Soffermandosi sull’intensa attività svolta nel primo dopoguerra dal gruppo del Soviet in seno alle organizzazioni economiche dei lavoratori e nel fuoco di ardenti battaglie di classe, il relatore sulla Storia della Sinistra (vedi il numero scorso del "Programma") ha gettato un ponte di collegamento diretto col tema dell’azione sindacale del Partito.

Nel giugno 1920, alla conferenza della Frazione Astensionista, questa era così delineata: «Il Partito esercita la sua attività di propaganda e di agitazione tra le masse proletarie, specie nelle circostanze in cui esse si mettono in moto per reagire alle condizioni create dal capitalismo, e in seno agli organismi che i proletari formano per proteggere i loro interessi immediati. I comunisti penetrano quindi nei sindacati, costituendo in essi gruppi di operai comunisti e cercando di conquistarvi la maggioranza e le cariche direttive, per ottenere che la massa di proletari inquadrata in tali associazioni subordini la propria azione alle più alte finalità politiche e rivoluzionarie della lotta per il comunismo».

Alieni da ogni improvvisazione, gelosi di una continuità di programma che è nello stesso tempo continuità di azione, noi ci muoviamo oggi – a parte i limiti di una situazione ben lontana dall’incandescente 1919-20 – sul medesimo solco, che è poi quello stesso del Manifesto dei Comunisti 1848 e degli statuti Generali della Associazione Internazionale dei Lavoratori, 1864.


Richiami alla teoria

Quando si trattò non certo di inaugurare un’attività "nuova", ma di conferire un primo inizio di coordinamento a un’attività che il Partito ha sempre rivendicato, anche se la situazione generale esterna la conteneva entro limiti ristretti e saltuari, furono anzitutto ricordate ai gruppi e alle sezioni le classiche formulazioni marxiste del processo attraverso il quale i proletari sono spinti dalla lotta economica e dalle sue esigenze imperiose a superare le artificiose barriere di interesse e di categoria create dal regime di produzione capitalistico, e a darsi una organizzazione generale unitaria. Questa trova storicamente la sua prima espressione nelle leghe di mestiere, forma immediata della «crescente (ma sempre minacciata di corrosione dalla concorrenza fra operai) solidarietà dei lavoratori», e il suo coronamento ultimo nel partito politico; quel «partito politico autonomo, opposto a tutti gli altri partiti costituiti dalle classi possidenti», in cui e soltanto in cui «il proletariato può agire come classe».

Questo processo non è un fatto di coscienza. È un fatto reale e fisico, che ha per teatro non il "cervello" degli uomini individualmente o collettivamente presi, ma lo scontro fra le classi, che trae origine da determinazioni economiche materiali ma continuamente le supera. Il suo contenuto storico è la fabbricazione e l’affinamento di armi di battaglia, di strumenti di lotta aperta contro la società borghese. Questo appare chiarissimo a chi guardi non le addomesticate organizzazioni di oggi, ma anche solo le lotte e gli organismi di lotta economica proletaria ai primi albori del movimento operaio, quando Marx poteva definire “scuole di guerra civile” le associazioni fra lavoratori ed Engels sorridere dello stupore degli economisti borghesi di fronte allo spettacolo di operai che sacrificavano settimane e settimane di salario per difendere nelle strade e negli scontri con la polizia e con l’esercito gli organismi creati per difendere il livello raggiunto dal salario e, se possibile, elevarlo. Allora le organizzazioni immediate avevano, anche in periodo normale, quella che oggi si direbbe una gigantesca “carica rivoluzionaria”, e questa non era – come non sarà mai neppure nelle fasi di alta tensione sociale – il prodotto dell’acquisizione di una coscienza dei fini e obiettivi ultimi del moto proletario, ma delle imperiose necessità materiali del suo svolgimento.

Ciò vale per la classe come per l’individuo; il rapporto non è coscienza prima e azione poi, ma spinta economica prima, azione poi, coscienza infine, e coscienza che si realizza non già nel singolo, ma nel partito. A questo i militanti, per pochi che siano (e sempre saranno una minoranza della classe operaia), aderiscono non per aver preventivamente acquisito una coscienza completa del programma, ma per un processo di selezione avvenuto nella lotta e attraverso la lotta, e solo nel corso della loro milizia di partito potranno, ancora una volta non come singoli ma come corpo organizzato, “rovesciare la prassi” e fare della teoria rivoluzionaria la premessa sine qua non nell’azione rivoluzionaria.

Come non è un fatto di coscienza, così il processo di organizzazione del proletariato in classe non è un fatto evolutivo graduale, un lento e progressivo maturare; è una successione tumultuosa di salti qualitativi corrispondenti a scontri violenti e spesso sanguinosi fra le classi, attraverso i quali il proletariato dei senza-riserve supera d’un balzo le forme di organizzazione più rozze ed immediate, divise per località e per settore, discontinue nel tempo e nello spazio, infrange i limiti angusti del campanile e dell’azienda, subordina gli interessi personali, locali ed aziendali di singoli e gruppi a interessi e finalità sempre più vaste. Nel partito politico ogni confine di gruppo, di categoria, di nazione è obliterato e ogni atto ubbidisce agli imperativi, delle finalità ultime e generali, della classe.

Questo processo dialettico non ha nulla a che vedere con l’interpretazione idealistica della storia, per cui ogni fase è annullata dalla successiva e, raggiunto il vertice della “coscienza”, l’umanità entra una volta per tutte nel “regno dalla ragione”.

Il partito, esso stesso prodotto di determinazioni materiali, è uno schieramento di battaglia che, in possesso di armi teoriche e organizzative superiori, è chiamato a difenderle contro gli attacchi convergenti della società capitalistica e perfino contro l’assillo di quelle determinazioni materiali alle quali deve la propria vita. Ma deve anche portarle come strumenti di azione risolutiva entro le organizzazioni immediate nelle quali continuamente affluiscono, spinti dalla pressione dei fatti della società capitalistica e dal moto di incessante proletarizzazione dei ceti intermedi, nuove leve di salariati. Deve irradiarvi quella che, in periodi di riflusso della lotta di classe, può essere soltanto la “luce” dello storico programma rivoluzionario, ma che è destinata a divenire, in periodi incandescenti di conflitto sociale, il grande “campo magnetico” di polarizzazione di tutte le forze eversive sprigionate dal sottosuolo dell’ordine sociale e politico borghese.

Il partito non è né lo Spirito che guarda dell’alto il confuso muoversi ed agitarsi dell’umanità, né il Demiurgo che nell’ora X scende nell’arena e da solo cambia faccia al mondo. È una forza materiale la cui azione risolutiva nei grandi svolti della storia è possibile alla sola condizione di incontrarsi con la gigantesca spinta che viene dal basso, rude e incolta come un fenomeno naturale e fisico, non diretta e determinata da ideologie consapevoli o da concetti distinti (Engels 1890: «saranno i non-socialisti a fare la rivoluzione socialista»), ma portata irresistibilmente a muoversi sul terreno del programma che, anche nelle ore più buie, il partito avrà saputo proclamare e difendere contro tutti e malgrado tutto, nelle file e nelle organizzazioni dei salariati in lotta contro il capitale.

Non v’è contraddizione (se non per chi non ha capito nulla della dialettica materialista) fra la superba proclamazione delle tesi della III Internazionale sul ruolo del partito comunista nella rivoluzione proletaria – «Il partito comunista si distingue dall’intera massa operaia in ciò che possiede una visione generale e completa dell’intero cammino storico della classe lavoratrice, e mira, in tutte le svolte di questo cammino, a difendere gli interessi non di singoli gruppi o singoli mestieri, ma della classe lavoratrice nel suo insieme» – e il compito che le stesse tesi gli assegnano di lavorare all’interno delle organizzazioni economiche proletarie – «non per adattarsi agli strati operai più retrogradi, ma per elevare l’intera classe al livello della sua avanguardia comunista». «Ogni lotta di classe è una lotta politica, e l’obiettivo di questa lotta, che si trasforma inevitabilmente in guerra civile, è la conquista del potere politico; ma il potere politico non può essere afferrato, organizzato e diretto, se non dal partito politico». In altri termini, «la lotta di classe esige un’agitazione concentrata che illumini da un punto di vista unitario le singole tappe della lotta e, in ogni dato momento, diriga l’attenzione del proletariato verso i compiti comuni alla classe nel suo insieme cosa irrealizzabile senza un apparato politico centralizzato, il partito».


Compiti pratici del movimento

La saldatura fra lotta economica e lotta politica, fra masse salariate in movimento sotto la spinta di interessi immediati e il partito in lotta per gli obiettivi finali della rivoluzione comunista, e, per logico corollario, la nostra presenza attiva nelle organizzazioni sindacali e nelle agitazioni operaie, è dunque una questione di principio. Nel riaffermarla noi non facciamo che ribadire una delle nostre “tesi caratteristiche”, enunciate alla riunione di Firenze nel dicembre 1951: «Il partito riconosce senza riserva che non solo la situazione che precede la lotta insurrezionale, ma anche ogni fase di deciso incremento della influenza del partito tra le masse non può delinearsi senza che tra il partito e la classe si stenda uno strato di organizzazioni a fine economico immediato e con alta partecipazione numerica, in seno alla quali vi sia una rete emanante dal partito (nuclei, e frazione comunista sindacale) (...) Il sindacato, sebbene non sia mai stato libero da influenze di classi nemiche e abbia funzionato da veicolo a continue e profonde deviazioni e deformazioni, sebbene non sia un specifico strumento rivoluzionario, tuttavia è oggetto di interessamento del partito, il quale non rinuncia volontariamente a lavorarvi dentro, distinguendosi nettamente da tutti gli altri raggruppamenti politici».

Se perciò, oggi, noi cerchiamo di estendere e di coordinare meglio questo lavoro, non è già perché una particolare “idea nuova e originale” sia passata per la testa di chicchessia, ma perché la situazione generale, lo sviluppo sia pur disorganico delle lotte di classe, e il processo di consolidamento della rete di partito, ci hanno imposto di tradurre in una azione il più possibile continua e sistematica, un compito riconosciuto permanente anche quando «gli eventi, non la volontà o la decisione degli uomini» lo limitavano (come in parte lo limitano tuttora) «ad un piccolo angolo dell’attività complessiva». Era la necessaria risposta ad interrogativi che giungevano a noi, alla periferia come al centro del partito, dalle agitazioni in corso; una risposta che potevamo dare su scala più larga che in passato proprio perché, nella lunga e non ancora conclusa fase di “ristabilimento della teoria del comunismo marxista”, che ha occupato l’ultimo decennio della nostra vita organizzativa, i rapporti fra la nostra rete ideologicamente rafforzata e strati sia pur esili di proletari, si sono andati allargando e rafforzando. Non svolta, dunque, ma potenziamento di un lavoro che non si è mai interrotto anche quando le circostanze esterne, fuori dalla volontà o dai desideri anche del più battagliero ed entusiasta militante, ne limitavano il raggio.

L’infame politica di polverizzazione delle lotte di categorie imponenti, come i metalmeccanici o i salariati agricoli, riproponeva e ripropone al partito rivoluzionario l’imperativo di riaffermare – prima, durante e dopo agitazioni, che non di rado raggiungono il livello di scontri aperti e diretti fra i proletari e le forze dell’ordine, spalleggiate dai bonzi sindacali – i principi fondamentali della lotta di classe. Ricordare agli operai:
– che nessuna conquista, economica è duratura e serve gli interessi generali della classe se non si traduce in una crescente solidarietà tra gli sfruttati;
– che quindi l’abbandono dello sciopero generale senza limiti di tempo e senza distinzioni di fabbrica, di settore e di categoria, mentre non serve neppure a strappare vantaggi economici immediati, sgretola e distrugge le possibilità future e generali dell’attacco proletario al regime di sfruttamento capitalistico;
– che la “tattica” delle contrattazioni articolate, della rivendicazione di ulteriori qualifiche per categoria, di premi di produttività e di incentivi aziendali, dello sciopero al cronometro e al contagocce, accresce invece di attenuare la concorrenza fra lavoratori e il loro isolamento reciproco;
– che la teoria della "apoliticità del sindacato" nasconde in realtà l’abbandono della politica di classe da parte del sindacato a favore di una politica di fiancheggiamento del potere centrale borghese;
– e che non esistono questioni “particolari” alle quali si possa trovar soluzione fuori della visione generale degli interessi storici della classe lavoratrice.

Perché questa risposta fosse (e sia sempre più in avvenire) data da tutto il partito all’intero schieramento di forze dell’opportunismo, è divenuto necessario affiancare all’organo centrale del partito, il “Programma Comunista”, il bollettino, anch’esso centrale, d’impostazione programmatica e di battaglia “Spartaco”. Questo mentre in diversi gruppi e sezioni il lungo lavoro di agganciamento di proletari in lotta dava i suoi frutti positivi e rendeva urgente coordinare secondo direttive chiare ed uniformi l’attività generale di Partito.

Questo coordinamento non si poneva né si pone obiettivi che la situazione non solo italiana, ma (e soprattutto) internazionale vieta di porsi: non si prefigge rapidi e radicali spostamenti nella direzione che un quarantennio di super opportunismo ha inevitabilmente impresso alle pur vivacissime lotte di interi settori del proletariato industriale e agricolo; non vaneggia possibilità a breve scadenza di liberazione del sindacato dalla tutela di partiti controrivoluzionari, anche se, localmente e per breve ora, non esclude (come si è di fatto registrato) che la guida di agitazioni e perfino di organismi economici operai sia presa e mantenuta da nostri compagni. Esso mira a tessere e rafforzare la nostra tela di collegamento fisico col proletariato avvalendosi di una situazione in lenta ripresa, ma nella piena consapevolezza che i frutti di questo lavoro metodico e, com’è nel nostro costume, testardo potranno e dovranno essere raccolti solo in una fase avanzata e certo non vicina del movimento operaio.

Nella riunione di Roma, 1 aprile 1951, fu ribadito: «La giusta prassi marxista afferma che la coscienza del singolo e anche della massa segue l’azione, e che l’azione segue la spinta dell’interesse economico. Solo nel partito di classe la coscienza e, in date fasi, la decisione d’azione precede lo scontro di classe; ma tale possibilità è inseparabile organicamente dal gioco molecolare delle spinte iniziali fisiche ed economiche. Secondo tutte le tradizioni del marxismo e della Sinistra italiana e internazionale, il lavoro e la lotta nel seno delle associazioni economiche proletarie è una delle condizioni indispensabili per il successo della lotta rivoluzionaria, insieme alle pressione delle forze produttive contro i rapporti di produzione e alla giusta continuità teorica organizzativa e tattica del partito politico».

Scindere questi tre termini inseparabili, isolare le possibilità di successo – che il rafforzamento teorico e organizzativo del partito da un lato, il lavoro e la lotta nelle associazioni economiche dall’altro, ci offrono – dalla realtà oggettiva del processo di maturazione dei contrasti interni della società capitalistica, significherebbe pregiudicare proprio quella continuità teorica, organizzativa e tattica che faticosamente il partito ha ricostruito in questi anni. Va combattuto con la massima energia ogni atteggiamento di aristocratico disinteresse per le lotte rivendicative, ogni pretesa – anche se ispirata da un sano timore d’imboccare sentieri opportunisti – che il partito si limiti a proclamare e difendere postulati “generali” rifiutandosi di scendere all’esame di questioni “particolari”. Non esistono questioni particolari isolabili dalle questioni generali del movimento proletario: la separazione delle sue "aree" è la caratteristica dominante dell’opportunismo. Ugualmente va energicamente combattuta l’opposta pretesa, quand’anche ispirata da un generoso entusiasmo, di assegnare al partito compiti che lo sviluppo reale delle lotte di classe gli impedisce di assolvere, o di prefiggersi obiettivi che solo grazie ad eventi di portata internazionale (da cui lo stesso sviluppo del partito internazionale rivoluzionario è condizionato) potranno prendere corpo e sostanza.

Badiamo quindi a svolgere serenamente, metodicamente, continuativamente il nostro lavoro di penetrazione e di proselitismo fra le masse proletarie, senza lasciarci prendere né dallo scoramento per insuccessi che dobbiamo prevedere e scontare in anticipo, né dagli isterismi del “fare per il fare”, e soprattutto senza indulgere all’illusione che i tempi della ripresa rivoluzionaria possano essere accelerati mediante ricette tattiche o espedienti organizzativi che isolino il lavoro convenzionalmente chiamato sindacale da quello generale e politico del movimento.

È una responsabilità che siamo fieri d’esserci finalmente potuti addossare, e che dobbiamo portare innanzi nella consapevolezza di assolvere un compito non nazionale ma internazionale, e di lavorare per l’avvenire di un movimento proletario e di un partito di classe che non hanno e non riconoscono limiti di tempo né confini di Stato.

Questioni d’economia marxista

Come fu annunciato nel primo resoconto sommario della riunione, apparso nel nr. 12 del giornale, ai relatori non fu possibile esporre delle conclusioni anche relative del lavoro di ricerca teorica sull’economia marxista. Tuttavia, per la vastità, la profondità e la difficoltà della ricerca, queste conclusioni non saranno immediate, né da esse ci si dovrà attendere il disvelamento di chi sa quali misteri, o di chi sa mai quali novità.

La teoria dello "sciupio", è tesi centrale del marxismo non solo da un punto di vista economico, quanto e in primo luogo da un punto di vista rivoluzionario. La trattazione della teoria prese l’avvio dalla riunione di Genova del 4-5 novembre 1951, il cui resoconto scritto apparve nei numeri 1 e 2 del giornale dell’annata in corso. Lo sciupio è la dilapidazione delle forze produttive, dei prodotti e della ricchezza sociale. Usando il metodo dei "tre momenti", chiave dialettica per la lettura del Capitale e del marxismo, lo sciupio a livello aziendale, cioè nel primo momento, si ridurrebbe allo sfruttamento del lavoro salariato da parte dei capitalisti; ma sarebbe sempre poca cosa. Infatti, Marx picchiò in testa al "frutto indeminuto del lavoro" di Lassalle, chiarendo che anche nella società comunista sarebbe esistito il plus prodotto, cambiando però radicalmente la forma e la destinazione sociale.

È nel secondo momento, nella società capitalista presa nel suo insieme, nell’insieme delle aziende, che si consuma inutilmente gran parte del lavoro umano. Questo "sciupio" sociale appare maggiormente evidente e criminale se si confrontano la società capitalista e quella futura, la comunista. È, infatti, il modello comunista dell’organizzazione della produzione e della forma del lavoro umano che pone bene in risalto i caratteri nefandi del modo di produzione capitalistico, una volta unanimemente ammesso che nella storia le forme della produzione si succedono sulla base dell’aumento delle forze produttive. Per la società capitalista, secondo i suoi corifei, non esiste sciupio, lavoro inutile, distruzione di ricchezza, se non in maniera del tutto accidentale, come nelle guerre tra Stati. Marx invece mette costantemente in evidenza il carattere distruttivo del capitalismo, sulla base delle continue giustapposizioni tra società capitalista e società comunista.

I "faux frais" le false spese della circolazione del capitale proprie di una società scambista ed esasperata dalla "libera concorrenza" sulla base di una economia aziendale, mercantile e monetaria; il militarismo, la stessa patria e la famiglia, costituiscono elementi di distruzione effettiva o di irrazionale utilizzazione del lavoro e di ricchezza: anguste forme di atrofizzazione della produttività del lavoro. Le crisi sono, quindi, lo sbocco naturale delle molteplici manifestazioni di "sciupio", il risultato periodico e ricorrente dell’accumularsi di pluslavoro inutilmente prodotto, irrazionalmente riprodotto, sulla base di una produzione sociale e di una appropriazione privata.

Cronologia delle crisi

Le date che diamo in questo testo sono desunte dai testi marxisti, e pertanto significano crisi che furono oggetto di riflessione e di studio dei nostri maestri. La serie si apre con la crisi del 1800 che, secondo Ricardo, fu causata dalla carestia di cereali per cattivo raccolto ed ebbe sede solo in Inghilterra. La successiva si verificò nel 1815, per le stesse ragioni – secondo il giudizio di Ricardo – della precedente.

La crisi del 1825 ebbe invece il suo epicentro negli Stati Uniti d’America e in India, e fu una crisi cosi cosiddetta commerciale. Marx (Il Capitale, libro 3° Vol. III pag. 250) così caratterizza le crisi commerciali: «Il fenomeno più generale ed evidente delle crisi commerciali è la diminuzione improvvisa, generale, dei prezzi delle merci, che dopo un loro aumento prolungato, generale». Le crisi di questi anni si manifestano tutte sotto le spoglie di crisi commerciali, cioè per restrizioni di mercati esteri, e i fenomeni che esse generano sono pressoché gli stessi, più o meno accentuati. Alla crisi del 1847-48 Marx dedica un lungo scritto anche nella Neue Rheinische Zeitung, oltre che i continui accenni negli altri testi, particolarmente nel Capitale. In questo testo Marx esamina tutti i fenomeni che s’intrecciano prima e dopo le crisi stesse. La prosperità, il benessere d’oggi, precede il travaglio critico. «Gli anni 1843-1845 – scrive Marx – furono quelli della prosperità industriale e commerciale, conseguenze necessarie della depressione quasi permanente dell’industria nel periodo 1837-1842. Come sempre la prosperità fece scattare molto presto la speculazione. La speculazione sorge regolarmente nei periodi dove la sovraproduzione raggiunge il suo culmine. Essa fornisce alla sovraproduzione i suoi canali di scolo momentanei sollecitando nel contempo l’irruzione della crisi e aumentandone la violenza. La crisi scoppia anzitutto sul terreno della speculazione e non è che più tardi s’installa nella produzione (...) Noi non possiamo in questo momento tracciare la storia completa della crisi (1846-48) e ci limiteremo dunque a fare il bilancio di questi sintomi della sovraproduzione».

I nostri opportunisti vorrebbero il benessere senza intrallazzi, il boom senza la speculazione: il nostro maestro insegna che in regime capitalista la prosperità è madre di speculazione, in cui si riversano in un primo momento gli immediati effetti della incipiente sovraproduzione. Marx traccia già la sinusoide della produzione capitalistica, con le sue periodiche alterne vicende d’esaltazione e depressione produttiva. La crisi è preceduta da un periodo d’intensa ripresa produttiva, preceduto a sua volta da un periodo di crisi. La caratteristica della produzione d’alto bordo fu allora la corsa agli investimenti nelle ferrovie. Oggi il contenuto produttivo del benessere è la speculazione universale delle linee di comunicazione internazionali: autostrade, trafori, transatlantici, jet a reazione, missili, e il grande Barnum della cosmonautica.

Si ritrova ancora in questo testo la classica previsione della catastrofe storica del capitalismo: «Gli schiavi saranno emancipati, perché sono divenuti inutilizzabili in quanto tali. È esattamente per la stessa ragione che il lavoro salariato sarà abolito in Europa, appena che avrà cessato d’essere non soltanto una forma necessaria per la produzione, ma ne sarà divenuto un ostacolo». Ogni qual volta la crisi esplode nel bel mezzo della beata apparente eternità del capitalismo, l’inutilità delle forme capitalistiche dell’economia appare in luce meridiana: nulla ha più valore, il denaro serve al massimo per bisogni fisiologici, le categorie intoccabili dell’economia del capitale saltano, è il caos.

Marx svolge, inoltre, un’analisi "a volo d’uccello" della più vulcanica macchina produttiva americana, nella quale intravede un potente focolaio delle contraddizioni del capitalismo e il futuro centro dello sviluppo sfrenato della borghesia mondiale: «La prosperità dell’Inghilterra e dell’America si ripercuote rapidamente sul continente europeo. Il mercato mondiale collega ogni angolo della Terra e lo obbliga a sottomettersi al capitale». I due centri, Inghilterra e America, del capitalismo mondiale sono «il demiurgo del cosmo borghese», dai quali ha origine «il processo iniziale» e delle crisi e della prosperità. Cosicché, «se, per conseguenza, le crisi generano delle rivoluzioni anzitutto sul continente, la loro origine si trova non di meno in Inghilterra. È all’estremità dell’organismo borghese che debbono naturalmente prodursi le commozioni violente prima d’arrivare al cuore, perché la possibilità d’una compensazione è più grande qui che là. Inoltre, la proporzione con cui le rivoluzioni continentali si ripercuotono in Inghilterra è nello stesso tempo il termometro che indica in quale misura queste rivoluzioni mettono realmente in questione le condizioni d’esistenza borghesi, e fino a che punto esse non raggiungono che le loro formazioni politiche». Questa preziosa lezione teorica, tratta dall’intreccio economico che aveva avviluppato già allora i due continenti, ma ancora in prevalenza l’Europa e la Gran Bretagna, e dal quale esplose la crisi del ’47, anticipa e sancisce la validità della posizione rivoluzionaria difesa da Lenin e dalla Sinistra italiana, per la quale la Rivoluzione d’Ottobre avrebbe resistito ad ogni ritorno reazionario a condizione che fossero crollate le centrali europee, segnatamente la Germania, dell’imperialismo capitalista.

La chiusa a questo testo costituisce un tremendo ceffone a volontaristi e immediatisti d’ogni tempo: «Essendo data la prosperità immediata generale, nella quale le forze produttive della società borghese si schiudono per quanto lo permettono i rapporti sociali borghesi, non si potrà parlare di vera rivoluzione. Questa non è possibile che nei periodi di cui questi due fattori, le forze produttive moderne e le forme borghesi della produzione entrano in conflitto le une con le altre. Le differenti questioni alle quali si dedicano oggi i rappresentanti delle diverse frazioni del partito dell’ordine del continente, e nelle quali esse si compromettono reciprocamente, ben lontano dal fornire l’occasione di nuove rivoluzioni, non sono al contrario possibili che perché la base dei rapporti sociale è momentaneamente così sicura e, ciò che la reazione ignora, così borghese». «Ogni tentativo fatto dalla reazione per arrestare lo sviluppo borghese si brucerà così sicuramente come ogni indignazione morale e ogni proclama infiammato dei democratici. Una nuova rivoluzione non sarà possibile che a seguito di una nuova crisi: l’una è tanto certa quanto l’altra…"

La nuova crisi del 1857 ebbe il suo epicentro negli Stati Uniti, ma ben presto contagiò l’Inghilterra e la Germania. In Gran Bretagna la stessa agricoltura fu investita dalla depressione economica, come Marx aveva già sentenziato nel 1850. Nella misura in cui le forme capitalistiche della produzione afferrano ogni ramo dell’attività produttiva, si schiudono canali traverso in cui fluisce la crisi. Tutta l’economia così è soggetta alle crisi!

Teoria delle crisi

Dal ’73 al ’78 la crisi si fa cronica negli USA e nel ’75 rimbalza di nuovo in Inghilterra. L’ultima data che si ritrova nei testi di Marx è del 1879, di cui egli dà un accenno sommario nella lettera a Danielson, economista russo che traduceva il 1° libro del Capitale. In essa Marx metteva ancora il luce la desolazione dell’economia e soprattutto l’apparente tranquillità delle banche e delle ferrovie, le quali accumulano ogni giorno debiti e azioni.

Marx nota che le crisi ricorrono all’incirca ogni dieci anni e, se la sua preoccupazione di cogliere le ragioni di questa quasi costante periodicità si fa sempre viva nella ricerca dei fenomeni immediati che si sviluppano prima e durante le crisi stesse, tuttavia e sopratutto l’interesse per i fatti contingenti serve a dimostrare la validità della dottrina. Quante volte si dovette dileggiare il vezzo piccolo-borghese di correggere le nefandezze del capitalismo con la proposta di ricondurlo alla produzione semplice delle merci! Marx prese la testa di turco di Proudhon e dimostrò che le malattie del capitalismo adulto avevano la sua origine nel capitale, nelle semplici categorie dell’economia capitalistica. Non era necessario ricorrere alla riproduzione allargata per spiegare la crisi, anche se la straripante produzione ingolfava i canali dell’economia. Marx parla sempre di sovraproduzione relativa: «Quando si afferma che non si tratta di una sovraproduzione generale, ma di una mancanza di proporzione fra i diversi rami di produzione, si afferma semplicemente che nella produzione capitalistica la proporzionalità di diversi rami di produzione risulta continuamente dalla loro sproporzione, poiché qui il nesso interno della produzione complessiva si impone agli agenti della produzione come una legge cieca, e non come una legge compresa e dominata dal loro intelletto associato, che sottomette il processo di produzione al loro comune controllo (...) Ma tutto il modo di produzione capitalistico è solo un modo di produzione relativo, i cui limiti non sono assoluti ma lo diventano per il modo di produzione stesso» (Il Capitale, Vol. III, Tomo I, pag. 314 Ed. Rinascita).

D’altra parte tutta l’economia capitalistica è pronta a fornire le forme più semplici e più complesse della crisi. «La forma più astratta della crisi, e per conseguenza la possibilità formale della crisi, è dunque la metamorfosi della merce stessa, in cui solo come movimento sviluppato è contenuta la contraddizione, insieme nell’unità della merce, fra valore di scambio e valore d’uso, tra denaro e merce» (Teoria delle dottrine economiche, Vol. 2° pag. 559). È già nella merce la forma primaria della crisi, nel fatto cioè di essere al tempo stesso prodotto per soddisfare un bisogno e portatrice di valore, di lavoro medio sociale e plusvalore. È quindi nella contraddizione sociale su cui poggia la produzione capitalistica che vanno ricercati il contenuto e la causa delle crisi.

La lezione leniniana sulle cause delle crisi è perfetta: «Le crisi sono possibili (...) perché il carattere collettivo della produzione entra in conflitto col carattere individuale dell’appropriazione» (Sui caratteri del romanticismo economico). Ancora Marx in forma stringata: «Tre fatti principali della produzione capitalistica: 1° Concentrazione dei mezzi di produzione in poche mani, per cui cessano di apparire come proprietà dei lavoratori diretti (artigiani) e si trasformano in potenze sociali della produzione, anche se, a tutta prima, come proprietà privata dei capitalisti. Questi sono i trustees (i fiduciari) della società borghese, ma intascano tutti i frutti di questa posizione di fiducia. 2°. Organizzazione dello stesso lavoro come lavoro sociale, mediante la cooperazione, la divisione del lavoro, il collegamento del lavoro e delle scienze naturali. Nei due sensi il modo di produzione capitalistico sopprime, benché in forme antitetiche, la proprietà privata ed il lavoro privato. 3° Creazione del mercato mondiale. L’enorme forza produttiva, per rapporto alla popolazione, che si sviluppa nel quadro del modo di produzione capitalistico, e, benché non nelle stesse proporzioni, l’aumento dei valori-capitale (e non solo del loro substrato materiale), che crescono più rapidamente della popolazione, sono in contraddizione con la base (che, relativamente alla ricchezza crescente, diviene sempre più ristretta) per la quale questa enorme forza produttiva lavora, e con le condizioni di messa in valore di questo capitale crescente. È qui l’origine della crisi. (Il Capitale, Lib. III Ed. Dietz, pag, 293). E un’altra citazione tra le mille: «Il capitale si manifesta sempre come una potenza sociale, di cui il capitale è l’agente, che ha ormai perduto qualsiasi rapporto proporzionale con quello che può produrre il lavoro di un singolo individuo; ma come una potenza sociale estranea indipendente, che si contrappone alla società come entità materiale e come potenza dei capitalisti attraverso questa entità materiale. La contraddizione tra questa potenza sociale generale alla quale si eleva il capitale e il potere privato del [singolo] capitalista sulle condizioni sociali della produzione, si va facendo sempre più stridente e deve portare alla dissoluzione di questo rapporto e alla trasformazione delle condizioni di produzione in condizioni si produzione sociali, comuni, generali. Questa trasformazione è il risultato dello sviluppo delle forze produttive nel modo capitalistico di produzione e della maniera in cui questo sviluppo di compie» (Il Capitale, Libro 3° Vol. 1 pag. 322 Ed. Rinascita).

Purtroppo, le traduzioni dei testi marxisti, monopolizzate dalle ricche centrali opportuniste, sono sempre interessatamente fiacche e non riescono a rendere il vero senso del testo originale. Infatti, per capitalista non si deve intendere solo il capitalista-uomo, ma soprattutto l’azienda capitalista, l’agente della produzione capitalista, l’impersonale e anonima organizzazione produttiva capitalista. Altrimenti sarebbe di assoluta incomprensione il capitalismo di Stato, nel quale non esistono i capitalisti intesi come padroni individuali dei mezzi di produzione, mentre esistono, come in Russia, i "fiduciari intascanti i frutti della società borghese" di cui Marx più sopra. I trustees del "profeta" Carlo si chiamano oggi operatori economici.

Ed allora appare in luce meridiana l’analisi di Marx sulla origine delle crisi: da una parte la socializzazione delle forze produttive, la produzione sociale; dall’altra la privata disponibilità dei mezzi di produzione e delle stesse forze produttive da parte delle unità produttive. È qui il caos sociale: le unità produttive capitaliste non riescono più a contenere le crescenti forze sociali della produzione, le aziende sono troppe anguste per organizzare la forza lavoro, controllare il pluslavoro e distribuirlo nella società. Di conseguenza l’anarchia della produzione, la sovrappopolazione relativa di produttori, la distruzione continua di ricchezza, costituiscono le stigmate del capitalismo. E questo anche quando la concentrazione più avanzata dei capitali sparsi induce gli agenti borghesi a farneticare di programmazione, di controllo della produzione, di piano. In realtà, essi avvertono l’assoluto e urgente bisogno di pianificare la produzione, ma cozzano nelle contraddizioni insormontabili fra produzione associata e appropriazione aziendale, privata, di plusvalore. Il nocciolo della questione è tutto qui: non è un fenomeno meramente economico, ma sostanzialmente sociale: la produzione di plusvalore e profitto è il principio e il fine del modo di produzione capitalistico. Il capitalismo ha potuto e dovuto – questo è il suo merito storico – socializzare la produzione, ma non l’appropriazione, che è rimasta al livello privato e pecuniario, per tutti, borghesi e proletari.

Da questa constatazione generale parte, per esempio, la nostra critica rivoluzionaria alla pretesa pianificazione in URSS, dove, appunto, è del tutto naturale che si smonti il controllo centralizzato della produzione e del consumo, e dell’appropriazione, perché la base dell’economia russa è l’azienda con il suo bilancio attivo in vista di realizzare plusvalore e profitto e il salario in moneta.

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