Bologna. Sabato 31 maggio, la sezione di Bologna ha tenuto una conferenza pubblica dal titolo "Mediterraneo in fiamme". La conferenza, alquanto partecipata, s'è incentrata sugli avvenimenti degli ultimi dieci anni, verificatisi in alcuni paesi affacciati sulle sponde orientali e meridionali del Mediterraneo. Non potendo riproporre esaustivamente in questa sede due ore abbondanti di esposizione, ci limiteremo a sintetizzare i punti significati della stessa.

La relazione si è aperta con una citazione da un nostro testo del 1949: "Il partigiano è quello che combatte per un altro, se lo faccia per fede per dovere o per soldo poco importa. Il militante del partito rivoluzionario è il lavoratore che combatte per sé stesso e per la classe cui appartiene. Le sorti della ripresa rivoluzionaria dipendono dal potere elevare una nuova insormontabile barriera tra il metodo dell’azione classista di partito e quello demoborghese della lotta partigiana” (“Marxismo o partigianesimo”, Battaglia comunista, n°14/1949).

Il relatore ha poi chiarito la posizione del Partito. Nel Mediterraneo, abbiamo visto sì una sollevazione “popolare”, ma, proprio per questa sua natura, tale sollevazione nulla ha avuto a che fare con una prospettiva di classe – e quindi rivoluzionaria. Le energie e la forza messe in campo dal proletariato sono state incanalate e indirizzate verso obiettivi del tutto democratici e piccolo-borghesi. A queste considerazioni, ha fatto seguito la critica aperta alla ridda di “esotiche” posizioni messe in campo dai partiti e gruppi opportunisti (oltre che da molti “finti sinistri”), che invece hanno considerato le cosiddette “primavere arabe” un’espressione “ultra-radicale”.

Il relatore ha proseguito esponendo le similitudini che hanno accomunato tutti i paesi coinvolti nei moti popolari, e anche le loro specifiche particolarità. Ha dunque sottolineato come tutte queste nazioni avessero un passato comune, rappresentato dalla trascorsa appartenenza all'Impero Ottomano, che di fatto ha significato una storia ed uno sviluppo economico del tutto simile; e ha evidenziato come tutte queste nazioni (o meglio, pseudo-nazioni, nella grande maggioranza dei casi), negli ultimi 10 anni prima dell’attuale crisi, avessero avuto una notevole crescita degli indici economici e come questa crescita, da un lato, avesse allargato e non ristretto la forbice “fra ricchi e poveri” e, dall'altro, fosse non tanto figlia di una reale crescita economica “indigena”, bensì il frutto dello “sversamento” in quei paesi di parte dei capitali sovraprodotti nelle grandi metropoli imperialiste e non più in grado di valorizzarsi. La conferenza è proseguita dimostrando proprio come questo doping economico, allo svolto della devastante crisi attuale, abbia d'un tratto fatto precipitare il proletariato nella miseria più nera, quando i capitali hanno ripreso massicciamente la via di casa. Infine, si è evidenziato come alla base di ogni sollevazione (soprattutto in Tunisia e in Egitto) vi fosse la poderosa spinta del proletariato, che però in assenza del proprio Partito, cioè in assenza di propri obbiettivi sia immediati sia storici, non ha potuto che lasciare il passo alle tante classi medie – le quali poi hanno spesso espresso il proprio becero nazionalismo sotto la maschera di un “islamismo 2.0”, cioè di un islamismo capace di sfruttare a pieno ogni strumento che il moderno capitalismo gli mette a disposizione (tecnologico, economico e politico).

Dopo aver analizzato specificatamente ogni nazione nelle sue particolari dinamiche (la Turchia non è la Tunisia, l'Egitto non è la Siria, e così via), il relatore ha indicato come fosse in qualche modo inevitabile che il prossimo “accadimento” si dovesse verificare in quel Medio Oriente che, con la presenza di un proletariato esso sì senza nazione (quello arabo-palestinese), continua a rappresentare il nodo gordiano di ogni evoluzione nell’area... Previsione in parte, ahinoi, giusta.

E proprio partendo dalla condizione del proletariato palestinese e dal suo continuo martirio sotto le bandiere del nazionalismo, il compagno ha terminato la relazione definendo la strategia che la classe operaia deve mettere in campo contro la propria borghesia:

- Rifiuto di qualunque azione militare (comunque mascherata: umanitaria, democratica, civilizzatrice) della propria borghesia

- Rifiuto di accettare sacrifici economici e sociali in nome dell'“economia nazionale”

- Organizzazione della lotta di difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari, come passaggio obbligato per colpire duramente l'impegno bellico della borghesia

- Ritorno deciso ai metodi e agli obbiettivi della lotta di classe, con la rottura nei confronti di ogni logica di concertazione e di pace sociale, metodi e obiettivi che rappresentano per ora l'unica reale solidarietà internazionalista dei proletari delle metropoli imperialiste nei confronti delle masse proletarie oppresse

- Rifiuto di ogni partigianesimo (nazionalista, pattriottico, mercenario, umanitario, pacifista, [religioso ndr]) a favore di questo o quel fronte

Perché non rimanga alcun fraintendimento, la concreta e classista solidarietà di noi proletari e comunisti sta nell’operare qui, nelle metropoli imperialiste, per il radicamento e rafforzamento del Partito rivoluzionario, con la cui guida condurre l'assalto alla nostra borghesia – unica via di uscita per il proletariato schiacciato e sfruttato, in qualsiasi parte della Terra.

Milano. Lunedì 19 maggio, si è tenuto a Milano un incontro pubblico sul tema “Illusioni europeiste e nazionalismi risorgenti”. In presenza di una ventina di partecipanti, l’incontro ha preso l’avvio da un famoso brano di Marx, tratto dall’Ideologia tedesca: “Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti”. Se dunque il proletariato nel suo cammino storico ha potuto e saputo esprimere il suo organo-partito che è insieme arma teorica e politica per il Comunismo, la piccola borghesia all’opposto, oscillando tra una classe e l’altra, rimane immersa nella confusione ideologica più totale e nell’incapacità di seguire la sua stessa classe di provenienza. Nel secondo dopoguerra, ha ricordato il relatore, la ricostruzione degli apparati economici, politici e militari, accolta con grande fervore dalle borghesie dei paesi vinti, che avevano comunque profittato abbondantemente dell’affare della guerra, è coincisa con la ripresa dell’accumulazione capitalistica in Europa. Sarà la grande borghesia a progettare l’Europa come “area di libero scambio e d’integrazione economica”, a porla, cioè, sul piano della concretezza sotto l’egida, ovviamente, dei paesi vincitori (i veri “padri fondatori”). Le illusioni economiciste dell’Unione Europea sono state gli “spiccioli ideali” della piccola borghesia, spinta a ciò dalla necessità di usufruire della “ricostruzione” dei rapporti di produzione disarticolati e devastati, nella quale essa poteva sperare di essere ampiamente coinvolta. La prospettiva dell’Europa “unita politicamente” è stata ed è ancora oggi la sua più grande illusione. Nelle sue diverse espressioni politiche, essa ha creduto e crede nell’Europa dei popoli, nell’Europa democratica delle nazioni, nell’integrazione pacifica degli Stati-nazione, nell’Europa delle autonomie regionali, delle origini cristiane o laico illuministe... Crede negli organismi comunitari, nelle sue istituzioni e nella loro indipendenza, nelle loro positive funzioni amministrative e tecniche: Consiglio, Commissioni, Parlamento. In ogni caso crede nel suo futuro. Che poi, in periodo di crisi, questa ideologia si converta in delusione, in protesta, in rabbia “contro l’Europa”, “contro la Germania e contro le Banche”, accusate delle più tremende malefatte, non cambia nulla. La sceneggiata ideologica, a favore e/o contro, l’Europa non può che continuare.

Il compagno ha poi ricordato che tutta una serie di tappe nella “costruzione europea” conferma la natura unicamente “economicista e nazionalista” di quest’unione: mai politica, mai sovranazionale. Patti, comitati, accordi su cui si è deliberato e si delibera sono pezzi di un puzzle il cui assemblaggio svela uno stato casuale di “lavori in corso”. Ben altri e pesanti, e di natura internazionale, sono stati i fattori economici determinanti che hanno imposto forme e contenuti e che sono andati in ben altra direzione: la bufera dell’inconvertibilità del dollaro (1971) nei confronti dell’oro e l’abolizione del sistema dei cambi fissi istituito a Bretton Woods, il Serpente monetario (Sme) del 1972, la crisi di sovrapproduzione mondiale del 1974-’75 e l’inflazione dovuta ai costi delle materie prime che la precedono e la seguono, l’Unità di conto (Ecu) del 1979, l’attacco alla classe operaia negli anni ottanta in Inghilterra e negli Usa (il cosiddetto thatcherismo e reaganismo), la profonda crisi giapponese del 1987, il crollo politico ed economico della Russia, le prime fondamenta di una Germania unificata, la crisi economica del 1990-’91 (che si trasforma in guerra nel Golfo e poi in devastazione generale nei Balcani), la creazione della Bce e la firma del Trattato di Maastricht nel 1992 che “riconoscono” la necessità e l’urgenza della moneta unica, il Sistema delle banche centrali nazionali (1998), che decide la dinamica economica della Banca centrale europea e infine l’Unione monetaria del 2002 – tutto ciò non ha avuto obiettivi diversi da quelli iniziali: controllo del saggio d’inflazione, della base monetaria e dei tassi d’interesse, basi elementari di un’unione monetaria.

A questo punto, la seconda parte della relazione ha mostrato come il nazionalismo sia l’habitat naturale entro cui si sviluppa il capitalismo, è il prodotto specifico del capitalismo imperialista. Piccola borghesia e aristocrazia operaia si nutrono di questo nazionalismo, che coinvolge tutti gli strati sociali, nessuno escluso: nel corso delle crisi economiche, politiche e sociali, rilanceranno il culto delle glorie e delle bandiere nazionali, la passione per la razza, la lingua e la cultura. La disgregazione dei territori nazionali e la balcanizzazione d’intere aree diventeranno processi inevitabili, quando gli equilibri politici contingenti saranno scossi dalle profonde crisi economiche, che sono il prodotto periodico ultimo dello sviluppo del grande capitale. Dunque, un’Europa diversa dall’attuale è possibile solo in conseguenza di nuove guerre, che creino un’ulteriore divisione del territorio continentale con una nuova ripartizione del bottino da parte delle borghesie vincitrici. L'intreccio “unitario” delle economie capitalistiche nazionali non indebolirà la "giungla di nazionalismi”, ma la rafforzerà ancor più, mentre l’illusione piccolo-borghese, che l’integrazione economica porti alla scomparsa dei nazionalismi, è figlia del pacifismo e dell’opportunismo. Verrà così il tempo in cui, per nutrire le classi medie, alla piccola borghesia regionalista, autonomista, nazionalista e razzista, si dovrà offrire il proletariato sull’altare sacrificale in cambio dell’adesione alla guerra imperialista. Contro di essa, ha concluso nella sua ultima parte la relazione, dovrà essere impugnato il disfattismo rivoluzionario: trasformazione della guerra imperialista in guerra civile. Ma ciò sarà possibile solo se nel proletariato mondiale si sarà radicato nel frattempo il partito rivoluzionario. 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2014)

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