Trayvon Martin è un adolescente nero che, la sera del 26 febbraio, esce dalla casa del padre da cui si trova in visita, nei pressi di Sanford, in Florida, per andare a comprare alcune caramelle. Al ritorno, viene intercettato da un vigilante (una sorta di guardia volontaria), che lo segue in macchina e comunica alla polizia di aver scorto un “negro sospetto” che s’aggira “con un cappuccio in testa”. A un certo punto, sceso dall’auto, il vigilante spara a Martin, uccidendolo sul colpo. L’avvocato del vigilante sosterrà poi che il suo cliente ha sparato per legittima difesa, in base a una legge della Florida (la “Stand Your Ground Law”), votata nel 2005 con la forte pressione della potente lobby dei fabbricanti d’armi, la National Rifle Association (NRA). La legge prevede che un cittadino possa far ricorso alla violenza quando si senta minacciato “sul suo territorio”, ed è stata invocata in 93 casi d’omicidio fra il 2005 e il 2010 e in 37 nel solo 2011. Qualche settimana più tardi, la notte fra il 5 e il 6 aprile, in un quartiere a prevalenza nero di Tulsa, in Oklahoma, tre neri vengono uccisi e due feriti in modo grave da due bianchi che sparano a raffica da un camioncino, in varie località del quartiere – i due verranno poi arrestati e confesseranno di aver voluto “dare una lezione ai negri”. I due episodi (ma sul secondo i media sono stati molto avari d’informazioni) c’inducono a qualche considerazione.

Innanzitutto. L’omicidio di Trayvon Martin è stato commesso all’interno di una gated community, uno di quei complessi residenziali autosufficienti, sorti negli ultimi due decenni fuori delle grandi metropoli, riservati a una classe medio-alta bianca e protetti da imponenti sistemi di sicurezza – cancelli, grate, allarmi, televisioni a circuito chiuso, polizie private e, per l’appunto, vigilanti volontari. L’impatto della crisi economica (con lo sgonfiarsi della bolla dei mutui sub-prime e i riflessi sul mercato immobiliare) ha colpito anche questo genere di complessi e numerosi appartamenti in gated communities in giro per il Paese sono rimasti sfitti per parecchio tempo con il risultato di un generalizzato crollo dei prezzi di affitto o vendita. Il risultato è che queste “aree protette per soli bianchi” sono diventate appetibili anche per una piccola borghesia nera in fuga dalle metropoli – e ciò ha rinnovato, all’interno di molti di questi universi dorati e separati, tensioni, pregiudizi, sospetti e insinuazioni e un rientro dalla finestra di quell’intolleranza che si sosteneva cacciata dalla porta grazie all’elezione del… primo presidente nero della storia.

D’altra parte, è più che evidente che l’aggravarsi della crisi economica porta con sé anche l’esasperarsi di un razzismo che è dentro le radici d’America in maniera profonda (e non solo dell’America: lo sappiamo bene, noi, nell’Europa di antica civiltà: ce lo insegnano la Gran Bretagna, la Germania, la Francia, l’Italia… !). Ma dire ciò non è sufficiente. Come abbiamo scritto anni fa all’epoca dell’aggressione ai proletari africani a Rosarno, o più di recente in occasione dell’uccisione dei due proletari senegalesi a Firenze per mano di un militante di estrema destra, non di solo razzismo si tratta, ma di un vero e proprio attacco al proletariato nel suo insieme. Non nel senso che queste aggressioni e questi assassini rispondano a una strategia precisa (non apparteniamo alla schiera fantasiosa dei “complottisti”!), ma per il fatto, semplice ed evidente, che la debolezza, l’isolamento, la solitudine in cui si trovano oggi i proletari (soprattutto nei settori più sfruttati e oppressi) li rende ancor più esposti a ogni tipo di attacco, diretto e indiretto, dello Stato e delle sue forze legali e illegali, oltre che della feccia sociale e politica di ogni tipo e origine. Il Capitale sa di poter spadroneggiare su questi settori ultra-vulnerabili del proletariato, spesso tenuti ad arte separati dal resto dell’esercito proletario: e questa consapevolezza si travasa, ideologicamente, nella miserabile forma mentis di questo o quell’individuo, appartenga o meno alla sbirraglia piuttosto che a formazioni di destra.

In questo senso, la figura del vigilante che ha assassinato il giovane Trayvon Martin è emblematica: figura storica, e dunque simbolica nelle vicende statunitensi, nata sulla frontiera, quando in una società fluida come quella le forze dell’ordine si facevano aiutare da volontari, il vigilante è diventato presto uno strumento della strategia anti-proletaria in tutti i conflitti sociali. Accanto all’esercito, alle milizie e alla polizia, privata e non, i vigilantes si sono sempre “distinti” per le azioni di provocazione, aggressione, intimidazione e aperto terrorismo nei confronti dei lavoratori in lotta e dei militanti d’avanguardia (episodi come quelli di Butte, nel Montana, nel 1917, e di Centralia, nello stato di Washington, nel 1919, con il linciaggio di organizzatori degli Industrial Workers of the World, sono i più celebri, ma l’elenco sarebbe davvero lunghissimo), affiancando in maniera più aperta e “istituzionale” il terrorismo esercitato dal KKK nei confronti della popolazione nera (proprio a Tulsa, nel 1921, si ebbero violenti disordini razziali, con l’uccisione di decine e decine di neri e la distruzione dell’intero loro quartiere – guarda caso, i disordini seguirono di pochi anni una grande mobilitazione operaia, contro cui si scatenarono le forze repressive, legali e illegali, del capitale, vigilantes compresi).

A maggior ragione, quindi, la ripresa della lotta di classe, risposta necessaria al progressivo e rapido peggioramento delle condizioni proletarie di vita e di lavoro, dovrà farsi anche carico di rispondere alla sempre più diffusa militarizzazione della società e al sempre più spietato terrorismo legale e illegale, istituzionale e non, esercitato dalla classe al potere, dal suo Stato, dalla sua sbirraglia e da tutti coloro che si offrono, più o meno volontari, più o meno mercenari, a darle man forte. Solo una ripresa su vasta scala delle lotte, la loro organizzazione e direzione, la rinascita di organismi territoriali di difesa economica e sociale in grado di farsi carico di tutti gli aspetti di queste battaglie (e quindi anche della risposta, colpo su colpo, alle aggressioni), e soprattutto l’estensione e il radicamento dell’influenza del partito comunista internazionale, potranno far uscire il proletariato di tutti i paesi da questa situazione di estrema vulnerabilità, facendolo passare dalla condizione di “aver paura” a quella di “far paura”! 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2012)

We use cookies

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.