E’ comprensibile l’entusiasmo col quale la finanza italiana, e quindi alcuni settori della politica, hanno accolto la recente fusione tra diversi colossi bancari. Dapprima ci fu quella fra Intesa e San Paolo che, si dice, gioverebbe a Prodi e ai suoi amici; adesso segue quella che viene considerata una contromossa dalemiana, con la creazione di Unicredito. Che dietro questi ultimi eventi ci siano le facce ghignanti di politici di tutte le parrocchie, è un fatto tanto evidente che persino un Cossiga, sul Sole-24 Ore del 20 maggio scorso, ne prende doveroso atto. Cosa che sulla stessa pagina, tuttavia, manda in bestia l’integerrimo Robespierre-Veltroni, per il quale non sia mai che la politica si immischi di economia e l’economia di politica: che la tua sinistra non sappia ciò fa la destra... ecc. ecc. Tuttavia, altre considerazioni si impongono, ben al di là degli intrallazzi privati o di partito di cui le gerarchie al potere si incolpano vicendevolmente. Ad esempio, andrà considerato il processo storico che ha fatto sì che, in questi ultimi vent’anni, il numero di banche operanti in Italia si sia ridotto di un 30-40%, e che ormai tutto il mercato finanziario sia ammassato nelle mani di forse tre o quattro “operatori”. Soltanto i gonzi possono bere la leggenda che, in questo modo, il servizio ai piccoli risparmiatori migliorerà, rendendoli felici. E soltanto altri gonzi, o mistificatori patentati, possono lamentarsi della struttura monopolistica dell’assetto finanziario. Ricorda, il lettore, i fiumi di parole che gli stalinisti nostrani, allo scopo di intrufolarsi meglio nelle pieghe del sistema, hanno sparso al vento per decenni protestando contro la minaccia di “oligarchie” antidemocratiche (si trattava ovviamente, all’epoca, di quelle democristiane)? Fondere banche significa disporre, in ultima analisi, di maggiore capitale finanziario. Chi ne dispone, e per quali scopi, può certamente essere argomento di ulteriori approfondimenti. Per ora, noi vediamo questo fatto come la necessaria, vitale esigenza da parte del capitale finanziario italiano, che subisce la concorrenza spietata di colossi mondiali, di evitare il soffocamento. I tentativi di difendere dagli assalti stranieri la “propria” industria produttiva, le “proprie” fette di plusvalore e di rendita, non possono aver successo senza contromisure adeguate, e nel linguaggio dell’imperialismo ciò significa concentrazione. Se poi questo dato di fatto si coniuga col collaudatissimo sistema delle cointeressenze, del sistemare figure di paglia nei consigli di amministrazione di banche e di industrie, sugli scranni parlamentari o meglio governativi, tutto ciò non ha né il sapore della novità né di quello dell’originalità. È descritto nella nostra dottrina da oltre 150 anni, e per noi è solo un ulteriore tassello di quel processo irreversibile, lento finché si vuole, ma altrettanto inesorabile, che si chiama crisi mondiale.

Alla prossima puntata, dunque!

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2007)

 

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