“Tutti gli strati della società russa appaiono economicamente, moralmente, intellettualmente in sfacelo. La rivoluzione, questa volta, comincia in Oriente, là dove finora si trovava l’intatto baluardo e l’armata di riserva della controrivoluzione” [1].

Così Marx scriveva a Sorge mentre l’impero dello zar subiva le prime sconfitte militari nel corso della guerra russo-turca nell’autunno del 1877. Dovevano, in realtà, passare ancora 40 anni prima che si realizzassero le sue speranze – anni nei quali tramontò per sempre la possibilità che la Russia trovasse al suo interno, nell’organizzazione primitiva del mir contadino (la comune rurale diffusa su tutto il territorio), quella vitalità economica che le permettesse di saltare a piè pari gli orrori dell’accumulazione primitiva del capitale con l’espropriazione dei coltivatori agricoli e la loro conversione in proletariato industriale.

In quei 40 anni, il tessuto economico russo, con un galoppante processo di industrializzazione, si trasformò in modo irreversibile concentrando una formidabile energia sociale che doveva mostrarsi pienamente in tre tappe successive: 1905, febbraio 1917, ottobre 1917.

Tuttavia, fin dal 1882, la prefazione alla seconda edizione russa del Manifesto del partito comunista ammoniva i rivoluzionari, ricordando che, quale che fosse la successiva evoluzione economica in Russia, il futuro successo della rivoluzione in quel paese non poteva che collocarsi come segnale di una rivoluzione proletaria in Occidente: in nessun modo la Russia “avrebbe fatto da sé”.

Arrivando nell’aprile 1917 a Pietrogrado dopo vent’anni di esilio in Europa, Lenin era preceduto

da alcuni decenni di battaglie teoriche indirizzate su due diversi livelli. Quale sarebbe stato il processo rivoluzionario in una Russia certamente in forte sviluppo economico, ma ancora grandemente arretrata da un punto di vista della composizione sociale? E quale doveva essere il programma politico che avrebbe permesso alla Russia di affrontare il salto rivoluzionario che si annunciava inevitabile?

Alla prima questione si incaricò di rispondere non una disputa dialettica, ma un fatto storico di portata mondiale: la guerra. Come già aveva fatto sia pure in minor misura quella russo-giapponese del 1904, anche la guerra mondiale scosse in profondità il tessuto patriarcale della Russia contadina. Antichi servi della gleba, trasformati in “liberi” coltivatori dalla riforma del 1861 e in realtà ridotti in condizioni di dipendenza e di miseria ancora peggiori, i contadini furono mandati a combattere sui tanti fronti meridionali ed occidentali, pagando un contributo pesantissimo all’ultimo sussulto della politica imperiale zarista. Le sconfitte subite accelerarono il processo di decomposizione dell’esercito e al tempo stesso crearono il terreno ideale alla propaganda comunista.

Alla seconda questione, certamente il partito bolscevico giunse non completamente preparato, nonostante le lunghe lotte interne per far chiarezza su compiti teorici e attività pratica. Non c’è dubbio che le sirene del gradualismo, rappresentate dal partito menscevico, avevano mietuto non pochi seguaci tra i rivoluzionari, e ci volle tutta l’energia di Lenin, in quelle due cruciali settimane primaverili, per raddrizzare l’esitante timone del partito. La questione dibattuta sembrava avere una sua motivazione “materialistica”: come può affermarsi una rivoluzione comunista se le condizioni necessarie, quelle di una base economica capitalistica, non si sono ancora pienamente realizzate? I menscevichi, e non pochi bolscevichi, ritenevano la cosa impossibile. Sarebbe stato dunque necessario favorire una “rivoluzione a tappe”, attraverso un opportuno sistema di alleanze con la borghesia, che avrebbe permesso infine un graduale inserimento della Russia nel novero dei paesi pienamente industrializzati. Solo a quel momento si sarebbe dovuto porre la questione di principio, la presa rivoluzionaria del potere da parte del partito in nome di un proletariato rivoluzionario “puro”.

Eppure quei marxisti “gradualisti”, che conoscevano Marx a memoria, si erano dimenticati che fin dal 1850, in uno dei periodi più bui del movimento rivoluzionario del XIX secolo, che usciva dalle gravi sconfitte degli anni precedenti, si era scritto e detto a chiare lettere che, proprio perché si era in una situazione arretrata economicamente e socialmente (Germania), sarebbe stato necessario spezzare ogni alleanza con il nemico di classe per presentare il proprio, autonomo programma rivoluzionario, al fine di attraversare la rivoluzione borghese. Sarebbe cioè stato possibile il definitivo assalto al potere spazzando via i residui delle società precedenti (cosa che la rivoluzione borghese non sarebbe stata in grado di attuare) e infine rovesciando i detentori del transitorio governo borghese. Questo programma fu detto, allora, rivoluzione in permanenza [2] e fu attuato in Russia tra febbraio e ottobre 1917 col nome di “rivoluzione capitalistica con dittatura democratica del proletariato e dei contadini” (o doppia rivoluzione).

Non è il caso di soffermarsi ora sui diversi momenti – esaltanti, e che qualsiasi giovane proletario dovrebbe oggi studiare e meditare a fondo per trarne linfa vitale – della storia della rivoluzione russa. Dobbiamo invece prendere in esame quale è il suo significato profondo per le rivoluzioni del futuro, quale è il lascito che resta in eredità alle prossime generazioni comuniste.

 

1) Il partito di classe

Il primo insegnamento è l’aver ribadito che senza quell’organizzazione fortemente centralizzata che è il partito, in grado di unificare le spinte che vengono dalle lotte della classe, di fissarne il corso storico e di orientare il loro sbocco contro tutte le altre classi della società, nessun superamento della struttura della società borghese sarà mai possibile.

Nessuno immagina che una guerra contro uno stato nemico potrebbe essere vinta senza un esercito fortemente centralizzato, formato da militari disciplinati, bene armati e consapevoli dei principi fondamentali dell’azione. Eppure, quando si trasferisce il concetto della guerra borghese tra stati a quello marxista tra classi, lo stesso principio sembra diventare di difficile applicazione, e nelle fila stesse dei rivoluzionari si formulano le più disparate opinioni circa la necessità di disporre di un organo ferreamente centralizzato e perfettamente armato dal punto di vista della strategia generale e delle risorse tattiche alle quali attingere nel corso della lotta rivoluzionaria per la conquista violenta del potere. Ciò non dipende necessariamente dall’incapacità di trarre lezioni dalla storia, ma piuttosto dal fatto che, ad ondate, si abbatte sul movimento rivoluzionario l’idea opportunista che sia possibile, mediante accordi con la borghesia, ottenere per via pacifica e graduale quella serie di riforme che permetteranno all’umanità uno sviluppo pacifico e progressivo dell’economia capitalistica, dal quale tutti trarranno benefici.

Da questa ideologia, scaturisce il corollario che il partito non ha più la necessità di vigilare sul riarmo teorico (e, quando necessario, militare) della classe, ma quella di operare sul terreno pratico della realizzazione quotidiana di conquiste progressive e parziali, nei campi legislativo, sindacale, amministrativo locale e nazionale, finché tutto ciò si trasformi in “socialismo”. A questa posizione gradualista, tipica del riformismo ottocentesco, che snatura completamente il significato del partito, sembra contrapporsi (in realtà generata dalla stessa matrice) quella secondo cui la lotta va condotta in modo violento sì, ma senza intermediari: è la massa che scende nelle piazze e attraverso comitati spontaneamente formati e democraticamente eletti crea locali centri di potere, nelle singole fabbriche (come pensavano gli “ordinovisti” torinesi del 1919-20 e alcuni loro eredi operaisti sparsi per il mondo dopo la seconda guerra mondiale) o nelle singole città (come pensavano gli spartachisti del 1918-19 e i loro molti eredi “ultrasinistri”, sensibili all’anarcosindacalismo immediatista).

Contro queste gravissime deformazioni, già tutte presenti in atto o in potenza nel socialismo europeo del XIX secolo, Lenin condusse una lotta a tutto campo nei vent’anni che precedettero la Rivoluzione d’Ottobre. Ma il percorso della formazione delle avanguardie rivoluzionarie non è mai lineare e volontaristicamente programmabile. Esso risulta piuttosto dall’interazione tra il dato momento storico e le spinte del sottosuolo sociale ed economico che costantemente agiscono nel senso del superamento delle organizzazioni precedenti. Nella storia del movimento operaio europeo, si assiste a una prima fase del “socialismo utopistico” rappresentato dalle sette socialiste, cui segue lo sviluppo impetuoso, teorico e organizzativo, del 1840-1850, la dissoluzione nel decennio successivo, la riorganizzazione nella Prima Internazionale, la successiva sconfitta dopo la Comune di Parigi, la seconda riorganizzazione internazionale nel 1889, la nuova crisi legata all’adesione dei partiti socialisti alla guerra mondiale, la nuova riorganizzazione nella III Internazionale, la nuova disfatta con il trionfo delle teorie interclassiste del fronte unico e del fronte popolare. Nella Russia prerivoluzionaria, molte di queste tappe furono concentrate in lotte teoriche durissime per pochi decenni, e il marxismo dovette affrontare e vincere diverse ideologie di matrice piccolo-borghese e di origine contadina. Emerse chiara da queste battaglie la necessità del partito di classe che superasse la fase dei circoli operai o dei gruppi cospirativi terroristici, nel quale “per i militanti del nostro movimento, il solo principio organizzativo serio dev’essere: rigorosa clandestinità [siamo in piena repressione zarista - NdR], scelta minuziosa degli iscritti, preparazione di rivoluzionari di professione. Con queste qualità avremo anche qualcosa di più della ‘democrazia’: avremo una fiducia completa e fraterna fra rivoluzionari” [3].

Se un partito bene organizzato e correttamente impostato sul piano della teoria era essenziale nei decenni precedenti la rivoluzione, la presenza del partito dopo la presa del potere fu altrettanto importante. “I bolscevichi non si sarebbero mantenuti al potere [….] se nel nostro partito non fosse esistita una disciplina severissima, realmente ferrea”, perché “la dittatura del proletariato è la guerra più eroica e più implacabile della nuova classe contro un nemico più potente”, e dunque “la centralizzazione assoluta e la più severa disciplina del proletariato sono una delle condizioni fondamentali per la vittoria sulla borghesia” [4]. Solo facendo leva su un tale partito, fu possibile orientare organizzazioni di massa come i sindacati e i Soviet in direzione rivoluzionaria. L’anno dopo in Ungheria, e poi nel 1919 in Germania, fu proprio l’assenza di un tale partito a permettere alla borghesia di resistere all’urto rivoluzionario e di procedere alla decapitazione dell’avanguardia comunista.

Dallo sviluppo della nostra teoria presente fin dal 1848 e da tutti gli esempi storici successivi, con la fondamentale applicazione nella Rivoluzione d’Ottobre, la sinistra marxista ha tratto una conclusione che deve rappresentare un passaggio obbligato per la rivoluzione futura. Il partito comunista “realizza la cosciente organizzazione di quell’avanguardia del proletariato che ha compreso la necessità di unificare la propria azione, nello spazio al di sopra degli interessi dei singoli gruppi, categorie o nazionalità; nel tempo, subordinando al risultato finale della lotta i vantaggi e le conquiste parziali che non colpiscono l’essenza della struttura borghese. È dunque soltanto l’organizzazione in partito politico che realizza la costituzione del proletariato in classe lottante per la sua emancipazione” [5].

 

 

 

2) Internazionalismo

L’estendersi su tutto il pianeta dell’economia capitalistica fin dal XIX secolo, quando ormai “i tenuti [????] prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie cinesi” e “la società intera si va sempre più scindendo in due grandi campi nemici, in due classi direttamente opposte l’una all’altra: borghesia e proletariato” (Manifesto del partito comunista, 1848), ha prodotto come necessaria conseguenza la necessità che le diverse organizzazioni rivoluzionarie locali cercassero di darsi un collegamento internazionale. Asserviti allo stesso processo di valorizzazione del capitale, in quanto produttori di plusvalore, i salariati di tutto il mondo non hanno patria.

La storia stessa della Rivoluzione Russa è lì a dimostrare che l’ambiente nella quale essa maturò i propri programmi era internazionale, dal momento che uno scambio continuo di notizie, idee, studi sui vari aspetti sociali era in atto già tra Marx ed Engels da una parte, e i primi socialisti russi fin dal 1860. Tali rapporti si intensificarono naturalmente con l’arrivo nell’Europa occidentale dei principali esponenti della socialdemocrazia russa, scampati con l’esilio alle persecuzioni della polizia zarista.

La tesi profondamente anti-internazionalista dei menscevichi era che lo stato arretrato della Russia avrebbe impedito la rivoluzione comunista, e che sarebbe stato un grave errore storico lottare per la sua realizzazione. La tesi marxista era che la rivoluzione comunista è e sarà per definizione internazionale, e poco importa il fatto relativamente secondario del luogo in cui essa inizia. Ciò che è vitale per il successo, non sta dunque nella vittoria in questo o quel paese, ma è il sostegno internazionale a quella rivoluzione e quindi la sua rapida estensione. Nessun marxista russo all’indomani della presa del potere si poté esprimere in altro modo, essendo ben chiaro a tutti, russi ed europei, che la rivoluzione avrebbe potuto sopravvivere solo se, nel giro di pochi anni, avesse trionfato in Europa. Non verificandosi questo fatto, si quantificò in 20 o in 50 anni il tempo in cui la l’Unione Sovietica sarebbe potuta sopravvivere senza abdicare al controllo del potere proletario. Si vide poi che queste previsioni erano straordinariamente ottimiste. Già nel 1926 veniva esposta a chiare lettere la teoria di “socialismo in un paese solo”, espressione che contiene due autentiche bestemmie: la prima, che possa esistere un paese ad economia socialista isolato in un mondo capitalistico; la seconda, che l’Unione Sovietica abbia mai conosciuto un qualche cosa che possa rassomigliare all’economia socialista.

Che il collegamento internazionale delle avanguardie rivoluzionarie fosse sentito come un’assoluta priorità è dimostrato dal fatto che gli sforzi dei marxisti russi ed europei pochi mesi dopo Ottobre furono indirizzati alla ricostruzione di un’organizzazione internazionale (l?internazionale Comunista, o III Internazionale), il cui primo congresso si terrà nel marzo 1919. Le schiere di oppositori a qualsiasi forma di organizzazione politica del proletariato – peggio se su un livello internazionale – hanno in seguito sostenuto che, in realtà, la III Internazionale non fosse altro che una pedina nelle mani del partito bolscevico per ragioni interne agli affari di stato russo. Che ciò in certa misura sia avvenuto già nei mesi successivi la morte di Lenin (1924) è cosa della quale la Sinistra marxista, e quella “italiana” in particolare, si occupò nelle assise della stessa Internazionale in quegli anni. Ma ciò dipese dal fatto che, all’interno della Russia, e di riflesso nel partito bolscevico, si stava producendo una lotta spietata che avrebbe portato, nel giro di pochi anni, alla completa decapitazione del movimento rivoluzionario, risultando anzi questo processo come conferma del fatto che nessun paese isolato può far fronte a lungo alla pressione della controrivoluzione. A questi critici, sempre fu risposto irridendo alla teoria secondo la quale i comunisti di un paese non devono interessarsi di ciò che avviene nei partiti di altri paesi: teoria che non è altro che il riflesso, sul piano politico, dell’ideologia del piccolo-borghese sempre pronto a correre dietro alle chimere della propria “libertà”. Costui è costituzionalmente incapace di pensare in termini di solidarietà di classe, se non quando, costrettovi dalla crisi generale del sistema, è gettato nel vortice degli eventi, andando a ingrossare le file del proletariato.

Entro certi limiti, in quegli anni, sull’onda doppia della crisi postbellica e dell’entusiasmo per la vittoria rivoluzionaria in Russia, la solidarietà internazionale di classe non mancò. Era trascorso circa mezzo secolo dall’ultimo grande tentativo da parte del proletariato di prendere il potere, nella Comune di Parigi del 1871. Nei cinque anni successivi al 1917 si scatenarono in Europa moti proletari contro la guerra e per il socialismo. Cominciò la Germania nel 1918 col movimento spartachista, soffocato nel sangue dal neonato governo socialdemocratico. Seguì l’Italia con il biennio rosso 1919-20, conclusosi con l’orgia demoparlamentare cui aderirono tra i primi i socialisti che si vantavano di non aver aderito alla guerra. Anche i tentativi di Ungheria e Baviera (1919-21) furono schiacciati dalla repressione borghese, e infine l’ultimo tentativo serio di lotta per il potere in Europa si combatté ancora in Germania nel 1923. La sconfitta internazionale del movimento socialista rivoluzionario ebbe come immediato contraccolpo la vittoria nazionale delle forze controrivoluzionarie in Russia. Si trattò di una disfatta storica, della quale viviamo duramente gli esiti a distanza di quasi un secolo, ma ciò va imputato non a una debolezza della teoria internazionalista, che anzi ne riceve maggior forza e conferma, ma dal fatto che le spinte rivoluzionarie pur forti vennero ostacolate dall’insufficiente grado di maturazione delle direzioni dei partiti e dalla presa ancora forte che aveva l’opportunismo su ampi strati proletari in Occidente.

 

 

 

3) Comunismo

Una terza lezione che i rivoluzionari marxisti devono trarre dall’Ottobre 1917 e dalle sue immediate conseguenze, riguarda le misure che il partito dovrà attuare dopo la presa del potere.

I bolscevichi si trovarono costretti ad adottare una politica economica – la NEP – che permettesse, in un periodo di lotta contro il fronte unito delle borghesie occidentali e delle classi feudali russe, di non inceppare i meccanismi di produzione e di scambio tra città e campagna, da un lato, e dall’altro di cominciare a porre le premesse, dove possibile, di una economia interamente capitalistica nelle mani della Stato, come base necessaria di un futuro passaggio al socialismo, quando (e solo quando) la rivoluzione vittoriosa in Occidente l’avesse permesso. Le prime misure che si sarebbero dovute adottare consistevano nei seguenti punti: nazionalizzazione delle banche – nazionalizzazione dei sindacati capitalistici – abolizione del segreto commerciale – associazione forzata di industriali entro sindacati capitalistici – regolamentazione del consumo – imposta fortemente progressiva sui capitali [6].

Tutti questi punti, estremamente audaci nella Russia del 1917, sarebbero di scarsa rilevanza in un’economia capitalistica avanzata, e non contengono nulla di socialista, pur costituendone una necessaria premessa: essi vanno dunque valutati sulla base delle prospettive cui una rivoluzione comunista deve tendere sul piano economico in un paese capitalisticamente avanzato.

Il socialismo si caratterizza come una nuova forma di distribuzione dei prodotti, basata su una altrettanto nuova ripartizione delle condizioni della produzione. Per raggiungere questo scopo sarà necessario un intervento dispotico a tutti i livelli della società, allo scopo di distruggere per sempre quanto rimane degli antichi rapporti sociali: solo allora sarà possibile impostare un vero piano socialista. Non si tratterà degli staliniani “piani quinquennali” della “competizione socialista” con le borghesie occidentali, con i quali si voleva dimostrare la superiorità produttiva del “socialismo” russo. Al contrario, si tratterà di “un piano per crescere i costi di produzione, ridurre la giornata di lavoro, disinvestire capitale, livellare e quantitativamente e soprattutto qualitativamente il consumo […] Piano dunque di sottoproduzione, di drastica riduzione della quota prodotta di beni capitali”[7]. Conquistato il potere e instaurata la dittatura proletaria come necessaria fase di passaggio alla società senza classi (e dunque senza stato), sarà indispensabile distruggere i rapporti di produzione e di scambio che caratterizzano l’economia del capitale, iniziando da alcuni settori fondamentali, come quello delle banche, della finanza, e in generale di tutti quelli a carattere parassitario tipici dell’età imperialista. La prima caratteristica nella sfera della produzione e della circolazione è la scomparsa dello scambio di equivalenti, e dunque della legge del valore. Con essa dovrà sparire il denaro, e ciò finalmente sancirà la fine del lavoro salariato, cioè della forza-lavoro ridotta allo stato di merce.

Tutto ciò restò nelle speranze della generazione che guidò la rivoluzione in Russia e che fu sterminata dalla controrivoluzione internazionale. Ciò nonostante, quelle speranze che sono confermate dalla storia come certezze, ispirano al partito di oggi la strenua difesa dei principi internazionalisti nell’organizzazione della classe, antimercantilisti nell’organizzazione economica della società futura. Ciò che ci lascia la Rivoluzione Russa non sta dunque, come preteso da tutti i falsificatori dichiaratamente collusi con il nemico di classe, nella realizzazione di un preteso “socialismo mercantile”.

Sta invece nell’enorme patrimonio teorico, nella riaffermazione del ruolo centrale del partito di classe, nel restauro della teoria della violenza rivoluzionaria, del disfattismo contro le guerre e contro il capitale, della lotta spietata contro ogni forma di opportunismo democratico.



[1] K. Marx, F. Engels, India Cina Russia, Il Saggiatore 1970, pag. 296-97.

[2] Si vedano sia il Manifesto del 1848 sia l’“Indirizzo del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti” (1850).

[3] Lenin, Che fare?, cap. 4, paragrafo e).

[4] Lenin, L’“estremismo”, malattia infantile del comunismo, cap. II.

[5] “Tesi della Frazione comunista astensionista del PSI”, in Il Soviet, n. 6 1920; ora in In difesa della continuità del programma comunista, ed. il programma comunista 1989, p. ???.

[6] Lenin, “La catastrofe imminente e come lottare contro di essa”, in Opere complete, vol. 25, Editori Riuniti

[7] “Dialogato con Stalin (giornata seconda)”, Il programma comunista, n. 2/1952.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2007)

 

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