I disastri ambientali, la distruzione del territorio agricolo, forestale e montano, la cannibalizzazione produttiva in nome del Progresso e della Civiltà del lavoro (cioè, dello sfruttamento della classe operaia), non sono per noi comunisti una novità. Aree produttive abbandonate e trasformate in discariche urbane, montagne di rifiuti ai limiti delle città, autostrade e strade ferrate che feriscono il territorio, città che sarebbero da mettere in quarantena, ospedali divenuti incubatoi d’infezioni, mari, fiumi e torrenti divenuti scarichi di lerciume per conto del profitto, non sono per noi comunisti una rivelazione. Fabbriche come lager e cantieri come trincee di una guerra non dichiarata, di cui non si contano più i morti e le mutilazioni dei combattenti, mineralizzazione senza sosta della vita organica nostra e delle altre specie, capitale morto che continua a succhiare profitto dal midollo del lavoro alienato, proletarizzazione che genera miseria, disoccupazione, precarietà, sfruttamento, non ci sono estranee.

Quell’adunata di volenterosi che si batte con coraggio contro la polizia in assetto di guerra, quella massa variopinta e interclassista, che va dai sindaci ai contadini espropriati, dagli operai disoccupati ai pendolari e agli studenti, dagli anziani abbarbicati ai luoghi familiari agli albergatori e ai commercianti, può da sola combattere questa civiltà di morte? No, non può farlo! I No-Tav della linea Bologna-Firenze che cosa hanno ottenuto? Le scaramucce con intento pacifico e ambientalista contro i difensori dell’Ordine mandati a difendere i Grandi Affari possono giungere a qualche risultato? Le marce attraverso i boschi, i blocchi dei lavori e delle autostrade, i grandi raduni, che cos’hanno prodotto di fronte alle cariche della polizia, la cui violenza è proporzionale all’ammontare dell’affare della Tav Torino-Lione? L’intervento delle forze dell’ordine, ricordarlo è d’obbligo, ha sempre il carattere di una violenza preventiva: sembra, ma non è, un intervento locale. Il suo scopo è prevenire una catena di altre sollevazioni, soprattutto proletarie, in questo periodo di crisi.

Queste mobilitazioni non possono avere alcun risultato positivo se non interviene la nostra classe, dichiarando la propria estraneità al mondo del profitto, abbandonando i podestà politici e sindacali che la spingono alla sconfitta totale. La folla No-Tav non dice “No al capitalismo!”. Dice “No ai treni ultraveloci, ai dissesti della valle e dell’ambiente di casa”. Non deve farlo? Certo che deve farlo. Ma quello che non può e non vuole è la lotta contro una società che crea in ogni luogo, senza soluzione di continuità, di spazio e di tempo, disastri d’ogni specie. I No-Tav non hanno come obiettivo la distruzione della società del Capitale: non possono averlo. Salire sui tralicci e rischiare la vita, attirare su di sé l’attenzione più generale dei media, mentre si oppongono con determinazione e per via pacifica alla costruzione dei cantieri, è il massimo cui possono aspirare: è lo stesso tipo di richiesta di attenzione espressa dagli operai sospesi su gru e carroponti, travolti dalla solitudine e dalla disperazione dei casi estremi, lasciati nell’isolamento anche dagli stessi compagni di lavoro, incapaci di restituire l’offesa, di rispondere all’attacco.

Quando, per il sopraggiungere della crisi, prevedibile e prevista, sulla classe dei lavoratori salariati si avventano licenziamenti, disoccupazione, cassaintegrazione, quello cui si assiste in questo lungo tempo di controrivoluzione non è il grido di allarme, non è il richiamo di battaglia annunciato dai tamburi di lotta che chiamano allo scontro con la classe dominante responsabile della crisi. Quello cui si assiste è la perdita del legame e del contatto con gli altri fratelli, è il “si salvi chi può”. Così, il lager-fabbrica, messo in allarme dalla crisi, è presidiato in continuità dai corpi operai, ultimo tentativo di resistenza prima della resa. E questa resa verrà senza alcun dubbio, perché a schierarsi non ci sono ancora i combattenti: al centro della scena, ci sono i pacificatori, i disertori, i crumiri della lotta di classe, quelli che siedono accanto alle poltrone dei “compratori di forza-lavoro” in veste di “venditori” della fatica operaia.

A differenza di un ambiente mitizzato, delle “chiare, fresche, dolci acque” che non ci sono più da almeno un secolo, la fabbrica è il luogo, oggi più di un tempo, di fusione della classe internazionale e, nello stesso tempo, è il bagno penale in cui si sconta la pena del lavoro. Non è una casa da salvare o da difendere! Per la classe operaia non esiste alcuno spazio di libertà. Se gli schiavi potevano un tempo sperare di sopravvivere fuggendo dal padrone e rifugiandosi in territorio non schiavistico, per il lavoratore salariato, per il migrante, oggi non c’è più spazio non occupato e dominato dal capitale: tutto il globo è diventato un unico immenso mercato del lavoro salariato, costituito da unità lager. Non resta altro che protendere lo sguardo oltre il fino spinato e sperare in una liberazione, che tuttavia non potrà venire mai finché si accetta l’isolamento, finché si ha paura della stessa solidarietà di classe, finché non ci si unisce ad altri compagni per costituire una massa d’urto, una falange organizzata e cosciente, tale da permettere l’assalto al cielo, con l’unico scopo di distruggere la società del lavoro salariato.

Come per gli operai isolati e divisi, isolati e in concorrenza, non c’è spazio di libertà, così per una massa che non ha un’identità strutturata e coesa non c’è via di scampo. Come agli operai si somministrano, per rabbonirli e stemperarne la rabbia, zuccherini, ammortizzatori sociali, sussidi di disoccupazione, pensioni di fame, assistenza caritatevole, oppio democratico e legalitario e… carceri in caso di smarrimento della temperanza, dell’obbedienza e dell’umiltà verso le autorità, aggiungendovi premi e assegni di fedeltà, così adesso ai No-Tav si promette, per dividerne il fronte, denaro cash (50 milioni di euro!), assecondando i tanti bisogni di gruppo, gli interessi locali, le avidità individuali. E ci riusciranno, se non verrà in aiuto una classe sociale, il proletariato, che, a differenza delle mezze classi, ha un futuro: la società senza classi, senza proprietà privata, senza salari e senza profitti – una classe che sarebbe pronta a entrare in lotta, se non la frenasse più di mezzo secolo di corporativismo, di statizzazione, di fascistizzazione dei corpi e delle menti sotto il segno della democrazia, con scioperi autoregolamentati che la dividono per settore, per categoria, per località. E così la guerriglia, la lotta quotidiana che allena allo scontro, come un’esercitazione di difesa che ci permetterà poi di passare allo scontro politico, è ridotta a protesta, a esercitazione democratica, a lamentosa petizione. Fino a quando?

Che almeno questa lezione venga dai boschi e dai monti della Val di Susa.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2012)

 

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