Non è “lo spettro che s'aggira per l'Europa” (ci vuole ben altro!), ma tutti ne parlano. Cresce il numero di chi non va a votare, mentre la crisi economica, con i suoi inevitabili alti e bassi, si approfondisce e si diffonde, e si moltiplicano ovunque (dalla Spagna all'Egitto, dalla Francia al Venezuela, dall'Ungheria all'Italia, e via in giro per il mondo) gli appuntamenti elettorali, le consultazioni popolari di ogni genere, i rituali democratici d'ogni tipo – dalla raccolta di firme per questo o quel problema al grande baraccone super-miliardario delle elezioni presidenziali USA. La “mobilitazione democratica” è incessante: riecheggia di paese in paese, viene amplificata da tutti i mezzi di comunicazione, crea un fragore assordante, ricorre a ogni tecnica di condizionamento dei cervelli, solleva un denso polverone che cala su ogni cosa celando agli occhi la realtà. Al tempo stesso, frastornata da scandali e scandaletti, rivelazioni e delusioni, liti in famiglia e rimpallo di accuse e anatemi, a fronte di questo Grande Festival Mondiale della Democrazia, la “gente” va a votare in numero sempre più ridotto, seguendo una tendenza già evidente nella “più grande democrazia del mondo”, gli Stati Uniti (salvo poi, in questa o quell’occasione, invertire di colpo quella tendenza, nel giubilo generale).

 

In mezzo, fra il ricorso sempre più insistito al voto e la reazione di rigetto, fioriscono (per appassire spesso presto) gruppi, individui, formazioni, con un ventaglio di posizioni che vanno da “sinistra” a destra e con discorsi improntati alla più banale retorica demagogica, a volte aggressiva, populista, sbracata, altre volte fatta di buoni sentimenti, di preoccupata apprensione – sempre ondeggiante fra i due estremi (che estremi non sono, ma gemelli siamesi): l'appello a una “maggiore democrazia” (la “vera democrazia”, la “democrazia dal basso”, la “democrazia popolare”) e l'amplificazione strumentale di tutti i temi della disaffezione (il “distacco fra Palazzo e Paese reale”, il “rifiuto della Politica”, il “disgusto per i Partiti”, e via di seguito).

 

Ma che cos'è quest'“astensionismo”?

 

E' il figlio della borghesissima “libertà di pensare e di ragionare con la propria testa”: l'eterna illusione che l'individuo possa contare e pesare, in un mondo che, al contrario, lo schiaccia e lo annulla ogni giorno sotto il peso dell'ideologia dominante e delle materiali condizioni di vita e di lavoro. E' una patetica “richiesta di attenzione” (“se non ci aiutate, noi ci asteniamo”), rivolta a entità (il comune, la regione, lo Stato, il Presidente, ecc.) che si continua a considerare al di sopra delle parti, interessate al bene comune, espressioni di un'astratta “cosa pubblica”. E' figlio dell'indecisione e della frustrazione che nascono dal restare chiusi dentro al recinto stretto del gioco parlamentare e istituzionale, in cui partiti e partitini, gruppi e individui danno il peggio di sé e non si capisce bene dove intendano andare a parare – un balletto di statue di cera sempre più sfatte. E' una belante implorazione (“Fate qualcosa!”) che crede di aver gambe per il solo fatto di riconoscersi in una percentuale che cresce a ogni appuntamento elettorale.

 

Tutto ciò, a noi comunisti, non interessa. Votino o non votino, in queste condizioni, con queste premesse e caratteristiche, per noi è indifferente.

 

Il nostro astensionismo ha tutt'altra origine e prospettiva. Nasce dall'analisi degli sviluppi della società borghese nel tempo, della natura dello Stato, del ruolo e della funzione della democrazia e della realtà vera, profonda degli istituti democratici, di qualunque livello essi siano. In una società divisa in classi com’è quella borghese, la classe al potere domina con ogni mezzo a disposizione: le condizioni materiali di vita, la forza militare in tutte le sue forme, la scuola, la famiglia, la religione, l'ideologia in genere. Lo Stato è lo strumento organizzato di questo dominio; la democrazia, uno degli involucri che avvolgono quel dominio: non ha mai esitato a usare il pugno di ferro e, quando (di pari passo con l'evoluzione in senso sempre più accentrato dell'economia, propria dell'epoca imperialista) si è sentita minacciata, s'è mutata in dispotismo, in fascismo – e questa stessa mutazione l'ha trasformata nel profondo, in maniera indelebile e definitiva, svuotando ancor più di senso e di funzione quegli stessi istituti democratici che esalta a pieni polmoni. Le vere decisioni vengono infatti adottate da organismi tecnici che esprimono direttamente le esigenze del capitale come potenza anonima.

 

Il nostro astensionismo, dunque, nasce dalla considerazione scientifica (suffragata da un'esperienza ormai plurisecolare) che il proletariato e i comunisti non hanno nulla da aspettarsi dagli organismi rappresentativi di qualunque livello – nemmeno considerandoli come utili strumenti di diffusione della propria propaganda. Sono organismi che, al contrario, ingabbiano la classe dominata, le impediscono di manifestare la propria identità antagonista, deviano e svuotano le pressioni che essa esercita sotto le spinte che si sprigionano dal sottosuolo sociale, la trattengono dal scendere in campo e dal far sentire la propria forza organizzata, convincendola invece a delegare ad altri la soluzione dei suoi problemi (sempre però restando nel quadro delle “cose come stanno”).

 

Noi comunisti denunciamo e ripudiamo sia quella condizione che vede i proletari chinare il capo e deporre la scheda elettorale nell’urna, sia quell’astensionismo umorale che, se lavorato per bene ai fianchi da politici, media, opinionisti, è pronto a mutarsi nel suo opposto. L'elemento per noi essenziale è il ritorno alla lotta: è la comprensione (anche solo istintiva, magari) che si deve ricominciare a lottare collettivamente per difendersi dall'attacco che il capitale porta inevitabilmente (nelle fasi di espansione come in quelle di crisi) alle nostre condizioni di vita e di lavoro, è l'esperienza – maturata sulla propria pelle – che non si possono delegare a nessuno le decisioni relative all'esistenza nostra e delle generazioni future, è la percezione che per prendere il potere bisognerà abbattere proprio le istituzioni democratiche – tutte.

 

Non si illudano i proletari che questo o quel mascherone sia “un po' meglio” dell'altro: scendano in piazza, facciano sentire la propria voce, non si lascino intimidire dallo spiegamento di forze dell'ordine o ingannare dai discorsi di politici e sindacalisti da tempo strumenti del nemico, non si facciano tagliare le gambe dagli appelli alla “conciliazione”, alle “superiori esigenze del Paese”, da tutta la fuffa che da due secoli e più la classe al potere usa per abbindolarli. Prendano in mano il proprio destino. Ci troveranno sempre, non solo al loro fianco nelle lotte quotidiane per difendersi dagli attacchi del capitale, ma pronti e organizzati per guidarli al loro compito storico, alla presa del potere. E a quel punto, l'andare a votare apparirà davvero l'inganno che è.

 

 

Partito Comunista Internazionale

(il programma comunista n°06 - 2012)

 

 

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