L’illusione che sia possibile riformare il modo di produzione capitalistico attraverso un’azione progressiva, di tipo parlamentare e legislativo, che ne elimini via via gli aspetti deteriori e oppressivi, si oppone fin dagli inizi al comunismo, che al contrario nega la praticabilità di questa via. Al di là delle maschere più disparate indossate nel tempo, i riformisti partono dalla convinzione che ci si debba rimboccare le maniche per avvicinare il più possibile questo mondo (il “migliore dei mondi possibili”) a un modello etico astratto, dove regnino libertà e giustizia, oppure, rimanendo terra terra, che ci si debba adoperare per una più “equa redistribuzione del reddito”. I comunisti sanno invece che questo modo di produzione, come tutti quelli che lo hanno preceduto, basati sulla divisione in classi, è retto da leggi specifiche, che rendono impossibile qualunque utopico cambiamento che non ne sovverta completamente le stesse basi – com’è avvenuto, per l’appunto, in tutti i trapassi storici che hanno segnato il passaggio da un modo di produzione all’altro: dallo schiavismo classico al feudalesimo, dal feudalesimo all’età borghese. Tutti trapassi caratterizzati da rotture violente, rivoluzionarie.

Nell’ultimo secolo, poi, complice l’evoluzione sovrastrutturale del modo di produzione capitalistico in senso imperialista, il riformismo da annacquata aspirazione a una “società più giusta” s’è trasformato in cane da guardia della “società com’è”, offrendo al capitale la propria totale disponibilità a gestirla in tutti i suoi aspetti, economici, politici, sociali: sempre nell’illusione, sparsa a piene mani e con la retorica più tronfia e arrogante, che quel tipo di “progresso infinito”, di “miglioramento senza posa”, fosse attuabile qui e ora – anzi, fosse già in corso, grazie alle “riforme di struttura”, ai “governi amici”, o quant’altro mai.

Sulla loro pelle, i proletari di tutto il mondo hanno invece sperimentato, soprattutto nel corso degli ultimi trent’anni (da quando cioè si è riaperto un nuovo ciclo di crisi economica), come ciò non sia vero: le “conquiste sociali”, strappate con la lotta di generazioni di lavoratori, sono state via via smantellate, grazie (ironia della sorte!) a una serie di “nuove riforme” fatte apposta per cancellare quelle precedenti. Se il ciclo di accumulazione apertosi dopo i tremendi disastri della seconda guerra mondiale aveva permesso che, dal banchetto mondiale della ricostruzione, cadessero briciole anche consistenti (e in ogni caso ciò era stato possibile solo perché, a più riprese, il proletariato mondiale aveva scosso con forza i tavoli di quel banchetto), ora, in presenza della crisi e in risposta a essa, la classe dominante di tutti i paesi è impegnata in un attacco violento per rimangiarsi tutto quanto era stato ottenuto. Ciò vale per ogni genere di “conquista sociale”, che abbia a che vedere con il salario e l’orario, con misure di “più civile convivenza”, o con i tanto sbandierati “diritti civili”.

L’oscena incursione poliziesca avvenuta a febbraio al Policlinico di Napoli, con relativo interrogatorio da Inquisizione a una degente “colpevole di aborto”, e la conseguente polemica sulla Legge 194, sono in proposito un buon esempio in merito. La 194 venne introdotta nel 1978, e, come prevedibile, era uno straccio di legge, una presa in giro frutto dei tipici equilibrismi politici del riformismo e bigottismo italico, fondata com’era su un lungo, oppressivo percorso di colloqui con il medico (il confessore laico!) e sul trucco miserabile dell’obiezione del personale medico e paramedico che praticamente avrebbe svuotato di senso la legge stessa. A quell’epoca, e in occasione del successivo referendum sulla legge stessa, ricordammo sulle pagine di questo stesso giornale come, per i comunisti, l’aborto (esperienza inequivocabilmente traumatica, sia sul piano fisico che su quello emotivo) riguardasse in primo luogo le donne proletarie, le loro condizioni di vita e lavoro, le loro gravidanze non desiderate dovute ai mille fattori di oppressione e di miseria che una società classista e dunque patriarcale fa gravare su di loro, e come si trattasse se non altro di alleviare (certo, non eliminare!) almeno questo peso. Scrivevamo anche che, a differenza di tutte le posizioni avanzate dal femminismo (approccio intellettuale, piccolo-borghese, alla “questione femminile”), i comunisti erano ben consapevoli che quei pesi, quell’oppressione, si sarebbero potuti eliminare soltanto in una società finalmente senza classi, che – restituendo una vera umanità alla specie tutta – avrebbe spezzato anche le catene del patriarcato. Infine, ribadivamo che, in questo come in altri campi (sociali ed economici), una data “conquista”, comunque ottenuta o difesa (anche per via referendaria e dunque con uno strumento legislativo e non di lotta), non poteva essere considerata definitiva, come invece vorrebbero i riformisti di ogni pelo, ma era sempre e comunque minacciata. Solo una ripresa generalizzata di lotte proletarie avrebbe permesso di difendere ed espandere quelle “conquiste” che, se di certo non mettono in discussione lo status quo, possono comunque, entro dati limiti, attenuare l’oppressione del capitale. E, soprattutto, avrebbe restituito ai proletari il senso del proprio irrinunciabile antagonismo, della propria necessaria autonomia, della propria inevitabile organizzazione, contro il fronte unito di borghesia e riformisti, di padroni e Stato.

Oggi, questa come molte altre “conquiste” (orario, salario, organizzazione del lavoro, condizioni di vita, ecc.) sono sotto attacco: non perché i borghesi siano malvagi (o i preti oscurantisti), ma perché è una necessità vitale del capitale, di fronte alla sua più grave crisi dal secondo dopoguerra, rimangiarsi via via quel che ha dovuto concedere sotto la spinta delle lotte, ed esercitare sempre più una pressione sul proletariato per dividerlo, intimidirlo, farlo sentire solo e vulnerabile. E’ proprio qui, su questo terreno, che si misura la fregatura immane del riformismo, in tutte le forme assunte nel corso di lunghi decenni: da quello se non altro più onorevole degli inizi del secolo XX (che se non altro conteneva nei propri programmi, sia pure come aspirazione solo retorica, un non meglio precisato socialismo), passando per quello becero del secondo dopoguerra, fino a quello grottesco e surreale dei giorni nostri (PCI, DS, PD, PRC, gruppi, gruppuscoli e arcobaleni vari, comprese le frattaglie di finta “estrema sinistra”, tutti scodinzolanti per guadagnarsi un posticino al sole del Parlamento): autentico infiltrato del capitale tra i lavoratori, cane da guardia e fedele delatore a favore di padroni e Stato, colonna del modo di produzione capitalistico dentro le schiere proletarie – in una parola, nemico di classe.

Che cos’ha voluto dire, infatti, questo secondo dopoguerra, tutto all’insegna di promesse e di illusioni riformiste? In che cosa le celebri (e presto dimenticate) “riforme di struttura”, in nome delle quali lotte e agitazioni sono state letteralmente castrate e svendute, hanno cambiato la condizione di vita e di lavoro delle “larghe masse”, in nome delle quali si diceva di operare? La retorica e la prassi del riformismo (demagogiche quando si tratta di infinocchiare i proletari, poliziesche quando si tratta di isolare o mettere a tacere gli elementi più combattivi, apertamente terroristiche quando si tratterà di gettarli nel carnaio della prossima guerra imperialista) hanno tagliato le gambe alla classe lavoratrice, in Italia come nel mondo, e l’hanno consegnata – sconfitta, isolata, disillusa e disorientata – all’attacco furibondo del capitale interessato solo a cercare di “superare” la propria crisi strutturale.

Ma noi comunisti siamo materialisti. Sappiamo che la stessa pressione dei fatti materiali (la precarietà, lo sfruttamento, l’insicurezza, la miseria, la repressione crescenti) susciteranno inevitabilmente reazioni e risposte. Come sempre, nei limiti delle nostre forze, a contatto con la classe proletaria, lavoreremo per organizzare e indirizzare quelle reazioni e quelle risposte – sia per difendere oggi le sue condizioni di vita e di lavoro, sia per condurla domani nell’inevitabile e necessario attacco al modo di produzione capitalistico, per prendere rivoluzionariamente il potere – , nella convinzione, confermata prima ancora dalla pratica che dalla teoria, che solo chi riprende a lottare oggi per difendersi dall’attacco del capitale potrà domani passare dal contrattacco, e che solo chi inserisce questa battaglia di difesa in una strategia che ha il fine dell’abbattimento violento del modo di produzione borghese e la conquista del potere può condurre a termine lotte immediate che non si trasformino soltanto in sconfitte o arretramenti della classe.

Il riformismo in tutte le sue vesti (da quello di finta sinistra a quello ormai indistinguibile dagli interessi della classe dominante) sarà, allora come oggi, un nemico da disperdere e sconfiggere.

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2008)
 

 

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