Nell’ultimo anno, è tornata alla ribalta la proposta di un salario minimo fissato per legge. Ad avanzarla non è stato un movimento spontaneo dei lavoratori. Sono stati i partiti borghesi di “sinistra” (PD, 5Stelle e minutaglie varie, eredi ed esecutori testamentari dei vecchi carrozzoni riformisti) e le organizzazioni sindacali nazionali e conciliatrici (in particolare la CGIL). A loro hanno risposto i partiti della “destra” borghese ora al governo, con proposte alternative che, a sentir loro, dovrebbero veramente migliorare le condizioni salariali: non un salario minimo per legge, bensì l’estensione a tutti (erga omnes) della contrattazione collettiva con un miglioramento dei controlli (sic!). Tutto questo attivismo nel difendere le condizioni dei lavoratori, questa gara a chi ne rappresenta veramente gli interessi proprio mentre il proletariato italiano continua a subire passivamente il peggioramento del salario reale (e non solo) senza nessuna reazione, merita quindi di essere analizzato.

Negli ultimi anni, nel resto d’Europa (Inghilterra, Francia, Germania), contrariamente all’Italia, abbiamo assistito ad ampie ondate di scioperi, soprattutto come reazione all’inflazione elevata che ha eroso i salari. L’Italia, secondo i dati OCSE, è l’unico paese europeo ad aver registrato una regressione negli stipendi degli ultimi trent’anni. Questi dati trovano conferma anche in altre fonti: l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), presentando il Rapporto sui salari 2022-23, mostra che i salari reali in Italia hanno perso 12 punti rispetto al 2008, dato peggiore tra i Paesi del G20. In Francia, in questi ultimi trent’anni le retribuzioni sono aumentate del 31%, ma non è un caso e nemmeno un processo puramente economico: il livello dei salari è legato alla combattività dei lavoratori, attuale e potenziale.

È chiaro dunque che tutto questo cianciare in aspra polemica sul salario minimo e sugli strumenti per migliorare i salari è solo un'irritante cortina fumogena, innescata per scongiurare l’esplodere di una bomba sociale, mantenere il malcontento crescente nell’alveo parlamentare e legislativo, cercar di rallentare una ripresa delle lotte economiche dei lavoratori.

Breve storia del salario minimo per legge. Dopo il secondo conflitto mondiale, volendo dare l’impressione di superare il sistema corporativo “fascista” che garantiva l’applicazione a tutti i lavoratori dei salari stabiliti dai contratti collettivi, il legislatore “antifascista”, con la legge “Vigorelli” (n. 741 del 1959), attribuì al Governo la delega per emanare una serie di decreti che definissero un “minimo di trattamento economico e normativo” per ogni categoria di lavoratori. Con questa legge dunque, negli anni ’50 del secolo scorso, si tentò di generare l’estensione “erga omnes” dei contratti collettivi. Ma il progetto abortì per l'intervento abrogativo della Corte Costituzionale (sentenza n. 106 del 19 dicembre 1962) che lo ritenne in contrasto con l’art. 39 della Costituzione.

Più di recente, nel 2014, una proposta di salario minimo è ricomparsa nel famigerato Jobs Act (governo Renzi) senza mai essere attuata. Sì, proprio il Jobs Act, quella riforma del lavoro che, tra l’altro, aboliva l’articolo 18, rendendo più semplice licenziare. Non sembri una contraddizione. Si trattava del solito metodo del bastone e della carota: da una parte togliere ai lavoratori tutele e garanzie salariali, dall’altra promettere miglioramenti. Il Jobs Act fu solo una tappa del lungo processo di devastante peggioramento delle condizioni salariali e normative dei lavoratori, avviato proprio da quel Partito Democratico erede della migliore tradizione antioperaia “comunista”, “socialista” e “democristiana”. Grazie ai governi della “sinistra” degli anni ‘90 abbiamo avuto tre decenni di aumento della flessibilità del lavoro (sempre più precario, flessibile, sottopagato, mentre tra una cassa integrazione e l'altra fioccavano i licenziamenti), spacciata come il miglior strumento per favorire la crescita e l'occupazione. Anticipatore del Jobs Act fu il Pacchetto Treu del 1997, che si proponeva di “svecchiare” il mercato del lavoro, a partire dall’introduzione del lavoro interinale, chiamato oggi “in somministrazione”. Ma si mise mano anche ai contratti a termine, ampliando le possibilità di prorogarli, e alla decontribuzione del part-time. Sempre nel 1997, su suggerimento di Nicola Rossi (l’economista più vicino a D’Alema), mentre si azzerava il welfare, si fece la proposta di un salario minimo o “minimo vitale” per i disoccupati: 500 mila lire al mese. Sottolineiamo quindi ancora il metodo del bastone e della carota. Un esecutivo “progressista” è quello maggiormente in grado di ingannare i lavoratori salariati e fargli ingoiare un peggioramento delle sue condizioni.

Mentre i governi della “destra” attaccano frontalmente i lavoratori, la “sinistra” li attacca ai fianchi e alle spalle: la flessibilità compie un altro passo importante nel 2003 con la legge Biagi, che si traduce in più di 40 tipologie contrattuali. Questi pochi esempi solo per ricordare chi sono gli attuali paladini dei salariati!

L’ultima proposta di legge sul salario minimo in Italia si sovrappone a una direttiva europea del 2022 che cerca, senza poterlo dire esplicitamente, di livellare i salari in Europa. Nella sua solita contraddizione tra interessi nazionali e ricerca dell’unità, la Commissione Europea nega di voler scavalcare le competenze nazionali nella definizione dei salari. Ma, al di là della retorica astratta, all’indomani dell’allargamento a est dell’Europa, la concorrenza salariale al ribasso nel mercato unico è venuta prepotentemente alla ribalta. Il “dibattito” è stato poi rilanciato dalla grande recessione del 2008, quando si è assistito a un incremento senza precedenti della povertà lavorativa e delle disuguaglianze retributive: situazione esasperata prima dal riacutizzarsi della crisi all'esplodere della “pandemia” e poi dall'impennarsi dell’inflazione.

Occorre inoltre far notare che anche la Lega di Salvini nel 2018, e Fratelli d’Italia nel 2019, sono stati fautori di un salario minimo per legge. Anche qui nessuna contraddizione: ricerca di un demagogico consenso in campagna elettorale che si trasforma poi in responsabile difesa dell'economia nazionale una volta giunti al governo.

La CGIL, che oggi, alla disperata ricerca di una sponda parlamentare, appoggia la proposta PD e 5 Stelle, ha sempre fieramente avversato il salario minimo per legge: temeva che un salario minimo per legge potesse togliere forza alla contrattazione e rubarle il mestiere di ruffiano principale della forza lavoro, in virtù di un curioso pluralismo sindacale italico ereditato dai tempi della Guerra Fredda (mestiere da spartire con CISL, UIL e una galassia di sindacati “autonomi”). La CGIL preferiva opporre al salario minimo l’estensione erga omnes della contrattazione collettiva e una legge sulla rappresentanza sindacale che le consentisse di essere referente esclusivo del padronato e dello Stato, insieme alle suddette Organizzazioni, per la firma dei contratti (qualcosa che ci ricorda il “ventennio”...). Strana coincidenza con la proposta attuale del governo italiano – Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia – che, incentrata sull’estensione della contrattazione collettiva, respinge come inammissibile e controproducente il salario minimo fissato per legge. Per le categorie con salari minimi inferiori ai 9 euro l’ora, i contratti sono stati proposti e firmati anche e proprio dalla CGIL.

Come volevasi dimostrare, abbiamo assistito negli anni a inversioni totali e rinnegamenti delle proprie posizioni (svolte, controsvolte e turniquets, come disse un vecchio guitto!). Ogni “forza in campo” (partiti di “destra”, di “sinistra”, “populisti” e “progressisti”, sindacati “nazionali”...) ha detto tutto e il contrario di tutto, sotto lo sguardo vigile del padronato e dei suoi funzionari pubblici: l’unico filo conduttore resta la ricerca del consenso elettorale e la difesa dei propri interessi particolari e immediati!

Il salario minimo in Europa. La direttiva europea del 2022 non impone a ogni Stato l’introduzione di un salario minimo, ma solo a quelli in cui non è presente una contrattazione collettiva superiore all’80%. Lo Stato italiano sostiene di avere una contrattazione collettiva che supera il 96% dei lavoratori, ma ammette l'esistenza di una economia sommersa, un lavoro nero che “sfugge a qualsiasi statistica”: secondo alcuni “ricercatori” sono 5 i milioni di lavoratori sfruttati in questo settore contro gli altri 14 milioni e mezzo normalmente sfruttati nel settore privato (esclusi i lavoratori del settore agricolo e domestico). Per di più l’applicazione formale del contratto collettivo non significa che venga sostanzialmente rispettato (ricordiamo tutti le prime lotte dei facchini della logistica...) e i ritardi nel rinnovo sono cronici: non di mesi ma di anni!

In Europa, convivono spesso salario minimo per legge e contrattazione collettiva. Gli Stati europei con salari minimi nella contrattazione collettiva sono: Austria, Danimarca, Finlandia, Italia, Svezia. Un salario minimo per legge è presente in quasi tutti gli altri: Estonia, Grecia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Ungheria, Polonia, Romania, Rep. Ceca, Slovacchia, Cipro, Croazia, Germania, Lussemburgo, Malta, Portogallo, Olanda, Slovenia, Belgio, Francia, Spagna. Ci sono poi Stati in cui la contrattazione è forte, ma il salario minimo interviene comunque a complemento. In Belgio, Francia, Spagna, ma anche in Germania, Portogallo e Olanda convivono una copertura dei contratti collettivi elevata o abbastanza elevata e il salario minimo legale (di valore elevato, almeno relativamente alla distribuzione dei salari, in Francia e Portogallo, più moderato in Belgio, Germania, Spagna e Olanda). In Belgio, i contratti collettivi sono estesi erga omnes e coprono praticamente tutti i lavoratori e il salario minimo, anch’esso negoziato dalle parti, è solo una ultima protezione e nei fatti coinvolge un numero molto limitato di lavoratori. Anche in Francia i contratti collettivi coinvolgono praticamente tutti i lavoratori e sono estesi per legge con una procedura semi-automatica: il salario minimo è fissato dal governo sulla base di una formula di calcolo automatica e sulle valutazioni di un gruppo di esperti, coprendo oltre un lavoratore su dieci con un forte effetto leva su tutti i salari. Nel caso francese, il salario minimo è un traino importante per la rinegoziazione di tutti i contratti. In Olanda, dove l’estensione erga omnes è regolata con criteri abbastanza stringenti, il salario minimo segue l’evoluzione dei salari della contrattazione collettiva e si applica per chi ne è escluso. In Germania, infine, l’estensione erga omnes è ormai una rarità: il salario minimo è stato introdotto nel 2015, ed è stabilito da una commissione composta da padroni e sindacati, sulla base dei salari già negoziati. Anche in questo caso il minimo salariale si applica a chi sfugge alla contrattazione. Sempre in Germania, la questione è stata oggetto di due studi recenti di ricercatori vicini ai sindacati che sono giunti alla conclusione che il salario minimo non ha ridotto l’estensione della contrattazione collettiva: al contrario, la contrattazione collettiva è stata spesso fortemente influenzata dal salario minimo nella fascia più bassa delle scale salariali e, a seconda del settore, ha contribuito a uno spostamento verso l'alto di tutti i salari con un effetto positivo dell’introduzione del salario minimo sul tasso di adesione ai sindacati.

In sostanza, l’esperienza europea suggerisce che un salario minimo per legge non è necessariamente in contrapposizione o addirittura dannoso per la contrattazione collettiva. Le polemiche scoppiate in Italia tra fautori del salario minimo per legge e sostenitori della contrattazione collettiva appaiono ancora una volta puramente strumentali e faziose. Naturalmente, gli studiosi e politici borghesi non prendono nemmeno in considerazione la combattività dei lavoratori nella determinazione dei salari... Figurarsi poi il contesto economico e storico. La lotta per il salario è una costante nella secolare storia del Capitale e del Lavoro Salariato: in tutte le sue fasi storiche, ha la sua base nelle condizioni economiche (cicli di espansione o di recessione, richiesta maggiore o minore di forza lavoro, Stati di giovane o antico impianto capitalistico....) e riflette la combattività che i proletari riescono a esprimere nella situazione data.

I numeri della proposta di legge PD/5stelle. La proposta di legge presentata dai partiti della sinistra borghese è partita con una raccolta firme on-line che avrebbe raccolto, secondo gli organizzatori, 300mila adesioni… compresi Cippa Lippa e Paperino. Facile per i detrattori della proposta denunciare la mancanza di serietà nella raccolta firme: non erano previsti strumenti per identificare i firmatari e si poteva accedere alla votazione più volte.

Venendo alle cifre più concrete: a quanto corrisponderebbe il salario minimo? Anche qui regna la confusione più totale e nessuno fornisce una risposta chiara, nemmeno i consulenti del lavoro e i centri di assistenza fiscale. Non si capisce infatti se nel conteggio debbano essere considerati anche il TFR, la tredicesima e la quattordicesima. La maggior parte degli esperti in maniera fiscale fissa la cifra netta fra i 6 e 7 euro l’ora.

Naturalmente, non è la sola paga oraria a determinare la condizione di lavoratore povero, ma anche la condizione di lavoratore stagionale, precario e part-time: un salario minimo orario per legge non risolverebbe la condizione di povertà per questi lavoratori. Analisi più realistiche sul cosiddetto “lavoro povero” considerano altri aspetti oltre la paga oraria: part-time involontario superiore al 60% del totale, tirocini extra-curricolari più che raddoppiati nell’ultimo decennio, lavoratori in nero, differenziali retributivi elevati tra occupati con contratto a termine e con contratto a tempo indeterminato, false Partite IVA, gap salariale tra uomini e donne. Se si considera il reddito annuo, un dipendente su tre non arriva a guadagnare 12 mila euro lordi.

Comunque, quanti sarebbero i lavoratori coinvolti dalla legge sul salario minimo a 9 euro lordi l’ora? Anche qui regna la confusione più completa. Secondo i dati INPS della gestione Tridico, i lavoratori poveri in Italia sarebbero 5 milioni. Formalmente sono considerati “lavoratori poveri” quelli che hanno una retribuzione inferiore al 60 per cento del reddito medio nazionale, ossia inferiore a 9 euro lordi l’ora. Questi lavoratori sono quelli del settore del turismo e ristorazione, servizi, lavori domestici, vigilanza e agricoltura - 35% dei braccianti sotto la soglia minima.

La recente proposta di legge, che esclude tutti i lavoratori domestici, coinvolgerebbe, secondo l’INPS (Tridico), circa 4,6 milioni di lavoratori (cifra che corrisponderebbe al 28% del totale dei lavoratori) se non si tiene conto dei ratei di tredicesima e TFR. Conteggiando queste ultime voci, invece, al di sotto dei 9 euro si collocano 1,9 milioni di dipendenti. L’ISTAT parla di 3 milioni di lavoratori con retribuzione sotto i 9 euro l’ora. La nuova gestione INPS, guidata dalla commissaria straordinaria Micaela Gelera, nominata dal governo Meloni, nello stimare la possibile platea dei lavoratori interessati dal salario minimo, considera solo i lavoratori che hanno un salario inferiore al minimo lavorando senza interruzioni per tutto l’anno. L’INPS ha preso in considerazione solo le retribuzioni orarie di ottobre 2022 e non ha considerato chi in quel mese si trovava in cassa integrazione parziale, chi era assente dal lavoro per malattia o maternità, i lavoratori intermittenti, in part-time e quelli in apprendistato. L’INPS cioè ha conteggiato solo lavoratori considerati “poveri” per la loro bassa retribuzione oraria, e non per la loro bassa intensità di lavoro. Sarebbero quindi 51.400 i lavoratori rilevati come working poor a ottobre 2022, ma di questi solo 20mila sono stati considerati potenziali beneficiari del salario minimo perché gli altri 31mila hanno raggiunto una retribuzione oraria superiore al 60 per cento del salario medio nel corso di tutto l’anno. Se invece di considerare il mese di ottobre, con pochi stagionali, si fosse preso a campione il mese di agosto, avrebbero sicuramente individuato una platea di beneficiari del salario minimo molto più alta. Insomma, una guerra delle cifre, in cui si può dire tutto e il contrario di tutto.

La stima INAPP si avvicina ai dati INPS della gestione Tridico: considerando i lavoratori dipendenti nel settore privato non agricolo, esclusi i lavoratori domestici, i beneficiari dell'introduzione di un salario minimo legale a 9 euro orari sarebbero circa 2,6 milioni. Di questi, circa 1,9 milioni di lavoratori a tempo pieno (il 18,4% del totale dei dipendenti a tempo pieno) per un costo di 5,2 miliardi, e circa 680.000 lavoratori a tempo parziale (il 29% del totale dei dipendenti part-time) per un costo di 1,5 miliardi. Il costo totale per le imprese sarebbe di 6,7 miliardi di euro.

Il dato politico, il cinismo opportunista dei promotori della legge, è l’esclusione dei lavoratori domestici e l’indifferenza rispetto al lavoro nero in questo settore. In Italia, sono oltre 2 milioni le persone che lavorano come colf, badanti o assistenti familiari. Secondo i dati INPS, nel 2020 i lavoratori domestici regolari sono stati 920 mila, con un aumento del 7,5% rispetto all’anno precedente. Tra questi, vi è una netta prevalenza di donne (87,6%) e una forte presenza straniera, pari al 68,8% del totale, proveniente per lo più dall’Est Europa. Il settore del lavoro domestico rimane il comparto con la maggior presenza di lavoro nero. I dati aggiornati evidenziano infatti un tasso di irregolarità pari al 57%, ben al di sopra rispetto alla media dei principali settori produttivi. Questi lavoratori non votano, in quanto stranieri, e quindi i pretesi paladini del salario minimo hanno deciso di poterli abbandonare a se stessi. Situazione molto simile nel comparto agricolo, con una presenza, fuori da ogni statistica, del lavoro nero, soprattutto stranieri. I lavoratori in nero, secondo la maggior parte degli studiosi, sarebbero tra i 3 ed i 5 milioni. Dove sono i paladini dei lavoratori?

La proposta del governo, ovvero la lista dei buoni propositi. L'Esecutivo, viste le sparate elettorali a favore del salario minimo, non ha rigettato formalmente la proposta dell’opposizione, ma l’ha trasformata in una “Delega al Governo” per legiferare sulla materia, dandosi 6 mesi di tempo. Per ora si conoscono solo i principi ispiratori, di cui il più importante è la centralità della contrattazione collettiva rispetto alla definizione di un salario minimo orario. Il governo intenderebbe estendere a tutti i lavoratori i trattamenti dei contratti più applicati – per l’appunto, la cosiddetta erga omnes. Si tratterebbe comunque, per i lavoratori privi di contratto, di impelagarsi in cause del lavoro e affidarsi ai tempi e alle alterne vicende della giustizia borghese. Il principio ispiratore della legge sarebbe lo stesso della legge Vigorelli cui abbiamo accennato più sopra, già bocciata dalla Corte Costituzionale: tutto si renderebbe più complicato e si ridurrebbe a questioni da azzeccagarbugli. Secondo le intenzioni del governo, l’estensione coinvolgerebbe anche gli appalti e i subappalti, favorirebbe l’emersione del lavoro nero e presupporrebbe l’attuazione di controlli da parte degli Ispettori del Lavoro. Peccato che gli Ispettori del Lavoro siano in stato di agitazione sindacale perché in carenza di organico, oltre a chiedere aumenti salariali e salari arretrati: capita che 15 ispettori debbano controllare 70mila aziende, e che la carenza di personale arrivi al 50%! Senza timore di essere smentiti prevediamo facilmente che il lavoro nero e precario aumenterà.

Ma la ciliegina sulla torta è la partecipazione dei lavoratori a gestione e utili d’impresa… altro cavallo di battaglia apparentemente strappato alla “sinistra” (la distopia della Socialdemocrazia tedesca della cogestione), ma ereditato dalla abortita Repubblica Sociale Italiana, dal sindacalismo fascista sintetizzato dalla parola d'ordine della vecchia CISNAL (ora UGL): “non più proletari, ma tutti proprietari con il corporativismo”. Strumento con cui la borghesia getta fumo negli occhi ai proletari, promettendo loro parte della ricchezza che producono, mentre la stessa borghesia continua ad appropriarsene in misura maggiore.

In conclusione. Ci sembra di aver dimostrato come non vi sia nessuna sincera preoccupazione per le condizioni dei lavoratori nella polemica attuale su salario minimo e contrattazione collettiva. Qualsiasi proposta, che sia il salario minimo o la contrattazione, è utilizzata contro il proletariato in assenza di un forte movimento di lotta. Il salario minimo per legge, come ha stabilito la stessa giustizia borghese, potrebbe servire a fissare un valore non adeguato a svuotare la contrattazione collettiva e ritardare ulteriormente il rinnovo dei contratti senza adeguarlo all’inflazione, per anni. La contrattazione collettiva, come visto nei settori del turismo, servizi, lavori domestici, vigilanza e agricoltura, di per sé non garantisce un salario adeguato. Solo scioperi forti e compatti potrebbero imporre un aumento del salario e perfino una riduzione dell’orario di lavoro. La prassi parlamentare e legislativa ovviamente sta solo rimandando la soluzione del problema, mentre l’inflazione continua a crescere e prosegue l’attacco alle condizioni di vita e di lavoro dei proletari.

Lo stesso dicasi per gli interventi della magistratura. I giudici hanno imposto alle aziende della vigilanza l’aumento dei salari (ci riferiamo ai salari previsti da contratti collettivi firmati dalla CGIL), con paga oraria di 4,5 euro l’ora. Ma a questo aumento imposto dal magistrato si sta procedendo con contratti ancora una volta firmati dalla CGIL che, al momento in cui scriviamo (gennaio 2024), sono arrivati a ben 6 euro l’ora… Intanto, tutti i funzionari del Capitalista Collettivo, magistrati, politici di destra e di sinistra, sindacalisti di regime, si riempiono la bocca con le belle parole della Costituzione: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.” Libertà e dignità sono parole che lasciamo volentieri agli intellettuali borghesi. Parole che tradiscono la paura di una reazione di lotta al peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, parole che servono a ritardare la ripresa di un forte movimento di lotta economica e sociale. Un salario minimo imposto per legge o qualsiasi misura concessa dai padroni e dal loro Stato ha la funzione di evitare o ritardare lo scontro di classe, mentre un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro che nasca da una reazione spontanea dei lavoratori organizzati in maniera indipendente, stabile e diffusa sul territorio oltre le galere aziendali, può sviluppare la forza, l’unità e la coesione del movimento.

Paura che nasconde il terrore che, con l'azione, il lavoro di contatto e organizzazione dei Comunisti, il movimento si riempia di contenuti politici e così alleni la nostra classe all’azione rivoluzionaria.

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