4. Lo scontro USA-Cina

La battaglia commerciale più dura si combatte tra Cina e Usa. Nel marzo 2009, la Cina ha ridotto le tasse sull'export, e ha annunciato nuove riduzioni fiscali alle esportazioni tessili, ai metalli non ferrosi, ai prodotti petrolchimici ed elettronici. Sconti fiscali erano già stati varati in due riprese nell’autunno 2008 sul 50% delle categorie merceologiche. Ciò non aveva impedito nel febbraio 2009 un calo dell'export del 26% sull'anno precedente. Nel complesso il piano cinese da 600 M$ era molto diverso da quello USA, perché non serviva a coprire i buchi della finanza ma a sostenere il sistema produttivo, facendo così da traino alla domanda interna oltre che all'export.

In risposta alle misure cinesi, nel settembre 2009 gli Usa hanno colpito l'import di pneumatici dalla Cina con una tariffa aggiuntiva del 35% a favore dei produttori domestici. La Cina ha risposto duramente parlando di abuso e grave atto protezionistico e accennando al rischio di una possibile “reazione a catena”. Le possibilità cinesi di veder riconosciute le proprie ragioni al WTO sono vanificate da accordi, validi fino al 2013, che danno agli Usa facoltà di intervenire in caso di forti incrementi di export cinese sul mercato statunitense. Il provvedimento era stato richiesto dal sindacato United Steelworkers, mandato avanti dall'associazione dei produttori che invece non si era espressa apertamente (a proposito di sindacati “nazionali”!). Gli pneumatici cinesi, che coprono soprattutto il mercato Usa di fascia bassa, tra il 2004 e il 2008 hanno occupato una quota di mercato Usa che è passata dal 4,7 al 16,7% (+ 255%). Parallelamente in Usa sono svaniti oltre 5000 posti di lavoro nel settore e tra 2006 e 2007 hanno chiuso quattro stabilimenti (altri tre erano previsti in chiusura nel 2009).

Nello stesso periodo si era aperta la guerra dei tubi in acciaio, con accuse di protezionismo da parte della Cina e di dumping da parte Usa. Washington aveva introdotto “dazi preliminari” (tra l'11 e il 21%) entrati in vigore dal 2010. Il valore totale dell'export cinese di tubi in acciaio nel 2008 ammontava a 2,6 miliardollari, punto di arrivo di una crescita del 200%  tra il 2006 e il 2008, dovuta principalmente all'aumentata costruzione di oleodotti. Anche in questo caso, produttori e sindacati americani hanno fatto fronte comune ed esercitato efficaci pressioni lobbystiche, accusando i cinesi di sostenere la produzione di settore con generosi sussidi statali e di praticare il dumping per conquistare il mercato Usa.

La guerra ai tubi cinesi si è aperta anche sul fronte della UE. Il Comitato 133, che rappresenta i governi comunitari nei negoziati commerciali internazionali, dietro pressione dell'esecutivo italiano e di Confindustria, ha proposto un aumento dell'imposta dal 25 al 39%, che dovrà essere ratificato dal Consiglio Europeo. Ciò naturalmente in nome della “libera concorrenza” minacciata dal dumping della Cina.

In precedenza, Usa e Ue avevano ricorso al Wto contro restrizioni cinesi all'export di alcune materie prime fondamentali per l'industria Usa (fosforo giallo, fluorite, tungsteno, bauxite, coke, magnesio, manganese, silicone, zinco), alcune della quali disponibili in abbondanza solo in Cina, sì da provocare un rialzo dei costi per imprese occidentali di semiconduttori, detergenti, lampadine, ecc. Sotto accusa, i dazi cinesi sull'import dalla Ue soprattutto a danno dei settori della chimica, dell'acciaio, dei metalli non ferrosi. Si è trattato della terza volta che Usa e UE hanno agito congiuntamente contro la Cina; la prima volta aveva riguardato i dazi sulla componentistica auto, la seconda l'informazione finanziaria.

La guerra commerciale aveva visto nei mesi precedenti gli Usa ricorrere al Wto contro le restrizioni operate a sua volta dalla Cina sull'import di alcune materie prime americane; la Cina aveva risposto chiedendo un'indagine sul blocco alle importazioni di pollame cinese imposto anni prima dagli Stati Uniti. Ai primi di novembre 2009, gli Usa avevano aperto un fascicolo per dumping sull'export di carta dalla Cina; questa, da parte sua, preparava ritorsioni sull'import di auto e componentistica dagli Usa.

 

2005: 202,3
2006: 234,1
2007: 258,5
2008: 268
2009: 226,8

 (Fonte: Il Sole 24 ore dell'11/2/10)

     

  gen. 2009 gen. 2010
Export cinese (in miliardollari) 90,5 109,5
import 51,4 95,3
bilancia commerciale 39,1 14,2

 (Fonte: Il Sole 24 ore del 21/7/2010)   

 

verso ASEAN + 45%
verso Corea-India-Taiwan + 35%
verso UE + 18%
verso Giappone + 4%
verso Usa + 8%

(Fonte: Il Sole 24 ore del 21/7/2010)  

 

Il conflitto commerciale assume dunque toni sempre più duri e mette in risalto la crisi dell'assetto degli scambi globali precedenti allo scoppio della bolla finanziaria del 2008. La Cina ovviamente respinge le accuse di protezionismo. Ai primi di luglio 2009, il ministro del commercio cinese, dati alla mano, evidenziava il grado di forte apertura del mercato cinese alle importazioni, cresciute dal 2002 al 2008 del 25% annuo, con un contributo del 9% all'incremento dell'import globale. Nei più importanti articoli di consumo (auto, elettrodomestici, ecc.), il fabbisogno interno è stato coperto dal 50% al 75% da marchi esteri; l'apertura ha riguardato anche i capitali stranieri, per investimenti pari a 850 miliardollari nel 2008. Il governo nega di aver adottato clausole favorevoli ai propri prodotti nel pacchetto d’incentivi economici, sostenendo che se ne sono avvantaggiate anche le imprese non cinesi operanti in Cina. Rimanda anzi l'accusa al mittente: secondo il Wto, la Cina è stata oggetto solo nel 2008 di 73 inchieste per dumping, il 35% del totale, sottoposta a 58 ispezioni nella prima metà del 2009, ecc. Insomma, una persecuzione. I dati riportati di seguito sembrano, in effetti, avallare la tesi della Cina come paese più colpito da misure protezionistiche.

 

Cina: 221
UE: 206
USA: 166
Regno Unito: 134
Giappone: 131

Graduatoria dei paesi più colpiti da misure protezionistiche da novembre 2008 ad oggi

(Dati del Global Trade Alert, riportati dal Sole 24 ore del 25/6/2010)

 

Resta il fatto che il surplus cinese si avvia nel 2010 a raggiungere i 450 miliardollari, dieci volte più del 2003 (dati tratti dal Sole 24 Ore del 16/3/2010) ed è in ulteriore ampliamento, con tassi di crescita dell'export ancora superiori rispetto a quelli dell'import (Export Cina: + 44% in giugno 2010 su giugno 2009, contro un incremento dell'import nello stesso periodo del 34%: dati tratti dal Sole 24 Ore dell'11/7/2010 e 21.07.2010) (11).

Le due potenze si prendono reciprocamente a ceffoni, ma al momento non possono prescindere l'una dall'altra. La direzione dei flussi mondiali di merci e capitali nell'ultimo decennio è stata fortemente connotata dalla presenza dell'asse USA-Cina, nel ruolo rispettivamente di consumatore in debito e di esportatore di surplus commerciali a credito. Da qui il recente, ma temporaneo, primato cinese come detentore di Buoni del Tesoro americani e la riluttanza a ritoccare verso l'alto la valutazione relativa del renmimbi – per quanto obiettivamente sottovalutato, considerata la posizione di surplus commerciale del paese. Una svalutazione del dollaro comporterebbe una svalutazione delle riserve cinesi in dollari e una corrispondente rivalutazione del renmimbi andrebbe a danno dell'export su cui ancora si basa la crescita economica del colosso asiatico.

5. Protezionismo finanziario e monetario

Non appena è esplosa la crisi, i centri di potere del sistema finanziario internazionale, protagonista principe della cosiddetta liberalizzazione dei mercati degli ultimi 15-20 anni, hanno iniziato a drenare capitali da tutto il mondo. Chi ne ha fatto le spese sono stati i paesi “emergenti”, le cui economie si basano sugli investimenti esteri. Il rientro dei capitali si è reso necessario per il salvataggio dei colossi finanziari esposti alla bancarotta dopo l'esplosione della bolla dei vari strumenti della finanza “creativa” che si possono comprendere nelle categorie dei “derivati” e dei CDS. Il governatore della BC of England ha osservato che  “le grandi banche sono globali in vita e nazionali in punto di morte" (riportato da la Repubblica del 2/2/2009). Citigroup, presente in 5 continenti, ha trattato e ottenuto il proprio salvataggio solo nel paese d'origine. Da parte loro, le autorità nazionali europee hanno incoraggiato aggregazioni nella logica dei "campioni nazionali" (Dresdner + Commerzbank in Germania, Credit Agricole+SocGen in Francia...).

Com'è noto, il rientro dei capitali non è stato sufficiente a tenere a galla i vari sistemi finanziari e si è reso necessario un potente intervento dello Stato con conseguente forte crescita del debito pubblico. Gli stessi interventi di salvataggio del sistema finanziario, con l'acquisto da parte delle banche centrali di titoli tossici altrimenti destinati all'azzeramento del valore di mercato e conseguente  sprofondamento dei bilanci bancari, sono obiettivamente “protezionistici” della stabilità del sistema finanziario e creditizio nazionale. Questi interventi sono stati finanziati con l'emissione di titoli di debito pubblico, una parte dei quali sono stati riacquistati dalle stesse banche centrali per sostenerne il prezzo e impedire l'insorgere di un'inflazione finanziaria. Ma poiché non tutti i titoli di debito sovrano sono uguali, anche nella escalation dei deficit pubblici è  implicita una sorta di “mercantilismo finanziario”. Nel corso del 2009, li Stati Uniti hanno rovesciato sul mercato circa 2000 miliardi di nuovi bonds per coprire le proprie spese. La crescita delle emissioni Usa, come di quelle dei paesi economicamente più robusti, ha messo in difficoltà i paesi meno solvibili, come i cosiddetti PIGS e tra questi la Grecia, la cui situazione è precipitata nel maggio scorso, obbligando la Bce a fare come la Federal Reserve americana: acquistare titoli di debito pubblico per sostenerne il prezzo. C'è insomma concorrenza anche nel debito pubblico. Gli Stati che si sono dissanguati – e che si preparano a dissanguare il proprio proletariato – per salvare le banche, e attraverso esse (nuovamente cariche di liquidità), il credito al sistema produttivo, non hanno fatto altro che alimentare nuova speculazione. Le banche non solo si sono ributtate a pesce nella finanza spregiudicata, ma hanno concentrato l'attacco speculativo sul debito sovrano degli Stati, gonfiatosi proprio per salvarle dalla catastrofe.

Sul piano della guerra tra monete nazionali, si è già fatto cenno alla pressione USA e UE per una rivalutazione dello yuan e alla forte resistenza cinese su questo fronte.

Di recente, il governo cinese ha apparentemente ceduto alle pressioni americane decretando la fine dell'ancoraggio tra yuan e dollaro, ripristinato dalla Cina nel luglio 2008 per garantire condizioni favorevoli all'export nell'imminenza della crisi. In precedenza, l'ancoraggio era durato per un decennio finché, nel 2005, vi fu un primo sganciamento, in seguito al quale lo yuan si rivalutò del 21% sul dollaro in tre anni. Il solo annuncio dello sganciamento, a fine giugno di quest'anno, ha prodotto un'immediata rivalutazione dello yuan. Se procedesse e divenisse significativa, la rivalutazione ridurrebbe la forza di penetrazione dell'export e indurrebbe un incremento degli investimenti e dei consumi interni. Ma sui rapporti monetari non incide solo la bilancia commerciale (il cui attivo è effetto della maggiore produttività in termini capitalistici); contano anche i movimenti di capitali. Lo yen giapponese si è deprezzato di quasi ¼ rispetto alle principali monete negli ultimi 15 anni, perché l'immenso avanzo corrente è stato neutralizzato abbondantemente dagli investimenti all'estero. L'avanzo dei conti con l'estero della Cina ha portato all'accumulo di miliardi di dollari nella banca centrale, una parte dei quali è andata a finanziare il debito pubblico americano per l'11% del totale. Se la Cina cominciasse a mettere sul mercato la massa dei titoli Usa, il dollaro si deprezzerebbe ulteriormente rispetto allo yuan, con grave danno per gli interessi cinesi, che vedrebbero svalutare i titoli americani in loro possesso e peggiorare le condizioni del proprio export. La tendenza alla rivalutazione dello yuan trova infatti in Cina la forte opposizione dei “mercantilisti” anche grazie al dato della bilancia commerciale, che nel primo trimestre 2010 è stato per la prima volta in rosso sull'anno precedente. Nello stesso periodo, le riserve monetarie cinesi sono salite da 1950 a 2450 miliardollari (+25%), ma sono in rallentamento su base trimestrale.

In vista di un accordo su nuove parità, il governo USA ha rinviato un atteso rapporto sul supposto protezionismo monetario della Cina, e l'abbandono dell'ancoraggio sembra rafforzare una tregua su questo fronte tra le due superpotenze. Al di là delle dichiarazioni generiche, la Cina è disposta solo a dare il contentino di una  rivalutazione dello yuan molto limitata e graduale (a un mese dallo sganciamento, l'apprezzamento si è fermato a  +0,78% sul dollaro). Un rialzo è implicito nel ritorno a ritmi di crescita elevati  dell'export e dell'enorme surplus, ma le politiche di austerità adottate dall'UE fanno prevedere la riduzione di entrambi.

Da parte americana, al di là della formale difesa del dollaro forte, c'è ovviamente interesse a svalutare, vuoi per ridurre il peso del debito pubblico in mano ad investitori esteri, vuoi per  un rilancio dell'export che il governo intenderebbe raddoppiare in cinque anni. In realtà, l'intento di svalutare la moneta nazionale sembra generalizzarsi, e ciò richiama alla memoria la corsa alle svalutazioni competitive (ben 32) che si susseguirono negli anni Trenta (12).

Nel corso del 2009, diversi Paesi sono ricorsi a svalutazioni competitive (cfr, Il Sole 24 Ore del 15/3/2010). La BC svizzera è intervenuta sulla moneta troppo forte per combattere il rischio deflazione; lo stesso Giappone, alle prese con il problema di un export in rapido calo e con una valuta molto forte, aveva già ottenuto dal G7 di ottobre 2008 l'autorizzazione a procedere verso un deprezzamento della moneta; altri candidati del G10 a svalutare sono quelli con tassi vicini allo zero (Australia, Nuova Zelanda e Norvegia).

Ma il colpo grosso l'ha messo a segno la Germania in occasione della crisi del debito greco. La sua iniziale ritrosia ad assecondare un intervento della Bce a garanzia del debito sovrano ellenico ha innescato un deprezzamento dell'Euro sia rispetto al dollaro – con il quale il rapporto di cambio è tornato ai livelli di cinque anni fa – sia soprattutto con lo yuan che si è apprezzato del 14% sulla moneta unica. Elemento questo di grande rilievo nei rapporti commerciali internazionali, tenendo conto che l'UE assorbe il 25% dell'export cinese. Che l'indebolimento dell'Euro sia stato frutto di un calcolo o di una casualità propizia non ne modifica in nulla l'effetto, che vale una svalutazione competitiva coi fiocchi. Per la Germania, l'euro è stato una manna perché ne ha sancito la supremazia economica nell'area dei paesi che l'hanno adottato, nessuno dei quali può competere in produttività, né può svalutare. Adesso che l'euro va un po' stretto, qualcuno in Germania forse spinge per abbandonarlo o a superarlo.

Tra i vari aspetti della guerra generale per assicurarsi le condizioni più favorevoli all'interno delle complesse relazioni che caratterizzano l'interscambio mondiale, il conflitto tra monete è forse il più importante e di immediato effetto in termini economici, ma non ha caratteristiche di stabilità nel tempo, specie nelle fasi caotiche come quella attuale, in cui si vanno definendo nuovi equilibri.

6. Il fallimento del multilateralismo e la tendenze ad aggregazioni di area

Il Doha Development Round, lanciato nel 2001, si è trascinato per un decennio in trattative senza esito: lo scopo era stabilire un sistema di regole condivise per un regime commerciale multilaterale che valesse per tutti i concorrenti. Il suo varo voleva rappresentare una reazione multilaterale ai contraccolpi dell'attentato alle Torri Gemelle e, almeno nelle dichiarazioni, intendeva superare l'asimmetria nei benefici della liberalizzazione commerciale, tutta sbilanciata a danno dei Paesi in via di sviluppo (Pvs) e a favore dei Paesi sviluppati (Ps), assai poco propensi a concretizzare gli impegni assunti in sede di Uruguay Round e a ridurre i picchi tariffari – a protezione soprattutto dalle importazioni agricole dai Pvs – e i sussidi alle produzioni ed esportazioni proprie. Sulla carta, a Doha i Pvs avevano ottenuto alcune concessioni da Usa (sui diritti di proprietà intellettuale dei farmaci) e UE (sui sussidi all'agricoltura). Il Doha Round avrebbe dovuto concludersi entro il 2004, ma il fallimento fu chiaro fin dalla conferenza di Cancun del 2003, dove riemersero le forti contrapposizioni di sempre su tutti i temi: protezionismo agricolo dei Ps, riduzione delle tariffe dei prodotti industriali, liberalizzazione dei servizi, proprietà intellettuale. All'asse tradizionale Usa-Ue, che fino a quel momento aveva menato le danze nelle trattative multilaterali, si contrappose un gruppo di 20 stati guidato da Cina, India, Brasile, Messico e Sudafrica, che fece pesare per la prima volta in modo significativo la propria influenza. Anche la conferenza di Hong Kong del 2005 fu sostanzialmente senza esito. Nel 2006, il negoziato fu sospeso e fino a tutto il 2007 non si era sbloccato.

Le  richieste di Cina, India e Brasile si erano concentrate sulla facoltà dei Pvs di aumentare le tariffe sulle importazioni agricole in presenza di caduta dei prezzi interni a causa della concorrenza estera. Su questo punto i colloqui si arenarono definitivamente  a Ginevra a luglio 2008, per l'opposizione irremovibile degli Usa. Lo scoppio della crisi ha fatto piazza pulita di tutte le velleità di  multilateralismo, accentuando semmai i contrasti e la tendenza ad aggregazioni di area, ennesima conferma dell'impossibilità per i capitalismi concorrenti di concordare su un “controllo comune globale e preventivo” delle condizioni dell'interscambio, se non in termini generici e di principio e in presenza di condizioni eccezionali e temporanee (cfr. la prima parte di quest'articolo, uscita sul n.4/2010 di questo stesso giornale).

Fallito miseramente il Doha Round, il multilateralismo di facciata dei rituali dei vertici internazionali viene sistematicamente contraddetto dal taglio delle politiche economiche nazionali, sempre più decisamente orientate in senso protezionistico, e dal moltiplicarsi di accordi bilaterali e regionali (Free Trade Areas, FTA) che si contano oggi in più di trecento.

Il Sole 24 ore dell’8/9/2009 dà conto della crescita in Asia degli accordi bilaterali di libero scambio (Free Trade Agreements), l'ultimo dei quali riguarda la Corea del Sud e l'India. Il bilateralismo è vantaggioso in quanto ha effetto immediato sulla nuova struttura della catena produttiva globale e fa da traino per affiliazioni politiche più o meno esplicite. Gli accordi tra attori della stessa area favoriscono la produzione di componenti in un paese asiatico con materie prime in arrivo da un altro e l'export delle stesse componenti in un terzo paese per l'assemblaggio finale. Di qui, con accordi bilaterali, l'export verso i mercati più o meno ricchi. Le auto indiane Maruti-Suzuki o Hyunday hanno portato l'India al sorpasso sull'industria dell'auto cinese per quanto riguarda l'export. La rete di FTA si fa complessa. In Asia, erano sei le FTA nel 1991, 166 nel giugno 2009 e 62 sono in preparazione (13). Tra le potenze occidentali, oltre al NAFTA (Usa, Canada e Messico), la UE ha promosso lo Spazio Economico Europeo (con Islanda, Liechtenstein e Norvegia), numerosi accordi di associazione nell'Europa sudorientale e nelle regione mediterranea, l'Accordo di partenariato con gli Stati caraibici. La tendenza alla proliferazione di accordi commerciali regionali (ACR) risulta molto forte dalla fine degli anni Ottanta. Questi accordi promuovono il libero scambio, ma a livello regionale o bilaterale, e possono essere letti come espressione di tendenze protezionistiche di area.

Grafico fig 9-Bce feb 2009, pag 100 Numeri di accordi commerciali regionali

 

 

L'area più dinamica attualmente è senz'altro l'Asean. Si tratta della terza area commerciale al mondo dietro a quella europea e al NAFTA, ma è la prima per popolazione, con quasi due miliardi di abitanti. L’obiettivo della Free Trade Zone fra Cina e Asean, entrata in vigore l’1 gennaio scorso, è  quello di tagliare del 90% i dazi e le tariffe fra i Paesi partecipanti in meno di 5 anni, dando un ulteriore impulso a scambi che già sono cresciuti dai 59,6 miliardi di dollari del 2003 ai 192,5 miliardi del 2008. E' una chiara risposta alle velleità del Wto e del Doha Round, e in genere dell'occidente, di rilanciare il multilateralismo per legare a sé le sorti del mondo intero. Cina e Taiwan, due Stati che nemmeno si riconoscono reciprocamente, hanno stipulato nel giugno scorso un significativo accordo che ha sancito il taglio di tariffe doganali su centinaia di prodotti. Qui è l'epicentro dello sconquasso geopolitico che si sta profilando:

 La questione di fondo è che in tal modo tutte le parti in causa si vedono in grado di limitare e contenere sul piano nazionale le conseguenze della diminuzione che si riscontra negli scambi commerciali per via della crisi. L' accordo di libero scambio segna, del resto, una forte integrazione tra due immense macro regioni: una che si configura come una sola potenza statuale; l' altra che si contrassegna, invece, come una miriade di stati di diversa dimensione e con non convergenti orientamenti politici. È facile perciò prevedere che in breve la Cina assumerà un ruolo predominante nell' aerea e ne condizionerà pesantemente i destini non solo economici. Anche questa volta la storia ha degli effetti non previsti” (14).

Certo, non era possibile prevederlo da parte di chi ancora fantastica sul “comunismo” cinese e non è in grado di vedere la schietta natura capitalistica di quel paese dietro la grottesca foglia di fico dei simboli di regime!

7. Conclusioni

Per quanto non si sia ancora manifestato in modo aperto e generale, il protezionismo si conferma approccio inevitabile dei capitalismi nazionali in risposta alla crisi. Il suo riaffiorare, in modalità per ora ancora contraddittorie, prefigura il superamento dei vani tentativi di soluzione economica alla crisi e il passaggio all'approccio politico-militare, una volta che il quadro delle alleanze si sarà definito sulla base delle aggregazioni di area che già oggi si possono individuare attorno ai poli di America (Nafta) e Cina (Asean), con l'Unione Europea nel ruolo del vaso di coccio in strutturale crisi politica, e il colosso russo in attesa della scelta di campo.

Da parte americana, alcune dichiarazioni cominciano ad  assumere toni minacciosi, tanto contro la Germania e la sua politica tutta votata all'export (“Noi non lasceremo che la Germania esporti le conseguenze della sua ossessione per l'austerità comprando qualsiasi cosa essa venda”), tanto contro il protezionismo cinese fatto di tassi di cambio favorevoli e sovvenzioni all'export (14). Da parte sua, Pechino, in previsione di una frenata delle esportazioni, annuncia che continuerà a sostenere l'export con tutti i mezzi, incentivi fiscali compresi, e il deprezzamento ulteriore dello yuan rimane al momento un “sogno americano” (cfr, Il Sole 24 Ore del 21/7/2010). In questo clima da “tutti contro tutti”, fa sorridere che uno dei rari segnali di controtendenza  venga dalla abolizione delle restrizioni sull'export di galline USA in Russia.

Il Capitale spinge per sua natura alla mondializzazione, ma non può prescindere dalla dimensione nazionale. Anche la mondializzazione verificatasi negli ultimi decenni altro non è, in fondo, che una proiezione del capitalismo dominante Usa, trovatosi temporaneamente senza avversari in grado di contenerne le pretese, e oggi alle prese con le ripercussioni potenti del processo assecondato proprio dagli Usa per servire le necessità del capitale finanziario. La mondializzazione del Capitale, infatti, comporta una completa destabilizzazione dei vecchi equilibri di potere a livello internazionale e degli assetti sociali interni degli stessi paesi imperialisti, come conseguenza dell'apertura alla concorrenza estera a ogni livello. Con l'accentuarsi delle pressioni competitive che spingono alla riduzione relativa della massa salariale totale per compensare la tendenza alla diminuzione del saggio del profitto, si pongono le premesse per la liquidazione dell'opportunismo a lungo dominante tra le file proletarie d'Occidente e per la definitiva proletarizzazione di tutti quei ceti intermedi, le mezze classi, che hanno goduto di parziali privilegi e garanzie in ragione della relativa posizione di vantaggio del proprio Capitale nazionale nell'agone mondiale. Questa spinta liberalizzatrice, che ha avuto dunque un carattere obiettivamente rivoluzionario – dialetticamente, tanto nell'ambito dello stesso capitalismo che per sua natura rivoluziona continuamente i rapporti sociali quanto nella prospettiva del suo superamento – sta  facendo cadere certezze e garanzie anche nelle casematte del capitale, scardina equilibri interni e internazionali, spinge agli accordi di area e alla definizione delle alleanze pre-belliche. La rinascita delle spinte al protezionismo ne è un ulteriore correlato, ma a differenza del passato esso incontra ostacoli potenti nel livello elevatissimo di integrazione dei mercati e della produzione, rendendo ancora più complessa, caotica e incontrollabile la dinamica dei rapporti tra imperialismi.

In questa serie di articoli, abbiamo però voluto anche sottolineare come alla base dei fenomeni descritti, dell'accentuarsi delle tensioni e dei contrasti tra imperialismi, vi sia la più potente crisi di sovrapproduzione che il modo di produzione capitalistico abbia mai conosciuto.

 

Note:

11) Tuttavia, in presenza di crescenti difficoltà per l'export, non si può escludere un prossimo aumento del peso relativo del mercato interno cinese, con un riorientamento della crescita economica su base speculativa (cfr. “Un nuovo possibile scenario per la crescita cinese”, Il programma comunista, n.2/ 2010).

12) “Negli ultimi mesi stanno emergendo alcune interessanti indicazioni sul fronte valutario. Nel caso degli Usa la formale difesa della politica del dollaro forte sembra assumere un ruolo sempre più simbolico. Non a caso qualche settimana fa il presidente ha esplicitato l’obiettivo di raddoppiare le esportazioni nei prossimi 5 anni. In Giappone, il neo ministro delle finanze lascia trasparire l’intenzione di assecondare o anzi stimolare politiche valutarie volte a indebolire lo Yen. In area Euro, a fine 2009 le dichiarazioni di Trichet evidenziavano spesso preoccupazione per l’eccessivo apprezzamento dell’Euro, ribadendo a più riprese l’apprezzamento per la politica del dollaro forte. La crisi greca ha successivamente determinato un brusco deprezzamento della valuta unica che subito si è riflesso in un’impennata dell’ottimismo delle aziende tedesche. L’unico paese che potrebbe consentire a breve un graduale apprezzamento della propria valuta è la Cina. La mossa potrebbe essere finalizzata a rendere un po’ meno competitive le proprie esportazioni in cambio però di una maggiore difesa dal rischio inflazione importata. Con la sola eccezione cinese, sembra emergere una tendenza diffusa a tollerare una valuta domestica più debole per agganciare al meglio la ripresa.” (A. Cesarano, “Tutti i paesi cercano di svalutare la moneta”, Supplemento Affari e finanza, La Repubblica, 13/4/2010).

13) “Il pericoloso puzzle degli accordi bilaterali”, Il Sole 24 Ore dell'8/9/2009.

14) “Nel 2003 s' iniziò la riduzione delle tariffe doganali con l' incremento del libero scambio, al di là dei differenti regimi politici e sociali che caratterizzavano quelle nazioni. Ma il problema dell'Asean fu sempre quello del rapporto da intrattenersi con la Cina allorché essa abbandonò il verbo maoista [sic!]e iniziò la sua ascesa economica. Nel 1996 fece scalpore l' adesione della Cina come paese partner dell' Alleanza; adesione che seguiva la firma, nel 1993, a Phnom Penh, di un accordo di cooperazione commerciale tra Il Paese di Mezzo e l'Asean, accordo che iniziò a mutare radicalmente le relazioni internazionali nella regione. Ma nessuno si attendeva che i rapporti si consolidassero così fortemente e rapidamente come è accaduto inaspettatamente, sorprendendo la maggioranza degli osservatori. Il 29 dicembre 2009 il ministro cinese del commercio e il rappresentante economico della Thailandia in Cina annunciarono che dal 1° gennaio 2010 la Cina avrebbe fatto parte integrale dell' Alleanza. Viene così costituendosi un'area di libero commercio di 1,9 miliardi di persone in un plesso strategico essenziale per gli equilibri mondiali. Gli accordi sono precisi: tra i paesi fondatori dell' Asean e la Cina sono state immediatamente abolite quasi del tutto le tariffe doganali. Le merci che dalla Cina saranno esportate verso i paesi dell'Asean saranno tassate solo dello 0,1% (dal 9,8% precedente) e, viceversa, per le merci che vanno dai paesi fondatori verso la Cina dello 0,6% (dal 12,8% che era). Per i paesi che hanno raggiunto successivamente l'Asean, e che ho prima ricordato, si è concordato che si perseguirà, a partire dal 2015, un pieno annullamento delle tariffe relativamente al 90% dei prodotti scambiati. Il significato economico generale e geo-strategico dell'accordo è molto chiaro. La dipendenza del Sud Est Asiatico dagli Usa e dal Giappone sta lentamente scemando, anche se queste due nazioni rimangono i principali partner economici della regione. Il problema è che con la crisi economica la Cina ha visto esponenzialmente aumentare la crescita degli scambi rispetto ai due grandi protagonisti prima citati e a tutti gli altri paesi dell' Alleanza. Le importazioni dell'Asean in Cina sono aumentate del 45%, a fronte di una crescita in senso inverso degli scambi dalla Cina all'Asean del 21%. [...] un accordo nato per contenere e contrastare il comunismo [sic!] finisce per essere oggi un veicolo di propagazione del comunismo medesimo [sic!] che ha, tuttavia, rivestito, dopo l’entrata della Cina nel Wto nel 2001, i panni di un capitalismo monopolistico di stato sempre più potente e aggressivo. I fondatori dell' Alleanza negli anni sessanta del Novecento a tutto avevano pensato, ma non a questo.” (G. Sapelli, “La Cina moltiplica il peso nell'Asean”, Corriere Economia, 1/02/2010).

15) P. Krugman, “E' giunta l'ora di essere inflessibili”, Il Sole 24 Ore del 26/6/2010. La crescente ostilità nei confronti della politica economica cinese è confermata da una proposta di legge “per dotarsi degli strumenti volti a forzare una volta per tutte i cinesi a rivalutare”, proposta che ha trovato larghi consensi nella cosiddetta “opinione pubblica” (cfr. “Nuove  iniziative a Washington per forzare Pechino sul cambio”, Supplemento Affari e Finanza, La Repubblica del 5/7/2010).

 

Vedi anche:

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°06 - 2010)

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