Nel capitolo V del Libro III del Capitale, dal titolo “Economie nell'impiego del capitale costante”, Marx affronta i mille modi in cui si manifesta lo sfruttamento della nostra classe, sacrificata sull’altare della “economia del capitale costante”, nelle miniere, nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, riportando i dati del tempo sugli infortuni, sugli “omicidi sul lavoro”, sulle condizioni igieniche, sulle condizioni di vita miserabili, sulle malattie professionali. E’ lo spaccato di un mondo che, allora come oggi, viene tenuto al riparo da occhi indiscreti ed è a volte rimosso  purtroppo dagli stessi compagni di lavoro, timorosi di esporsi, tenuti alla catena non solo dai padroni, ma anche da coloro (le organizzazioni sindacali) che, dicendo d’esserne i portavoce, ne reclamano il guinzaglio e la proprietà. Si trattava e si tratta di galere del lavoro, che soprattutto oggi, nel mezzo della crisi, si trasformano in autentici lager – luoghi che, oltretutto, vengono visti come “riparo dalla miseria”, mentre di fatto sono causa della miseria.  Le decine di operai che si sono tolti la vita in questi ultimi due anni si sono guardati intorno prima dell’atto finale: hanno visto il vuoto attorno a loro, la solitudine, l’assenza di solidarietà, l’impossibilità di difendersi e di lottare; hanno partecipato allo sciopero rituale dell’ora prevista; hanno pianto la morte dei compagni; ma non hanno avuto il coraggio di trasformare la pena e la rabbia in lotta, e sono tornati in silenzio in fabbrica ad aspettare… il loro turno. Le statistiche, i bollettini della guerra del capitale, sono inghiottiti dal gran calderone dei media, dove, ripuliti dal dolore, perdono di senso, diventano roba che invecchia rapidamente: morte naturale, sacrificio in nome di… un presunto progresso.

Scrive dunque Marx: “Come da un lato spinge allo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale, così dall’altro il modo di produzione capitalistico spinge all’economia nell’impiego del capitale costante. La questione tuttavia non si esaurisce nel rapporto di alienazione e indifferenza fra l’operaio, depositario del lavoro, qui, e l’impiego economico, cioè razionale e parsimonioso, delle sue condizioni di lavoro, là. Conformemente alla sua natura contraddittoria e antagonista, il modo di produzione capitalistico giunge fino ad annoverare lo sperpero in vita e salute dell’operaio, lo stesso peggioramento delle sue condizioni di esistenza, fra le economie nell’impiego di capitale costante, quindi fra i mezzi per elevare il saggio di profitto” (Il capitale, Libro III, UTET, p.122, corsivi nostri).

E ancora aggiunge che, dove l’operaio spende la maggior parte della sua vita, lì si trovano le condizioni del suo processo attivo di vita, lì si manifestano le sue condizioni di esistenza; e che l’economia di queste condizioni è un metodo per elevare il saggio di profitto, e l’eccesso di lavoro cerca di trasformare l’operaio in bestia da fatica: è il metodo per accelerare l’autovalorizzazione del capitale, la produzione di plusvalore.

Ancora: “Questa economia si spinge fino a stipare operai in ambienti stretti e malsani, cosa che in linguaggio capitalistico si chiama risparmiare in fabbricati; a riunire macchine pericolose negli stessi locali e trascurare i mezzi di protezione dal pericolo; a non prendere nessuna misura precauzionale in processi di produzione che sono tuttavia per natura nocivi alla salute o, come nelle miniere, inseparabili da rischi di infortunio, ecc. Non parliamo poi dell’assenza di ogni installazione destinata a umanizzare, cioè a rendere gradevole o anche solo tollerabile per l’operaio il processo di produzione, cosa che, dal punto di vista capitalistico, equivarrebbe a uno spreco inutile e insensato” (idem).

Ma per la borghesia e per tutta la razza dei padroni questi luoghi sono… prove dell’inventiva umana. E ci sono di quelli che li vorrebbero portare ad esempio: luoghi simbolo di dedizione, di formazione, di espressione di dignità umana!

Per finire e ricominciare: dove si colloca l’ennesimo assassinio dei nostri compagni, perpetrato nella grassa Emilia Romagna sotto le scosse del terremoto di maggio, che ha fatto cadere come castelli di carta i capannoni di fabbriche (all’avanguardia, si badi bene!, fiori all'occhiello della tecnologia italica) tirati su alla bell’e meglio per risparmiare sulle spese improduttive (nostri compagni, costretti – esplicitamente o implicitamente non importa – a tornare a lavorarci dentro, come in una trappola mortale)? Non sono forse le stesse condizioni di sfruttamento, le stesse contraddizioni di cui Marx scrive nel 1860 rifacendosi alle interpellanze parlamentari inglesi? Mentre i media ci raccontano la solita litania dell’imprevedibilità dei terremoti, scienziati, governo, partiti e sindacati oscurano la prevedibilità certa della morte dei nostri compagni e falsificano l’atto ufficiale di morte, l’atto di violenza: “Morti per cause di lavoro”. Esso parla di capannoni crollati su uomini al lavoro mentre incombeva l’ansia e l’incubo di una prossima scossa simica, parla di eventi “inaspettati”, di “strani movimenti” della terra in un’area “sicura” (?), che si sono accaniti “fatalisticamente” sui lavoratori. Assassinio premeditato? Non sia mai! Con la pistola puntata alle tempie, hanno preteso il lavoro forzato, di notte e di giorno, la forza viva che avevano comprato. Ne hanno colpa? Tutto in piena regola: la schiavitù salariale è forse un delitto? L’affetto dei padroni per i lavoratori e di questi per i loro sfruttatori si unisce in un cordoglio comune, i lavoratori si mettono anzi a guardia dei mezzi di produzione che non gli appartengono: estrema dedizione alla virtù del lavoro salariato. L’abbattimento dei costi era in preventivo, area sismica o non sismica: il risparmio sulle strutture fisse a fini di profitto ha funzionato benissimo.

Come faremmo a sfruttare la forza lavoro se non abbiamo credito? dice uno; come faremo a mangiare se il padrone non riceve credito e non lo si aiuta? concorda l’altro. La divisione in classi sociali è un dato naturale: chi ha e chi non ha, che c’è di strano? E una volta che hanno risparmiato sulla sicurezza, che hanno premuto per far dichiarare non sismica la loro zona per risparmiare anche sui costi cosiddetti burocratici, assicurativi e altro (la mangiatoria che accompagna ogni attività segue sempre questo iter), e una volta che hanno cementificato con capannoni e vie d’accesso ettari ed ettari di terreni agricoli e tutto è andato alla malora per la crisi di sovrapproduzione, ecco che arriva il solito fastidioso terremoto “imprevisto”: tiriamoci su le maniche, siamo nella stessa barca, non vi pare? Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato: scurdiammoce o’ passato! E’ il capitale, bellezza!

E i terremoti? L’Italia è una penisola sismica, ripete lo scienziato finto tonto. Purtroppo, a causa di mali storici, ci dice, è divisa in comparti di affari, provinciali, regionali e statali: non si tratta affatto di “tettonica a zolle”, ma di “tettonica a mazzetta”. La mappa a colori delle zone a rischio è delimitata dai colori dell’intrallazzo. Tutto il gioco è fondato sulla rendita, sulle assicurazioni, sugli affari immobiliari: il colore è solo funzione del capitale. Gli scienziati “incolpevoli” si difendono dicendo che la responsabilità non è loro, ma della politica, della maledetta “casta”, che, ricevute le mappe, si da al grande gioco del risiko, ridividendosi il bottino. Così dopo l’affare del Belice del 1968, dell’Irpinia dell’80, dell’Aquila di due anni fa, dopo le alluvioni e le frane che hanno devastato il territorio in nome del Progresso e della Civiltà, ecco che assisteremo ad un nuovo assalto all’Emilia, ovviamente “rossa del sangue dei lavoratori”.

In quello stesso capitolo del Capitale, basandosi sui rapporti agghiaccianti dell'ispettore di fabbrica Leonard Horner, Marx ricordava che i fabbricanti inglesi avevano creato la National Association for the Amendment of the Factory Laws, che subito si attivò per dimostrare che “se avviene per amor di profitto, killing is no murder, uccidere non è assassinio”. Già, uccidere non è assassinio: è un effetto collaterale della guerra condotta contro l’umanità proletaria.

 

Partito Comunista Internazionale

(il programma comunista n°04 - 2012) 

 

 

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