Il moltiplicarsi e l’acuirsi dei contrasti fra imperialismi in aree come il Medio e l’Estremo Oriente, l’Africa e la stessa Europa (non stiamo qui a rifare una volta di più l’elenco delle situazioni esplosive o già esplose) suscitano contraccolpi a tutti i livelli. S’intensifica il “discorso pubblico” (cioè la mobilitazione ideologica) relativo alla necessità di un “riarmo europeo”, poiché – come ha avuto modo di dichiarare di recente Charles Michel, presidente del Consiglio Europeo – “se vogliamo la pace, dobbiamo prepararci alla guerra”.

E parole ed espressioni come “escalation”, “economia di guerra”, “difendere le nostre rotte commerciali”, al momento riferite a episodi specifici come la guerra in Ucraina o la tesa situazione nel Mar Rosso, risuonano sempre più di frequente, abituando a esse lo stanco orecchio della Santa Opinione Pubblica. In particolare, poi, la prospettiva dell’avvicinarsi di un terzo conflitto mondiale (sbocco inevitabile per questo modo di produzione in profonda crisi di sovrapproduzione per la chiusura del ciclo espansivo seguito alla conclusione della seconda guerra mondiale) spinge in superficie, in maniera minacciosa, le contraddizioni implicite in tutte le posizioni che non si riconoscono nel marxismo rivoluzionario o – peggio! – che a parole proclamano di farlo, tradendolo poi nei fatti.

La preparazione ideologica alla guerra imperialista prima e inter-imperialista poi passa anche attraverso la ripresa di parole d’ordine e orientamenti strategico-tattici che nella sostanza preludono e alludono all’abbandono totale di quelli classisti e internazionalisti. L’interminabile Operazione Militare Speciale che in Ucraina vede contrapposti NATO e Russia e l’ennesimo massacro condotto dallo Stato d’Israele nella Striscia di Gaza (con tutti i riflessi nei dintorni immediati e non) hanno rilanciato i fantasmi delle “questioni nazionali”. Di qui, il rovinoso piombare di molte formazioni “di sinistra” nella trappola infame delle “unità nazionali”, con i più diversi pretesti e con le più arzigogolate arrampicate sui vetri (scivolosi perché insanguinati di sangue proletario!) del social-sciovinismo.

Al contrario, noi diciamo che il proletariato non deve più farsi carico dei residui nazionalisti, con l’illusione che possano, “democraticamente portati fino in fondo”, diventare trampolini di lancio per la rivoluzione socialista (questioni nordirlandese-basca-catalana-slava-palestinese-kurda-cecena-ucraina, ecc.). Questi residui sono autentiche cancrene, tossiche e potenzialmente letali. Non ci sono più “borghesie e popoli oppressi” di altre fasi storiche da appoggiare nel “diritto all’autodecisione” o nella “separazione”, per accelerare il corso della rivoluzione proletaria: sia in quantità che in qualità, il problema è ormai fuori tempo e fuori luogo.

Il che non vuol dire che moti di natura piccolo-borghese non possano dar luogo a timide, più o meno violente e contingenti, lotte dovute alle contraddizioni che si creano localmente, nel corso delle inevitabili occupazioni e operazioni di guerra. Le cause però sono altrove. Lo scoppio del primo conflitto mondiale non ebbe la sua causa nei Balcani, con il loro groviglio di fittizie entità etniche; tanto meno il secondo conflitto fu causato dagli incerti confini italiani, polacchi, francesi, cechi, austriaci, bensì da ben più complesse forze distruttive accumulatesi nei caveaux delle potenze imperialiste.

Da allora, la putrefazione della società del profitto e dello sfruttamento giunta al suo punto estremo non ha fatto altro che procedere a grandi passi, accumulando tensioni esplosive da una parte e alimentando dall’altra i più infami recuperi di posizioni controrivoluzionarie. E, sull’arco degli ultimi decenni, non ha mai smesso di causare impressionanti massacri di proletari ovunque nel mondo: in particolare, come è evidente, nel Medio Oriente, dove il proletariato palestinese è stato e continua a essere ostaggio e vittima sacrificale degli interessi imperialisti nell’area, nella cinica e strumentale indifferenza di tutte le borghesie, quelle arabe (palestinese inclusa) in primis.

I morti proletari non hanno patria. Noi dobbiamo lavorare perché siano i proletari vivi e in lotta a proclamare e rivendicare con forza di non avere patria, e agire di conseguenza! Lo ribadiamo: il ciclo delle rivoluzioni nazionali e anti-coloniali s’è chiuso ormai da cinquant’anni. Tenerlo aperto sventolando residuali o inesistenti casi di “autodeterminazione nazionale”, di “rivendicazioni nazionali” come ponti verso la “rivoluzione socialista” (!), di sovrapposizione fra “lotta di classe e lotte nazionali” (!), di “guerre di liberazione”, di “resistenze all’oppressore”, significa piombare nel più bieco tradimento della preparazione della nostra classe alla rivoluzione proletaria e comunista. Significa ripercorrere la strada del menscevismo – quel menscevismo che, con tutte le sue propaggini (maoismo, terzomondismo, frontismo, campismo, ecc.), ha il nome di stalinismo.

Per i nostri militanti, per i nostri simpatizzanti e assidui lettori e soprattutto per le future generazioni rivoluzionarie, resta invariata la consegna di un internazionalismo non proclamato a parole ma praticato nei fatti, componente centrale del programma comunista, prospettiva da praticare, organizzare, indirizzare nell’oggi. Un internazionalismo che non è generico e umanitario “appello ai popoli e agli uomini di buona volontà”, ma duro lavoro, combattivo e combattente, di ripristino dell’organo rivoluzionario, disperso dalla più oscena controrivoluzione che, intrecciando democrazia, nazi-fascismo e stalinismo, abbia colpito il movimento proletario e comunista nella sua storia. Non abbiamo “patrie” o “nazioni” da conquistare, difendere o appoggiare, o per le quali mobilitarsi e mobilitare: abbiamo davanti a noi il dovere (non morale, ma storico) di avviare e dirigere la nostra classe proletaria (che già comincia a battersi disordinatamente sotto la pressione delle crisi economiche, delle repressioni statali, dei macelli condotti, su tutti i fronti di guerra, dai vari imperialismi in lotta feroce fra di loro) lungo la strada che la conduca lontana da esse, e soprattutto contro di esse. Le sirene che vorrebbero invece trattenerla e illuderla che esistano scorciatoie, abbreviazioni, circonvallazioni di ogni tipo, pur di evitare di imboccare la difficile strada della ripresa classista e internazionalista, vanno combattute come nemiche di classe.

A fronte di questi eventi sanguinari, davanti all’immane sofferenza dei nostri fratelli di classe oppressi, massacrati, cacciati da un luogo all’altro, inseguiti da guerre, fame, miseria, carestie che sono il frutto marcio di un modo di produzione ormai solo distruttivo, risulta sempre più netta l’esigenza del rafforzamento e radicamento internazionale del partito rivoluzionario. Cioè, di un'organizzazione politica stabile, fondata su posizioni teorico-politiche e tattico-strategiche solide e frutto di analisi approfondite e di una lunga esperienza militante, che sappia collegare tutti questi elementi e ricondurli alla loro radice profonda: la sopravvivenza del capitalismo; e, così facendo, indicare la prospettiva della rivoluzione comunista, la sua sostanza reale e la via, certo complessa e difficile, per raggiungerla.

Questo “lungo lavoro” contiene in sé l’urgenza della riaffermazione (di nuovo: non a parole, ma nei fatti) del disfattismo rivoluzionario e della fraternizzazione fra i proletari su tutti i fronti, senza il quale l’appello all’internazionalismo risulterebbe vuoto di contenuti, pura frase. Anche in questo caso, non ci siamo mai limitati a lanciare uno slogan, ma abbiamo indicato la necessaria progressione:

Fermiamo i massacri, la pulizia etnica in Palestina, in Ucraina e nel mondo!

Guerra alla guerra!

Organizzarsi ovunque per una radicale lotta di classe contro lo Stato del capitale, le sue istituzioni e tutti i suoi partiti!

Organizzazione della lotta di difesa delle condizioni di vita e di lavoro, per colpire duramente gli interessi economici e politici della borghesia.

Rifiuto di accettare sacrifici economici e sociali in nome dell'economia nazionale.

Rottura aperta della pace sociale e ritorno deciso ai metodi e agli obiettivi della lotta di classe, unica reale e praticabile solidarietà internazionalista di noi proletari, tanto nelle metropoli quanto nelle periferie imperialiste.

Rifiuto di ogni complice partigianesimo (nazionalista, religioso, patriottico, mercenario, umanitario, socialisteggiante, pacifista...) a favore di uno qualsiasi degli Stati o fronti di Stati coinvolti nelle guerre.

Azioni di sciopero economico e sociale che portino a veri scioperi generali per paralizzare la vita nazionale e aprire la strada a scioperi politici, atti a rallentare e impedire ogni mobilitazione e propaganda bellica.

Ma solo se le avanguardie di lotta della nostra classe si organizzeranno su questi contenuti (e non soltanto sui pur necessari ma limitati terreni sindacale, ambientale, sociale, ecc...) e raggiungeranno e rafforzeranno il partito della rivoluzione comunista, ci si potrà preparare ad azioni di aperto antimilitarismo e disfattismo anti-patriottico:

Lasciare che il proprio Stato e i suoi alleati siano sconfitti, disobbedire in maniera organizzata alle gerarchie militari, fraternizzare con i nostri fratelli di classe (essi pure intrappolati nelle loro “patrie”), tenere ben strette le armi e i sistemi d'arma per difendersi prima e liberarsi poi dai tentacoli delle istituzioni borghesi: trasformare la guerra tra gli Stati in guerra dentro gli Stati, in guerra civile, in guerra rivoluzionaria.

Sono i fatti stessi della realtà capitalista attuale che urlano tragicamente l’urgenza di questo lavoro e la necessità di questa prospettiva.

2//3/2024

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