E' un punto fermo da più di cent'anni che i marxisti rivoluzionari, proprio in quanto rivendicano una violenza collettiva col suo corollario storico della dittatura della classe vincitrice sulla vinta, e la rivendicano non già in nome di principi assoluti ed eterni, ma perché riconoscono in essa un fatto obiettivo delle società divise in classi antagoniste, l'esplosione di forze materiali cozzanti contro l'involucro conservatore della società moritura ma non disposta a morire e ammorbante coi suoi miasmi la giovane società che lotta per uscire dal suo grembo e spiccare libera il volo, proprio perciò non hanno mai approvato e condiviso il metodo della violenza individuale e, nella fattispecie, dell'assassinio di capi di Stato o di governo.

Questo metodo ha una triplice base antimarxista, idealista e moralistica: o il presupposto che nello Stato sia la radice di ogni male e che, sopprimendo colui che, come stoltamente si dice, «detiene il potere», si possa liberare l'umanità dai molteplici cancri che la rodono, o quello che il terrore esercitato contro di lui trattenga gli altri dal prenderne il posto, quasi che le forze reali  che spingono al potere uomini o gruppi non fossero mille volte più potenti dello stesso attaccamento alla vita del «capo» prescelto, o infine quello, in cui l'idealismo tocca il vertice della sua presuntuosa stupidaggine, che sia la persona umana, grande o piccina, a «fare la storia».

La stampa e la pseudocultura borghesi che in questi giorni si sono abbandonate a un parossismo di retorica adulatrice trasformando l'individuo Kennedy - quali che fossero le sue qualità personali di uomo (e non sarà inopportuno ricordare che pochi presidenti sollevarono da vivi tante critiche, fra i suoi stessi amici) - in un Grande, in un Dominatore, in un Eroe, anzi addirittura nel Perno sul quale poggiava  e col quale cadrebbe l' «umanità civile», si sono esse accorte che esprimevano la stessa ideologia distorta che ha armato la mano del suo uccisore, chiunque egli sia? La medaglia dell' «Uomo grande nel bene» ha sempre il suo rovescio nell' «Uomo grande nel male»; del primo non si può fare a meno allo stesso titolo falso con cui (nello stolido presupposto di cui sopra) si deve fare a meno del secondo. Per noi, per il materialismo storico, per la dottrina del proletariato rivoluzionario, l'individuo, quand'anche superasse gli altri in prestanza fisica o in potenza cerebrale, non fa che registrare più o meno fedelmente, in una direzione o nell'altra, i moti di fondo di una storia dalla quale egli è diretto, che egli  non dirige. Mettetelo per un istante al centro della storia come un demiurgo che la modelli o addirittura la crei, e vi stupirete che scomparso lui, la storia prosegua per la propria strada, la stessa, o, se imbocca una strada diversa, sia quella che già si esprimeva, lui vivo, nel suo procedere contraddittorio, e che egli stesso, se fosse sopravvissuto, sarebbe stato costretto a seguire firmandola con la sua risibile sigla.

Ma voi per primi, o borghesi, sapete che la retorica dell'Eroe è una menzogna. Troppo facile sarebbe abbattere i vostri templi dorati, se fosse vero che questi stanno o cadono secondo che stia o cada il fragile birillo di un uomo! L'avete dimostrato voi stessi trasformando le esequie di Kennedy, col solidale concorso di tutti i potentati (Cremlino compreso), nella celebrazione di una messa solenne non in mortem ma in vitam della potenza americana, delle «virtù» democratiche, del «bene supremo» della coesistenza negli affari. Non l'uomo-Kennedy ha attirato davanti al nuovo Campidoglio la rappresentanza più folta dell'ordine costituito e delle sue glorie intrise del sangue di due guerre mondiali che mai si sia vista; ve l'ha attirata la solidarietà che lega al suo perno anonimo l'intero mondo borghese, alla casa-madre le sue innumerevoli filiali. Davanti al suo altare, non davanti alle spoglie di un uomo, era necessario inginocchiarsi per trarre dalla breve vicenda di un uomo il pretesto di levare un inno all' «eternità» di un sistema e di una legge. Questo sistema e questa legge, che sono dittatoriali e cruenti anche se si rivestono di democratismo e pacifismo, non cadranno con un uomo - è questo che il vertice funerario di Washington voleva dire agli schiavi della terra -;noi rispondiamo che cadrà egualmente in scontri sanguinosi, non perché un «capo» sarà stato trafitto da un proiettile, così come non sopravviverà alla condanna della storia perché sia stato eventualmente trafitto un umile o grande propugnatore dell'ideologia proletaria. Nulla è cambiato, urlano radio e televisione; tutto cambierà, urliamo noi, ad opera di una classe!

 

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Il marxismo che respinge il terrorismo individuale nella stessa misura in cui rivendica quel fatto storico che è la violenza collettiva determinata dalla necessità di rovesciare una dominazione di classe che ammorba i viventi, non può associarsi né al coro dei piagnoni, né a quello dei giudici. L'attentato è un effetto della divisione della società in classi e, se nasce in modo deforme da una visione non proletaria ma piccolo-borghese della storia, ha tuttavia sempre una causa oggettiva, storica e sociale; non appartiene alla sfera della criminologia, né si risolve giustiziando il colpevole. Pretendete di fare della vittima il Dio e dell'uccisore il Satana? Riconoscete allora che, ai due estremi di una classificazione che vi lasciamo perché non ci appartiene, entrambi sono le vittime di un ordine sociale che in loro ha espresso il suo dramma collettivo, le sue terribili lacerazioni interne. Tutta la storia della classe dominante americana e del suo Stato trasuda violenza, una violenza feroce, sorda, cieca, sotterranea, che scoppia in convulsioni periodiche e affonda le sue radici nell'assetto sociale e nel meccanismo produttivo di quella società del benessere, di quella gigantesca macchina del profitto, di cui a ragione è divenuto il simbolo non la Casa Bianca, ma Wall Street. L'assassinio di Kennedy e quello del suo uccisore solleva al massimo un lembo di velo sul mondo occulto di odi belluini che non si può separare dal tessuto connettivo della società capitalista. Se follia c'è stata, cercatela nella follia di un regime, non di un uomo o di due.

Chi ha ricordato, in questi giorni, le schiere interminabili di salariati bianchi e negri che, nel corso di una storia giovane di poco più che due secoli, hanno lasciato illacrimati la vita nelle stesse circostanze «misteriose», nello stesso clima da malavita organizzata, quindi socialmente identificabile? Chi ha ricordato le miriadi di lavoratori negri nel Sud, di lavoratori bianchi nel Nord, su cui si è abbattuta una cieca invisibile mano, una mano alla quale non si è mai riusciti a dare un volto perché era ed è quello dello sfruttamento della forza-lavoro, della feroce resistenza di una classe arroccata al potere contro il minimo gesto di rivolta o anche solo di disubbidienza, del suo schiavo? Chi ha ricordato che lo stesso filo rosso corre anche all'interno della classe dominante, fra gruppi in concorrenza reciproca, fra interessi difficili da conciliare se non nell'opposizione all'unico nemico di classe?

Quando nel 1912, il muratore Antonio d'Alba attentò alla vita di Vittorio Emanuele III, il congresso socialista di Reggio Emilia gridò, poco importa per la bocca di chi: «i regicidi sono gli infortuni dei re, come le cadute dai ponti sono gli infortuni dei muratori». Colui che, o per nascita o per elezione, va ad incarnare visibilmente o, come dite voi borghesi, a «dirigere» lo Stato che è la sovrastruttura di una società greve di violenza intrinseca, non può ignorare che la belva scatenata contro i proletari anonimi e non pianti da nessuno potrà imporre la sua legge feroce anche a lui. Nell'apprendere la notizia dell'assassinio De Gaulle ha esclamato: «morto in servizio». Esatto: non Kennedy dirigeva la società in stelle e strisce; egli si è limitato a servirla, nelle sue luci apparenti e nelle sue terribili ombre reali.

Il Moloch come spesso avviene, ha divorato un altro dei suoi figli, non il primo e non l'ultimo. Anzi, ne ha divorato tre, tanto noi siamo certi che la mano degli esecutori di un assassinio a catena è stata armata di carica esplosiva dalle contraddizioni interne della società del capitale, e dal suo retaggio di follia.

 

il programma comunista, n. 22, 30 novembre - 14 dicembre 1963

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