Da un picco di sovrapproduzione petrolifera all’altro, il capitalismo mondiale si avvita nella crisi. La miseria crescente, la terribile devastazione pandemica, il prodotto interno lordo mondiale a due cifre negative procedono rapidamente, concatenandosi insieme, verso il crollo.

Il petrolio, vista la caduta della sua domanda e la riduzione del suo prezzo, sembra essere entrato, nei primi mesi di quest’anno, in uno stato di coma. Le riserve convenzionali hanno cominciato a ridursi anziché crescere, già dal 1980. Gli idrocarburi, petrolio e gas naturale, infatti, sono un investimento di lungo periodo: ci vogliono 8-10 anni, dopo la loro scoperta, per portare il giacimento di petrolio in linea con la produzione. Le risorse aggiuntive, quelle che stanno al centro della produzione, del consumo, dei trasporti mondiali, dovranno essere soddisfatte da fonti non convenzionali (shale o tight oil). Nell’ultimo decennio di crisi finanziaria hanno attraversato un ciclo di picchi inflattivi e deflattivi di grande instabilità. Ottimisti e pessimisti si domandano: Petrolio senza fine o fine del petrolio?1. Disponibilità infinita o crollo finale? Il ricorso degli Usa e del Canada ai giacimenti “non convenzionali”, dicono, porterà inimmaginabili benefici all’economia dei rispettivi paesi insieme alla devastazione del territorio.

Il petrolio, si sa, è una merce ad altissima produttività, mobilità e basso costo, che coinvolge un gran numero di imprese e quindi di profitti e contribuisce alla riduzione dei costi di tanti altri beni e servizi. Il saggio medio del profitto, come spiega Marx, tende a ridursi lasciando intorno a sé, nel caso di questa industria estrattiva, un desolato paesaggio di trivelle (impianti e pozzi di perforazione) e di rocce bituminose. La petrolchimica, contribuendo a ridurre il prezzo della maggior parte dei prodotti esistenti, ha immesso sul mercato un gran numero di nuovi prodotti, una macro-categoria di merci essenziali: benzina, kerosene, lubrificanti, concimi, plastica, paraffina, asfalto, oli combustibili, ecc. e una catena di utilizzazioni - industriali, militari, trasporti d’ogni specie -  che coinvolgono l’intera economia borghese. Lo sviluppo mondiale dell’economia, avvenuto dopo la seconda guerra mondiale, e in particolare nei paesi asiatici, non sarebbe stato così rapido senza il sistema fondato sugli idrocarburi. Quello del petrolio è un modello complesso e dinamico che si è diffuso prima negli Usa, poi in Europa e infine in tutto il mondo. Tre sono gli aspetti limitativi del sistema attuale arrivato al suo punto critico: la riduzione della domanda e del prezzo, l’esaurimento delle risorse convenzionali e l’insostenibilità ambientale.

I processi di industrializzazione e di sviluppo si sono estesi anche in aree fra di loro molto distanti aumentando e concentrando la domanda di risorse, non solo di energia. Combinandosi efficacemente con il petrolio, i modelli elettronici e i sistemi di comunicazione e di reti, che “coprono” il mondo, a loro volta, ne esaltano anche la produttività. Sono un combinato di alta mobilità fisica, basso costo dell’energia e facilità di comunicazione, una caratteristica dell’intero sistema economico e sociale moderno. Il vantaggio del petrolio non è soltanto il minor costo di produzione, ma anche la maggiore semplicità e la linearità del suo sistema: l’industria petrolifera e gli impianti sono più “leggeri” e richiedono meno capitale e meno lavoratori per chilo di prodotti. L’industria, oltretutto, può estendersi sul territorio (gasdotti, oleodotti) e trasportare facilmente il petrolio, richiedendo minori costi. Spinta dall’alto prezzo del petrolio si è avuta, tuttavia, anche una vera esplosione della tecnologia delle “fonti rinnovabili” tra cui l’energia eolica e quella solare, alternative al petrolio per la produzione di elettricità. Riguardo alla data dell’esaurimento degli idrocarburi si ritiene che l’inizio della fine delle riserve petrolifere convenzionali, cioè il picco della produzione, stia arrivando.

La capacità produttiva e la reale offerta di petrolio sono grandezze non equivalenti: la prima indica una potenzialità di produzione e la seconda la reale presenza del petrolio sul mercato - a dimostrazione che non esiste una dinamica di equilibrio tra produzione e consumo, tra vulcano della produzione e palude del mercato - determinate dalla quantità di plusvalore aggiunto. La capacità di fornitura del petrolio dipende dalla capacità di raffinazione o anche dalla capacità tecnica di estrazione del greggio. L’estrazione massima di un paese produttore o di una società petrolifera dipende quindi da quanto petrolio sia l’uno che l’altro sono in grado di estrarre in barili in un dato tempo (giorno, mese, anno). Si tratta di fattori tecnici che influiscono direttamente o indirettamente sulla formazione del prezzo. Il fattore di localizzazione, a sua volta, è molto importante, in quanto la distanza tra giacimento e luogo di raffinazione e distribuzione si traduce in più elevati costi di trasporto, sopportati dall’acquirente. La qualità del petrolio, contenuto nei diversi giacimenti, ma anche la disparità dei luoghi costituiscono una vera e propria rendita differenziale. La sovrapproduzione avviene quando la capacità produttiva ha raggiunto quel livello per il quale gli incrementi di plusvalore, dati dallo sfruttamento operaio (e realizzati nel consumo), iniziano a diminuire; ma la vera svolta verso la crisi si ha quando il saggio di sfruttamento s=pv/v (plusvalore/capitale variabile) non cresce, rallenta o diminuisce trascinando con sé il saggio medio di profitto, s’= pv/(c+v) (plusvalore/capitale totale investito).

 

Storia di produzione e di prezzi

Negli ultimi mesi di quest’anno il prezzo del petrolio si è mosso tra i 39 e i 42 $/b. Mentre le altre materie prime sembra si siano apprezzate, l’Opec ha sospeso la decisione di ridurre la produzione di petrolio per aumentare il prezzo (un barile equivalente a circa 159 litri).

Dall’inizio del 2020 il prezzo del petrolio ha subito un crollo verticale, dovuto alla rigida contrazione della domanda (vicina allo zero) per la presenza concomitante di due fattori di crisi, quello dovuto agli effetti economici del coronavirus (riduzione del traffico e dell’attività industriale mondiale) e l’altro, espresso dalla “guerra dei prezzi” fra i diversi concorrenti mondiali. Al centro di tutto, c’è  la competizione tra i grandi esportatori di greggio, Arabia Saudita e Russia. Sebbene sia stata pianificata la decisione di ridurre la quantità di petrolio in circolazione, normalmente in sovrapproduzione, con “un accordo storico” per aumentare il prezzo del greggio, sembra che il provvedimento sia stato del tutto insufficiente. Il conflitto è sorto nel contesto del crollo della domanda di petrolio e la sua caduta è arrivata proprio dalla Cina, il più grande importatore di petrolio al mondo. La compressione del valore del petrolio ha visto il Brent del Mare del Nord scendere sotto la soglia di 20$/b [il 24 aprile 2020 (14,240 $/b)] e il WTI (West Texas Intermediate), di qualità superiore rispetto al Brent e quotato quindi con un prezzo più basso, alla fine di aprile, hanno visto battere ogni record toccando la punta negativa di (-37,63$/b) per stabilizzarsi successivamente sopra i 20 $/b, valore che non raggiungeva da circa venti anni. La transazione competitiva di produzione e raffinazione ha avuto effetti importanti sul WTI, dato che le raffinerie dispongono di enormi scorte petrolifere. Il passaggio del prezzo da un valore positivo ad uno negativo (è la prima volta che accade!) significa che “chi vende” è chiamato a “pagare” i barili di petrolio, i suoi stock di riserve, riflesso del forte aumento dell’offerta e della mancanza di spazio per lo stoccaggio dei barili in eccesso. Il forte ribasso del prezzo è il più grande risultato, mai registrato dal 1983 (10$/b). Un calo così significativo del prezzo del greggio non si vedeva dalla crisi del 1929.

Il crollo del mercato statunitense non sarà privo di conseguenze, poiché i produttori Usa inonderanno il mercato mondiale con l’obiettivo di “svendere le loro scorte”, determinando un’ulteriore riduzione del prezzo. I bassi prezzi ovviamente sono molto lontani da quelli della prima crisi di sovrapproduzione mondiale del dopoguerra (1974-’75) con valori che andavano dai 6$/b ai 18$/b imposti dagli shock petroliferi del 1973 e del 1978-’79: il primo durante il conflitto dello Yom Kippur (la guerra dei paesi arabi contro Israele, nel corso della quale i paesi dell’Opec interruppero del 25% i flussi del petrolio verso i paesi importatori, triplicando così il loro prezzo); il secondo, durante la cosiddetta “rivoluzione iraniana” del 1979 (circa 40 $/b). La successiva guerra Iran-Irak degli anni 1980-’88 spinse i prezzi dei paesi produttori arabi e di quelli emergenti (con la scoperta del petrolio del Mar del Nord che accrebbe la produzione) verso i 18$/b. Il valore massimo del prezzo del petrolio nel periodo 1986-2000 (15 anni circa) non superò mai la soglia dei 20 $/b. La rapida accoppiata crescita-crisi delle “tigri asiatiche” del 1997-’98 e di quella americana d’inizio secolo (2000-’01) innesca una nuova dinamica di accumulazione, ma è la “seconda guerra del Golfo” (2003) che dà luogo ad una vera spinta inflattiva con il prezzo del Brent che schizza in salita da 20$/b (2003) a 146,08 $/b (2008), cui segue il crollo rapidissimo a 36,61$/b (2009); poi, dopo una risalita a 129 $/b (2012), il prezzo ricade a 115 $/b (2014)2. Da qui in avanti il prezzo comincia il suo rapido percorso in discesa: all’inizio dell’anno 20153 il Brent è già sotto i 50 $/b circa. La frenata del prezzo arriva, alla fine di un periodo di “cedimenti deflattivi” per le trasformazioni avvenute nel mercato energetico, nei tre quinquenni consecutivi, dall’invasione dell’Irak alla crisi profonda della domanda del 2020: il primo, 2003-2008; il secondo, 2009-2012; il terzo, 2016-2019. Tutto questo anche per la diversificazione delle fonti energetiche non petrolifere (gas naturale, fonti rinnovabili) e per i sommovimenti geopolitici internazionali. Riprendendo i dati rileviamo, dopo le cosiddette “primavere arabe” del 2011-2012, prima una ripresa, sia per le materie energetiche che per quelle non energetiche, e in seguito una lenta ricaduta fino al punto di minimo all’incirca (28$/b) nel 20164-6 , con una risalita fino a circa 90$/b nel 2019. Le tensioni americano-iraniane segnano il crollo finale, a precipizio, di 20$/b (2020) e oltre.

In totale, quindi, appaiono tre cadute verticali, intervallate da oscillazioni, che si potrebbero leggere come un’unica caduta, dal 2008 al 2020, per il congiungersi di una doppia causa, prima economica e, dall’inizio del 2020, “biologica”. Si prevede che nel corso del 2020 i ricavi del greggio diminuiranno del 40% rispetto al 2019 e la ripresa, dicono, sarà legata, ancora, ad un rimbalzo tecnico e strategico. Si aggiunga la crisi politico-economica tra Cina e Usa, che nell’ultimo decennio ha portato a “guerre commerciali” fino al crollo ultimo del prezzo dei carburanti. La riduzione della domanda e la diminuzione del prezzo del petrolio imporranno comunque all’Opec di tagliare la produzione, fermando le trivelle.

 

 

Giacimenti convenzionali e non convenzionali

Nell’attuale situazione di crisi economica si avvierà inevitabilmente un processo produttivo a catena che smuoverà l’economia mondiale. Gli eventi politici, le guerre, gli scontri sociali che sono all’ordine del giorno entreranno in “risonanza distruttiva” con la dinamica dei prezzi di mercato (che si tratti di armi o di altro è del tutto indifferente) fortemente instabili. I teorici delle “bolle petrolifere” non riusciranno a comprendere “la rivoluzione americana” in corso, dovuta alla riduzione del prezzo di produzione, iniziata molto tempo prima con la produzione di idrocarburi (non convenzionale) dello shale o tight oil. Nei giacimenti non convenzionali le tecniche estrattive cambiano e si trasformano. Il petrolio è intrappolato all’interno di rocce impermeabili o allo stato solido, vengono realizzati più pozzi petroliferi e utilizzata la tecnica della perforazione orizzontale del pozzo, per agire su un più ampio volume di roccia con la fratturazione idraulica (fracking). Con il fracking si iniettano acqua, gas come azoto o aria (eventualmente, insieme a materiali quali sabbia o piccole sfere di ceramica) a elevata pressione, in modo da frantumare le rocce rendendole permeabili e facendo fluire il greggio o il gas in esso intrappolato. Il greggio estratto dai giacimenti non convenzionali è del tutto identico a quello estratto nei giacimenti convenzionali, anche se c’è bisogno di una tecnologia più costosa e avanzata per poterlo estrarre. Dall’uno e dall’altro si può estrarre sia petrolio di alta qualità che di bassa qualità. Il prezzo dipende da caratteristiche intrinseche al greggio, la densità o il contenuto in zolfo. Il flusso di petroldollari, che finiva nelle casseforti “dei monarchi, delle oligarchie, delle democrazie del petrolio”, per essere investito sui mercati dei paesi industriali, verrebbe a mancare nei loro bilanci. I canali d’investimento esteri per uscire dalla crisi, si prosciugherebbero, il che porterebbe alla diminuzione drastica del Pil mediorientale. Tutti gli avvenimenti legati alla riduzione della produzione (guerre, sanzioni, aumento delle scorte, contrabbando, sottrazioni, embarghi) avranno un solo effetto: nuova sovrapproduzione e crisi. Lo shale o tight oil negli Usa reggerà al crollo dei prezzi: l’80% della produzione reggerà anche a 40-50$/b. Il ritorno del segno meno nell’indice dei prezzi al consumo segnalerà i suoi effetti più gravi nella crescita sempre più bassa e nella disoccupazione sempre più alta.  Lasciamo agli appassionati dello shale-oil/gas e ai suoi prezzi di mercato l’illusione della ripresa economica e dell’uscita dalla crisi sotto la benedizione della “legge della domanda e dell’offerta”. Quello che conta è che per alzare il saggio medio di profitto, centinaia di migliaia di proletari sono messi e dovranno essere messi ai lavori forzati per ottenere in un tempo brevissimo una gigantesca massa di produzione: produttività elevatissima, bassi salari, flessibilità e aumenti degli orari di lavoro. Creare plusvalore è il diktat del Capitale. In tempo di crisi operano per la borghesia lo sciacallaggio e il cannibalismo di classe: mani avide affondano nella palude del mercato in crisi, raschiando mezzi produttivi d’ogni specie, svenduti per chiusura di imprese. Infine, in qualsivoglia occasione si possono riaprire vecchi cantieri e vecchie miniere, risparmiare in sicurezza, tornare ad un’agricoltura di raccolta, scavare e riempire fossati, con forze-lavoro spinte ad accettare lavori miserabili per sussidi di fame.

Per aumentare l’offerta occorre trovare nuovi giacimenti e occorrono grandi investimenti di capitale: pozzi convenzionali onshore se si trovano al di sotto delle terre emerse e offshore se si trovano al disotto dei fondali marini e pozzi non convenzionali shale o tight oil (petrolio da frantumazione di rocce bituminose). L’estrazione di gas ottenuto dalle argille a grandi profondità, ha attirato grandi investimenti in larga parte finanziati a debito, al punto da far gridare a bolle speculative. Si comprende che un prezzo dell’energia in continuo calo è destinato a minare l’intera economia, mandando all’aria tante aziende e quindi ampliando l’attuale livello di disoccupazione e creando precarizzazione a catena. La sovrapproduzione si è manifestata in modo particolare con la “rivoluzione” della produzione dello shale-oil, che ha permesso agli Usa di insidiare l’Arabia Saudita e la Russia come primi produttori mondiali di petrolio. Con il prezzo del petrolio in caduta libera e con la riduzione della domanda tutto si complica. Se si spegne la “caldaia produttiva”, per riaccenderla sarà un problema: non basta “aprire i rubinetti” del credito per innalzare la temperatura del sistema, ovvero l’offerta. Mentre il credito nei periodi di prosperità spinge alla sovrapproduzione (spinta inflattiva), durante la crisi non c’è credito che tenga per accelerare il processo produttivo. In tale frangente, le più grandi compagnie petrolifere soffriranno nei loro bilanci, se il petrolio non supera i 100$/b, che garantirebbe l’aumento dell’offerta. Non è difficile capire che i paesi produttori saranno colpiti dalla crisi, mentre i paesi consumatori, risparmiando sulle spese energetiche, miglioreranno temporaneamente il loro Pil. Le economie globali si stanno allontanando dai combustibili fossili; il petrolio potrebbe continuare a costare poco anche nel prossimo futuro: il mondo è entrato in un’epoca di bassi prezzi e le regioni più colpite saranno il Medioriente e il Nordafrica.

Per comprendere la traiettoria del mercato energetico è necessario esaminare i fattori che hanno esaltato prima la crescita dei prezzi e la domanda di petrolio e successivamente il crollo della domanda e del prezzo. Dal 2009 al 2020, dunque, l’offerta di petrolio è in sovrapproduzione, lo stoccaggio delle scorte continua a crescere e i prezzi precipitano. La capacità produttiva e le esportazioni in mano al vecchio cartello Opec sono stati determinanti per definire l’andamento dei prezzi. Ai precedenti produttori si sono uniti altri produttori extra-Opec, (esportatori asiatici, Brasile e Canada), che hanno spinto il cartello a perdere sempre più di influenza. I prezzi del greggio dopo il 2009 erano rimasti attorno ai 100 dollari, ma poi la tendenza è lentamente mutata portando i prezzi sempre più verso il basso nel 2016. Il crollo del 2020 segue immediatamente. Investire in nuovi giacimenti petroliferi diventa troppo costoso: sarà lo sviluppo tecnologico ad abbassare i costi. La caduta dei prezzi avviene per un buon tratto in modo graduale. Se la circolazione di petrolio si riprenderà, i consumi si riporteranno a livello di pre-crisi, ma se la domanda continua a diminuire, gli impianti di stoccaggio negli Usa non potranno reggere all’eccesso di offerta. Va ricordato che l’Opec in passato aveva riunito i maggiori paesi produttori di petrolio e i loro partner, per concordare una riforma del settore petrolifero, seguendo lo scontro che infuriava tra Russia e Arabia Saudita.

La riduzione della produzione permetterà di aumentare il prezzo del barile. Ma tutti gli avvenimenti che si reggono sulla riduzione della produzione: guerre, sanzioni, embarghi, aumento delle scorte, contrabbando, sottrazioni, inevitabilmente spingono verso la sovrapproduzione e la crisi, intrecciandosi indissolubilmente. Il 2019 è stato un anno difficile, non solo la Exxson, ma una cinquantina di compagnie petrolifere hanno dichiarato bancarotta nei primi nove mesi. Probabilmente l’industria petrolifera sta entrando nella sua crisi finale.

Tra domanda e offerta: rendita di monopolio e rendita differenziale

Il prezzo di mercato dipende dalla legge della domanda e dell’offerta o come è in realtà dipende solo e unicamente dal prezzo di produzione? Marx considera la “famosa legge” come luogo comune e banalità senza senso, conosce la presenza delle truffe, delle speculazioni, dei prezzi di monopolio, ma la questione teorica è un’altra. Il valore dipende dal prezzo di produzione, dipende dalla forza lavoro, dalla sua intensità, dalla produttività. Il legame con la legge è relativo al plusvalore estorto e al saggio del plusvalore. Con il crescere della produttività diminuisce la quantità media sociale del valore contenuta nella singola merce, proporzionalmente al capitale costante, alla quota di sussistenza (salari) e interamente al valore ovvero al prezzo di produzione. Il saggio medio di profitto, inoltre, nella sua lenta caduta farà sì che il prezzo si consolidi in questa tendenziale caduta. E’ vero che per tutta una serie di eventi (per la differenza dei saggi di profitto, che tendono comunque a livellarsi, per la stessa presenza di merci in sovrapproduzione invendute, di scorte di magazzino, per l’aumento delle rotazioni, per la presenza di insolvenza nella circolazione e nel consumo) la merce si troverà in condizioni fenomeniche contraddittorie: può accadere che la domanda di merci superi l’offerta o che l’offerta, come accade in realtà, superi la domanda.

In un sistema di aziende indipendenti e in un mercato di “perfetta concorrenza”, la dinamica capitalista si sviluppa attraverso i prezzi bassi dei prodotti industriali. Il loro valore è legato al “tempo di lavoro medio socialmente necessario”. Marx aveva già mostrato, tuttavia, che in ambiente agrario esiste la realtà della rendita, che rappresenta un monopolio sulla terra, in presenza di proprietari fondiari capitalistici, e che quindi il valore di produzione dei prodotti agricoli, legato ai mezzi di sussistenza, non è un regime legato ai bassi prezzi. A tale monopolio si aggiunge quello sulle materie prime di qualunque natura (carbone, petrolio, gas, acqua, uranio e plutonio, oro e argento, minerali dell’industria elettronica e biotecnologica, brevetti d’ogni specie ecc.). Il sistema viene appesantito da un insieme di monopoli e pertanto i prezzi di mercato non coincidono con il valore di produzione. La loro presenza fa sì che nel mercato non venga realizzato il profitto al suo saggio medio, ma che esso sia gravato da superprofitti. Ciò avviene quando il prezzo di queste materie prime al saggio medio si realizza nelle miniere più miserabili, nelle terre meno fertili, nelle aree petrolifere più disastrate, sicché il prezzo di mercato è superiore al valore. Le multinazionali si dividono il mondo, le aree produttive, le aree minerarie, le acque, le terre. Nell’epoca dell’imperialismo i grandi gruppi monopolistici e i loro Stati si dividono il pianeta sicché il prezzo di mercato è superiore al valore di produzione. Mentre domina la tendenza alla caduta del saggio medio di profitto nel lungo periodo (dovuto all’aumento crescente della produttività del lavoro e alla crescita della composizione organica del capitale), a breve e medio termine i prezzi non coincidono con il valore: la tendenza all’aumento dei prezzi si sovrappone con la tendenza alla diminuzione degli stessi (inflazione e deflazione).

 Le fluttuazioni del prezzo sono influenzate da diversi elementi, teoricamente legate al “tempo socialmente necessario alla produzione”: scoperta di nuovi giacimenti, tecniche estrattive, cambiamenti dei cicli economici, consistenza delle riserve, fattibilità dello sfruttamento dei giacimenti, tipologia dei petroli e fattori di localizzazione (distanza tra giacimento e luogo della raffinazione e distribuzione che si traducono in più elevati costi di trasporto). Tra i fattori che determinano l’offerta vi sono quelli politici e geopolitici. Tra i grandi produttori l’Arabia Saudita gioca un grande ruolo grazie all’elevata rendita differenziale dovuta alla qualità del petrolio che influenza il prezzo del petrolio. La rendita differenziale del petrolio saudita deriva dal suo basso costo di estrazione (al disotto dei 10 dollari al barile), vista la possibilità di utilizzare giacimenti di grandi dimensioni con metodi estrattivi tradizionali, giacimenti che possono essere abbandonati man mano che i costi di estrazione aumentano. La possibilità di sopportare prezzi più bassi del petrolio, avendo un costo complessivo più basso rispetto ad altri paesi produttori, permette all’Arabia Saudita di immettere quantità maggiori di petrolio sul mercato, portando ad una diminuzione del prezzo, nel tentativo di mettere fuori mercato i concorrenti, che hanno costi di produzione più elevati. Per il momento, dunque, solo guerre di mercato…

Seguiremo ancora le vicende dell’altalena del petrolio.

 

Note

  1. Domenico de Vincenzo, Petrolio senza fine o fine del petrolio? Analisi, percorsi, strumenti, Edizioni Libreriauniversitaria.it.
  2. Il Sole 24 ore, 12 ottobre 2014.
  3. Il Sole 24 ore, 2 gennaio 2015.
  4. Affoghiamo in un mare di petrolio”, il programma comunista, n.6/2014.
  5. “Oro nero, autosufficienza americana e giochi di guerra nella crisi di sovrapproduzione”, il programma comunista, n.1/ 2015.
  6. “La bolla nera: storia di guerre e di prezzi”, il programma comunista, n.3/2016.
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