazione generale proletaria che rimanga chiusa all’interno dello Stato palestinese è destinata a soccombere. La dimensione internazionale che ha assunto l’area mediorientale non concede più rifugi né alibi nazionali.Da tempo, le grandi metropoli imperialiste, di cui Israele è solo uno zelante allievo, impongono, con devastazioni e massacri, i propriterribili diktat alle popolazioni civili. Allo stato attuale delle cose, la borghesia palestinese va attaccata in tutte le sue varianti, laiche e religiose; i suoi governi di unità nazionale e le alterne riconciliazionitra Fatah,Hamas e vari fronti di liberazione preannunciano solo pesanti sconfitte per il proletariato. La rabbia e il disprezzo espressi a nome ditutti dal giovane palestinese vanno indirizzati contro tutte le sirene nazionali: il “diritto al ritorno” dei palestinesitanto quanto la favolistica “terra promessa” ebraica. La prospettiva proletaria e classista deve rinascere in ogni frattura sociale, in ogni contrasto economico, in ogni sciopero: per la ripresa rivoluzionaria le condizioni storico-sociali ed economiche ci sono tutte.

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