Nel corso della sua, vita il nostro partito ha costantemente rivendicato il diritto alla propria esistenza in quanto partito formale, anche a prescindere dalla possibilità che le avverse condizioni storiche gli consentano di avere diretta influenza sulle masse. In quanto tale, esso ha naturalmente avuto una storia, formata da avanzate e ritiri, discussioni, polemiche anche aspre, crisi e riprese: ma tutto senza perdere mai di vista gli obiettivi finali, che sono quelli di un più saldo collegamento con la classe e la possibilità di porsi, quando le condizioni storiche saranno mature e il momento lo permetterà, alla sua guida nel percorso rivoluzionario.

Conosciamo due modi diversi per scrivere la storia di un’organizzazione rivoluzionaria: dipende da ciò che vi si vuole trovare, dall’uso al quale si pensa di destinarla. È, in sostanza, una questione di metodo di lavoro. Il nostro partito la propria storia l’ha scritta in una lunga serie di testi, nei quali si sono ripresentati via via in forma condensata gli esiti delle discussioni interne su una quantità di problemi che la storia ci ha continuamente proposto: dalla questione sindacale alla questione nazionale, dalla valutazione sul corso dell’imperialismo mondiale al problema delle crisi del capitalismo, dalle “lezioni delle controrivoluzioni” al difficile rapporto con la classe in fasi storicamente controrivoluzionarie, e così via. Prima di ciò, nel corso di due lunghi decenni (dalla metà degli anni ’20 alla metà degli anni ’40) nei quali sembrò tutto travolto dalla controrivoluzione, la linea marxista era stata tenacemente difesa da un pugno di compagni della Sinistra che, in Francia e in Belgio, oltre ai pochi in Italia al confino o in galera, non avevano voluto piegarsi alla violenza ed al ricatto. Molti di essi che, raccolti attorno ai giornali “Prometeo” e “Bilan”, avevano dato luogo alle Frazioni belga e francese della Sinistra Comunista Internazionale, erano riusciti a resistere all’ondata dell’interclassismo antifascista dei Fronti popolari e della guerra di Spagna ed erano poi confluiti in quello che, forse troppo frettolosamente, era venuto a costruirsi nell’Italia settentrionale come Partito comunista internazionalista, nel pieno corso della guerra mondiale. Questa “bussola” orientante, tenuta saldamente nelle mani di quei militanti, noi la rivendichiamo sempre come nostra, perché è ciò che impedì di cadere nelle suggestioni dell’antifascismo, della “difesa della Russia”, della “ricostruzione dell’Internazionale” – come avvenne per schiere di antistalinisti e trotzkisti, precipitati infine nella “difesa della libertà e della democrazia”. Questa linea di demarcazione netta fu il lascito più prezioso di quella battaglia, che accogliamo come nostro patrimonio invariabile e permanente.

Costituitosi formalmente il nuovo partito, non tardarono ad emergere diverse visioni della sua azione e del suo ruolo storico nella classe. Ciò fu la conseguenza, da una parte, della sua troppo prematura formazione; dall’altra, della sopravvalutazione, da parte di diversi compagni, della situazione del momento, che vedeva qua e là una parte del proletariato del Nord Italia ancora con le armi in mano e nuovamente disponibile ad una azione di classe (scioperi del marzo 1943). Ritenendo che si stesse per ripercorrere le medesime tappe che avevano caratterizzato la fine della prima guerra mondiale, con il disfattismo rivoluzionario, l’occupazione delle fabbriche, le rivolte contro l’apparato dello Stato, un nucleo consistente del partito iniziò a premere per scendere direttamente sul terreno della lotta di classe. Presi entusiasticamente dai problemi della riorganizzazione interna, della preparazione di Convegni, del contatto con gruppi esteri simpatizzanti per le posizioni della Sinistra comunista, questi compagni furono portati a dare valutazioni eccessivamente ottimistiche della situazione del momento. La realtà – al di là dell’odore sempre presente della polvere da sparo – era ben diversa: il partito di Togliatti si era enormemente rafforzato, per peso politico e peso numerico, attraverso la guerra “di liberazione”, incitando all’unione nazionale interclassista; il paese stesso era percorso da eserciti di almeno cinque stati imperialistici, che avrebbero rapidamente trovato accordi per sedare qualsiasi tentativo insurrezionale (secondo una antica tradizione risalente al 1871, l’anno della Comune di Parigi), come peraltro già posto in essere negli accordi segreti dell’agosto 1943 tra Badoglio e i plenipotenziari tedeschi in Italia; come dimostrato dall’applicazione della “circolare Roatta” nei mesi di luglio e agosto dello stesso anno, con le decine di proletari ammazzati a colpi di mitraglia; come confermato dai continui bombardamenti sugli obiettivi civili ed industriali destinati ad esplicitare a una classe operaia esausta quale sarebbe stato l’esito di una rivolta contro l’apparato borghese.

L’errata valutazione della situazione reale della classe, l’eccessivo ottimismo per una rapida ripresa della lotta e per il rafforzamento del partito portarono rapidamente all’enuclearsi di due posizioni piuttosto nettamente contrapposte, destinate infine a scontrarsi su varie questioni, fra cui quella della partecipazione alle lotte sindacali. Tutto ciò comportava la necessità di una chiarificazione interna, che non poteva essere ottenuta né con Statuti o Congressi né con consultazioni della base, ma solo attraverso un duro e ampio confronto sul piano della teoria e della tattica. Ciò fu fatto da altri compagni – i quali certo avevano nome e cognome, ma le cui posizioni erano al tempo stesso il prodotto di un’esperienza maturata nei decenni precedenti e che era profondamente radicata nel movimento comunista internazionale. Si vennero dunque sempre meglio a precisare, tra il 1945 e il 1950, due diverse concezioni del partito, della classe, del processo rivoluzionario: concezioni che dovevano necessariamente portare ad una rottura nel 1952.

Tutto ciò è ben noto a compagni e lettori, ed è comunque facilmente rintracciabile nella decennale serie delle pubblicazioni, più volte riprodotte ed oggi rintracciabili, oltre che nel nostro sito, perfino in diversi siti della rete web (e in ogni caso facilmente messe a disposizione da parte nostra a chi lo desideri e ne faccia richiesta). Limitiamoci perciò a sfogliare queste pubblicazioni dalla fine della guerra e per pochi anni successivi.

Si potrebbe partire dal “Tracciato di impostazione” (Prometeo, n. 1, 1946), nel quale si esordisce con l’indispensabile, marxista affermazione che il metodo seguito non è “l’opera di profeti, di apostoli, di pensatori” ma “è il lavoro impersonale di una avanguardia dei gruppi sociali che enuclea e rende evidenti le posizioni teoriche verso cui i singoli sono portati, assai prima di averne la coscienza, dalle reali comuni condizioni in cui vivono”. Questo studio, che oggi ancora consideriamo come uno dei capisaldi della nostra teoria, iniziava il bilancio storico del precedente ventennio, ponendo le premesse per la rinascita di un autentico indipendente movimento rivoluzionario internazionale, sulle basi del “rifiuto di ogni invito alla solidarietà nazionale delle classi e dei partiti” e contro “ogni crociata ideologica” che ponga il proletariato di ogni paese a sostegno dell’uno o dell’altro schieramento imperialistico, cioè, a quell’epoca, Stati Uniti e Russia stalinista.

Mentre il “Tracciato” riproponeva le basi teoriche del partito, destinate a precisarsi con sempre maggiore chiarezza negli anni a seguire, un successivo articolo, “Le prospettive del dopoguerra in relazione alla Piattaforma del Partito” (Prometeo, n. 3, 1946), era concepito al fine di valutare gli eventi posteriori al 1945 stabilendo le linee di azione del partito nel prevedibile ulteriore sviluppo storico ed escludendo – e questo è un elemento su cui è basata tutta la tattica della Sinistra comunista dalla sua nascita – che siano ancora date da scoprire “vie nuove” nell’azione, che siano in contrasto con le indicazioni che ormai da decenni, attraverso momenti storici di vasta portata, il movimento rivoluzionario ha saldamente stabilite e seguite.

È anche noto che queste prime indicazioni sull’azione del partito non furono da tutti accettate: sarà sufficiente vedere, ad esempio, l’eccessiva importanza data sul quindicinale del partito alla “Dichiarazione costitutiva dell’Ufficio Internazionale della Sinistra Comunista” (battaglia comunista, n. 1 1947), nella quale parte della organizzazione perseguiva ancora tentativi di aggregazione con altri gruppi antistalinisti, tentativi che furono infine condannati come confusi ed assurdi in una situazione nella quale la chiarificazione sui grandi temi del momento (prospettive dell’immediato dopoguerra; destino della Russia stalinista; ristabilimento della corretta teoria marxista dopo la tempesta controrivoluzionaria) era ancora da sviluppare compiutamente, e lo sarebbe stata nei cinque anni successivi.

Neppure può essere ignoto a chi si occupi solo superficialmente della nostra storia che fu necessaria una lunga battaglia per eliminare all’interno del partito ogni forma di scimmiottatura democratica, ivi inclusa la partecipazione alle elezioni; così come è notissimo il contrasto che oppose i due schieramenti del partito sulla questione sindacale, dibattuta a lungo sulle pagine del quindicinale prima, durante e dopo il Congresso di Firenze (“Esiste una questione sindacale?”, battaglia comunista n. 11, 1948; “Continuità di un atteggiamento di fronte ai sindacati”, battaglia comunista n. 17, 1948; “Le nostre direttrici di marcia”, battaglia comunista n. 19, 1948; “Non scissione sindacale ma divisione di compiti fra ladroni”, battaglia comunista n. 27, 1948; e molti altri articoli successivi): il problema se, di fronte all’ormai definitivamente consolidata trasformazione del sindacato, da organo di classe proletaria in difesa delle condizioni immediate di vita e di lavoro in apparato burocratico a completo controllo statale e direttamente incaricato della gestione dello sfruttamento capitalistico nelle fabbriche, i militanti del partito dovessero o meno sostenerne le lotte negli scioperi, quando essi erano voluti e diretti dai vertici stalinisti per ragioni di pura bottega propagandistica e di indottrinamento ideologico.

Sarebbe troppo lungo esporre il contenuto di tanti altri fondamentali articoli che trattano le scottanti questioni dell’immediato secondo dopoguerra, della teoria marxista della conoscenza, dell’interpretazione dell’economia capitalistica postbellica alla luce della critica comunista, della risistemazione teorica a correzione degli eccessi di attivismo e democratismo interni al partito e del loro significato nel contesto della lotta tesa ad orientare in modo definitivo l’intera organizzazione: ciò che al termine di tale lunga lotta, conclusa nel 1952 con una scissione, veniva riassunto come necessità, per il partito rivoluzionario, di prendere chiara coscienza, nelle condizioni del tempo, “della controrivoluzione imperante e delle cause obiettive del ristagno sociale, di salvare dai dubbi revisionisti il patrimonio teorico e critico della classe battuta, di fare opera di diffusione delle concezioni rivoluzionarie, di dispiegare una ragionevole attività di proselitismo”, in quanto “il rivoluzionario non pagliaccesco si rende conto realisticamente del rapporto di forze tra le classi e teme, quanto la perdita della vista, di dissipare le forze del partito, forze minime, forze ridotte ad un filo organizzativo, in imprese improntate all’attivismo spaccone ed inconcludente, votato al fallimento demoralizzante o al rammollimento opportunista” (“Attivismo”, battaglia comunista n. 6-7, 1952).

Tutto ciò è talmente noto che, ancora a distanza di decenni, varie organizzazioni, rifacentesi a vario titolo a quel neonato partito internazionalista, ne hanno fatto oggetto di polemiche e pubblicazioni più o meno astiose.

Il nostro metodo per intendere lo sviluppo storico di un partito rivoluzionario è dunque questo: tracciare via via un bilancio dell’elaborazione teorica e tattica, condensandolo in tesi e documenti che costituiscono, nel loro insieme, il nostro programma rivoluzionario.

Un ben diverso orientamento ha chi vuole costruire la storia di un partito rivoluzionario attraverso i suoi “protagonisti”. È questo il caso del pur notevole libro che, col titolo Né con Truman né con Stalin. Storia del Partito Comunista Internazionalista (1942-1952), Ed. Colibrì 2010, Sergio Saggioro ha voluto dedicare alla nascita del movimento internazionalista in Italia fino al momento della sua prima scissione.  Un libro di oltre 400 pagine dedicato alla storia del comunismo internazionalista italiano dal 1942 non è naturalmente cosa da poco, e l’autore, che non cela le proprie simpatie per la corrente che nel 1952 diede origine al nostro partito, ha affrontato l’impegno con ampia documentazione di circolari, lettere, informazioni orali spesso di prima mano e, non si può negare, con molta partecipazione e simpatia per quelle vicende.

Tuttavia, la differenza di metodo salta agli occhi fin dalle prime pagine del libro. Ci troviamo di colpo immersi in un mondo popolato da entità mitologiche, di “bordighisti” e “dameniani”, di Tizio che punta i piedi e di Caio che cala le braghe, di X e Y che non vogliono prendere il toro per le corna, e via di seguito. Quanto tutto ciò possa servire a risalire alle “cause”, lo spiega perfettamente una nota lettera da X a Y, W e Z del novembre 1964 riportata nel libro: “il partito è sempre quello e lavora come ha sempre fatto. Cercare colpe di quanto è avvenuto è cosa fessa”. Ciò significa, a nostro avviso, che è sempre inconcludente la riduzione soggettivistica della storia, dal momento che si corre sempre il rischio di superare il limite che corre tra storia e pettegolezzo.

Perché Saggioro ha deciso di scrivere questa “storia”? Lo spiega egli stesso all’inizio del lavoro: in essa vi è qualcosa che gli appartiene e che egli rivendica; inoltre egli spera che la lettura del libro alimenti un qualche nuovo interesse per quegli antichi avvenimenti, e serva di stimolo a nuovi ricercatori in grado di battere definitivamente in breccia la falsificatrice storiografia stalinista. Sono intenti lodevoli, beninteso. Naturalmente, l’Autore sa molto bene che la soluzione di un conflitto tra ideologie (“storiografie”) contrapposte sta, più che in sforzi letterari, solo in un mutato rapporto di forza tra classi sociali: per lunghi decenni questo è stato, a lui come a noi, del tutto sfavorevole.

Ma non è giusto, come sembra affermare l’Autore sulla base dell’“autorità” (!) di un Lampronti qualsiasi, che il “bordighismo non sappia o voglia parlare di sé”. Chi milita nelle nostre file non ha nessuna difficoltà a conoscerne la storia; lo stesso Autore attinge a piene mani a testi, articoli, lettere, pubblicazioni di ogni tipo del Partito, che in buona parte sono state messe già da anni a disposizione di lettori e simpatizzanti. Ciò è vero a tal punto che, terminata la lettura del libro, viene quasi da concludere che il ruolo dell’Autore sia stato né più né meno che quello di cucire assieme il prodotto della passata attività “letteraria” del partito o dei suoi singoli militanti.

È bene ribadire dunque che la questione non è, per il partito, quella di funzionare come “archivio” per lo studioso attuale o futuro. Per ridotte che siano le sue file, per difficile che sia il paziente lavoro di collegamento con una classe, il proletariato, che per i lunghi decenni della controrivoluzione ha smarrito il senso del proprio destino storico, il partito non ha abdicato al suo ruolo, che è quello tracciato non attraverso il buco della serratura degli episodi che possono aver giocato un ruolo secondario nella sua storia, ma quello consegnato – apertis verbis, con parole chiare – , via via dal momento della sua formazione, ad un corpo di messe a punto racchiuse in un patrimonio di tesi, quale nessuna “formazione” estranea alla storia della Sinistra comunista “italiana” può vantare. Rivendicare l’appartenenza ad una tradizione rivoluzionaria gigantesca come quella di cui la Sinistra comunista è portatrice, ma riducendola ad un gioco di persone, è fare torto alla prima e alle seconde.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2012)

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