Non finiscono mai di sorprendersi per ciò che accade nel modo di produzione capitalista. Sempre obbedienti al richiamo del Capitale, sono mercantilisti o statalisti, liberisti o “socialisti”: ma lo sono a tempo; e non si vergognano di essere questo e quello contemporaneamente – tanto per non lasciarsi le spalle scoperte. Sbagliano le previsioni, ma poi si riprendono seguendo la corrente vincente e rifacendosi una verginità: il tempo necessario affinché la colla che li tiene attaccati a qualche cadrega vacillante si sciolga.

Nei periodi di crescita dell'accumulazione, esaltano la “scienza economica” invocando il mercato; nei periodi di crisi, sono colti da pessimismo cosmico (in special modo, gli affiliati “di sinistra”, che invocano lo Stato e i consumi). Aspettano comunque che il capitalismo si autoriformi o venga riformato a suon di suffragi in virtù di un’acquisita saggezza del “popolo sovrano” o di un “governo popolare” che miri a stimolare i consumi. Che il capitalismo, vero cancro sociale, debba essere distrutto non gli passa mai per la mente. Marx li chiamava idiots savants, “idioti eruditi” o “eruditi idioti”, come quelle persone capaci di imparare a memoria qualsiasi nozione o di svolgere i più complicati calcoli, ma poi neurologicamente impossibilitati a connetterli...

Rapporto tra produzione, distribuzione e consumo

Citano Marx, ma quello che blaterano sono solo falsificazioni. Sentite un po’: “Un sistema economico capitalistico potrebbe riprodursi senza crisi, per usare il linguaggio di Marx [sic!], se la distribuzione del prodotto sociale fosse tale da non generare crisi di realizzazione, di ‘sovrapproduzione’ (di sovrapproduzione relativa: rispetto alla capacità di acquisto, non rispetto ai bisogni); e se moneta, banca e finanza fossero soltanto funzionali al processo di produzione e riproduzione del sistema, e non dessero invece luogo a sovra-speculazione e a crisi di tesaurizzazione” [1]. Se..., se...: se gli asini potessero volare, gli economisti borghesi potrebbero essere usati nel trasporto aereo!

Scrive invece Marx, sul rapporto tra produzione, distribuzione e consumo: “I cosiddetti rapporti di distribuzione corrispondono dunque a forme specificatamente sociali e storicamente determinate del processo di produzione e dei rapporti in cui gli uomini entrano gli uni con gli altri nel processo di riproduzione della loro vita; e ne scaturiscono. Il carattere storico di questi rapporti di distribuzione è il carattere storico dei rapporti di produzione, dei quali non esprimono che un lato. La distribuzione capitalistica differisce dalle forme di distribuzione nascenti da altri modi di produzione, e ogni forma di distribuzione scompare insieme con la forma di produzione determinata da cui scaturisce e alla quale corrisponde” [2].

I rapporti di distribuzione sono dunque forme storicamente determinate del processo di produzione, scaturiscono dal modo di produzione. Ogni sconvolgimento nei salari, nei profitti, nelle rendite, negli interessi, non è che un effetto accentuato delle crisi economiche. Nelle crisi di sovrapproduzione, la crisi di realizzazione si riflette in modo evidente nella distribuzione. E' la condizione di blocco del sistema produttivo a  condizionare la realizzazione del plusvalore e quindi la sua divisione in profitti, rendite e interessi. Come avviene? La classe operaia produce essenzialmente plusvalore per il sistema; se il plusvalore non è prodotto o non è prodotto nel grado di sfruttamento richiesto alla riproduzione del sistema stesso, la produzione si arresta; ne consegue una fase critica nella distribuzione; ma soprattutto per  la classe operaia non c'è nemmeno consumo. Che vuol dire?  Se la classe operaia, spiega Marx, lavorasse solo per l'equivalente del lavoro necessario, cioè tanto quanto è contenuto nel valore del suo salario ovvero nei suoi mezzi di sussistenza e nient'altro, cesserebbe anche il suo consumo. Per questo il suo lavoro viene arrestato, accorciato, e in tutti i casi il salario viene abbassato. Se gli operai non producono più del lavoro necessario, essi non possono essere consumatori: quindi, “essi devono essere sempre sovraproduttori, produrre di là dal loro bisogno, per poter essere consumatori o compratori entro i limiti del loro bisogno” [3]. Non c’entrano nulla la speculazione e la tesaurizzazione, che sono solo sintomi della sovrapproduzione. Ma tant’è: per gli economisti borghesi, l’unico terreno d’indagine (?!) è il mercato, dove avverrebbero mirabolanti festini e stranezze.

Nel linguaggio di Marx: “Sovrapproduzione di capitale non significa mai altro che sovrapproduzione di mezzi di produzione – mezzi di lavoro e mezzi di sussistenza – in grado di funzionare come capitale, cioè di essere utilizzati per sfruttare il lavoro a un dato grado di sfruttamento, poiché la discesa di questo grado di sfruttamento al di sotto di un certo punto provoca perturbazioni e ristagni nel processo di produzione capitalistico, crisi distruzione di capitale” [4].

Per Marx, il grado di sfruttamento non è altro che il saggio di plusvalore, da cui discende il saggio medio di profitto, legato alla composizione organica crescente – saggio medio la cui caduta è, per quanto lenta, inevitabile, a meno di catastrofi naturali o guerre. E' questa riduzione che mette lentamente l'intero sistema capitalistico in una situazione di “blocco respiratorio”: tutto il sistema ruota attorno alla creazione  e realizzazione del plusvalore, senza di cui vengono sconvolti oltre che le forze produttive anche i rapporti di produzione e di distribuzione.

Ritornando alla distribuzione, scrive ancora Marx: “Che sia giunto il momento della crisi si vede non appena il contrasto e l’opposizione fra i rapporti di distribuzione, quindi anche fra la forma storica determinata dei rapporti di produzione a essi corrispondenti, da una parte, e le forze produttive, la capacità di produzione e lo sviluppo dei loro fattori dall’altra, guadagnano in ampiezza e profondità. Subentra allora un conflitto fra lo sviluppo materiale della produzione e la sua forma sociale” [5].

Rimedi keynesiani

“Oggi come allora [ai tempi di Keynes – NdR]”, scrive ancora l’economista Lunghini, su citato, “i ‘difetti’ più evidenti della società economica [?!] in cui viviamo sono l’incapacità ad assicurare la piena occupazione e una distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito (che sono tra le cause principali della crisi attuale)”.

Dopo due secoli almeno di dittatura del capitale, chiamare “difetti” le leggi funzionali stesse del capitalismo fa davvero ridere. Ovviamente, non è un caso: si sa che i difetti possono essere sempre modificati con... un'operazione di lifting... Per fortuna, c’è l'esperto in crisi!

“Per rimediare a questi difetti”, scrive sempre il succitato, “Keynes propone tre linee d’intervento: una distribuzione del reddito per via fiscale (imposte sul reddito progressive ed elevate imposte di successione), l’eutanasia del rentier, e un certo, non piccolo intervento dello Stato nell’economia”. Esaminiamole allora a una a una.

La prima ricetta comprende la famosa “tassazione progressiva” e le imposte di successione, vecchie prescrizioni dei socialisti all'acqua di rose e degli uomini di buona volontà, che dovevano servire ad alleviare, a loro dire, le misere condizioni delle classi lavoratrici. Oggi, quest’intervento “comporterebbe un aumento della propensione media al consumo e dunque della domanda effettiva” – servirebbe quindi a... riprendersi dalla botta della crisi arrivatagli improvvisamente tra capo e collo. Se ne può dedurre che, nell’attuale crisi, sia mancato il denaro in circolazione per comprare tutte le schifezze circolanti o che la produzione si sia fermata negli ultimi trenta anni privilegiando l'attività finanziaria, la quale ha festeggiato la propria ascesa facendo brillare polvere d'oro “immaginaria” davanti agli occhi di tutti; oppure che siano mancati i mezzi di pagamento finanziari, quelli che, senza alcun sostegno di liquidità (ovvero, di moneta circolante), passando da un computer e l'altro, avrebbero determinato un'inflazione finanziaria stratosferica; o infine ancora che il credito a tutti i livelli, a diversa potenza di utilizzo (nella produzione, nella distribuzione, nel consumo), non sia stato distribuito a piene mani, senza che nessuno chiedesse garanzie sufficienti. Credito che, in quella misura che possono permettersi i senza riserve, ha già incatenato la forza lavoro delle generazioni future, oltre a quella presente, costretta a rimanere chiusa per 40 anni dentro una fabbrica senza vedere la luce del sole per pagarsi la sospirata casa, l'auto per andare in fabbrica, la settimana di vacanze...

E’ mancata la distribuzione? Non sono forse aumentati i profitti, gli stipendi, le rendite immobiliari, i dividendi, i bonus, le rendite finanziarie? Non è cresciuta la somma totale dei mutui immobiliari, delle assicurazioni, dell'assistenza, delle speculazioni, dei godimenti delle classi medie, dell'aristocrazia operaia? Certo che sì. Ma è cresciuta anche la somma dei debiti dei proletari, indotti a trasmettere ancora maggiormente la propria miseria dell'oggi alle generazioni future. E i salari? Anche quelli sono cresciuti (non certo per merito delle inesistenti lotte sindacali!), ma solo nella quantità che basta a una vita miserabile e con tutte le infinite rigide sottrazioni cui i proletari sono stati e sono costretti e abituati a vivere durante tutta la loro vita lavorativa, tra licenziamenti, flessibilità, precarietà, circondati dai rigidi cordoni sanitari che le organizzazioni sindacali in accordo con i governi hanno steso tra occupati e disoccupati, tra immigrati e autoctoni, tra forza lavoro di riserva e  forza lavoro attiva.

Ma che sia stato il ridotto potere d’acquisto dei lavoratori a determinare la crisi di sovrapproduzione è una pura favola! Si sono ridotti i margini di profitto del Capitale, ma non perché il denaro è stato tesaurizzato, non perché la “propensione al risparmio” abbia vinto alla lunga sulla “propensione agli investimenti”, non perché il genio del capitalista sia entrato in letargo...

Torniamo ai salari. Scrivevamo, all’alba della crisi di metà anni ‘70: “Il marxismo non nega che con l'aumentare della produttività del lavoro sociale legato all'accumulazione capitalistica, la quantità dei valori d'uso, cioè di beni messi a disposizione della classe operaia, storicamente tenda a crescere. In altre parole, nello stesso tempo che i produttori diretti sono più sfruttati, nello stesso tempo che il loro salario espresso in tempo di lavoro necessario alla riproduzione della forza lavoro diminuisce, essi hanno a disposizione più beni. In questo senso, chiedere al capitale di aumentare il consumo popolare non è che una tautologia” [6].

Si tratta (ripetiamo) di crisi di realizzazione del valore e del plusvalore: dunque, non c’entra nulla il diminuito potere d’acquisto dei salari. “Si producono [scrive sempre Marx]  troppe merci per poter realizzare nelle condizioni di distribuzione e nei rapporti di consumo dati dalla produzione capitalista il valore in esse contenuto e il plusvalore ivi racchiuso, e riconvertirli in nuovo capitale, cioè per poter compiere questo processo senza esplosioni perennemente ricorrenti” [7].

D’altronde, il nostro economista non chiede nemmeno un drastico aumento dei salari a parità di tempo di lavoro: chiede solo (?) che i capitalisti paghino le tasse. Eh, già… a questo punto della crisi, ad aumentare i salari ci si metterebbe contro gli... interessi nazionali. Adesso, è epoca di digiuno, di quaresima, sostengono con facce seriose tutti i settori della borghesia e dell’aristocrazia operaia, sindacati nazionali in prima fila. Adesso, si tratta di continuare a torchiare i proletari... per il bene della nazione in stato di bancarotta.

Scrive Marx: “E’ una pura tautologia dire che le crisi nascono da mancanza di consumo solvibile o di consumatori solvibili. Il sistema capitalistico non conosce specie di consumo che non sia quella solvibile, fatta eccezioni per il consumo sub forma pauperis o per quello del ‘mariuolo’. Che delle merci siano invendibili, non significa se non che per esse non si sono trovati compratori in grado di pagare, dunque consumatori (sia che le merci vengano comprate, in ultima istanza, a scopo di consumo produttivo o di consumo individuale). Ma, se si vuole dare a questa tautologia una parvenza di più profonda giustificazione dicendo che la classe operaia riceve una quota troppo misera del suo stesso prodotto, che quindi, al male si porrebbe rimedio qualora ne ricevesse una parte maggiore, e di conseguenza il suo salario crescesse, c’è solo da osservare che le crisi sono preparate ogni volta proprio da un periodo in cui il salario in generale aumenta e la classe operaia riceve realiter una quota maggiore della parte del prodotto annuo destinata al consumo. Dal punto di vista di questi cavalieri del sano e ‘semplice’ buon senso, quel periodo dovrebbe viceversa allontanare la crisi. Sembra, dunque, che la produzione capitalistica implichi condizioni indipendenti dalla buona o cattiva volontà, che solo in via momentanea, e sempre soltanto come segno premonitore di una crisi, permettono quella prosperità relativa della classe operaia”[8].

Nel frattempo, in questo periodo di transizione, di stasi, di ricarica dell'energia potenziale del bestione ferito dalla sovrapproduzione, come si verrà incontro alla sua voracità di capitalizzare per la sua accumulazione ogni valore d'uso, ogni bisogno reale e immaginario? Gli si fa il predicozzo? Gli si arrotano le unghie? Gli s’impongono delle regole o si intima ai suoi custodi di pagare le tasse, di non portare i capitali all'estero, di non lavorare  in nero? Oppure s’impone ai proletari, come sta accadendo, dopo un salasso di licenziamenti, attacco alle pensioni, all'assistenza, alle tredicesime, al blocco delle assunzioni, di mettersi con più lena al lavoro affinché il prodotto interno cresca rapidamente, sicché poi in futuro... si porrà una diversa, nuova e democratica distribuzione? E' il metodo aureo di “rimettere a noi i loro debiti”, contratti e rinnovati nel tempo dalla borghesia nazionale e dai suoi servi famelici, anno dopo anno. La borghesia sa che la scadenza è arrivata e il proletariato è la classe che deve pagare!

Il Capitale risponderà alle sollecitazioni  pressanti che la sua natura è organica alla società presente: la sua socialità è quella della produzione per la produzione, il suo modo di avanzare nella storia non è quello di servire i bisogni dei “dannati della terra”, ma quello di accumulare il sacrosanto profitto, che assicurerà comunque il “progresso umano”. Si vuol forse fermare il corso della Storia? La questione della distribuzione non è un suo problema. Se la distribuzione politica (ammortizzatori, pensioni, assistenza) non ha avuto buon fine, si guardi invece allo sviluppo del credito alle famiglie, alle imprese, alle banche, agli Stati, negli ultimi anni – e soprattutto alle famiglie dei lavoratori: credito che ha consentito di offrire mutui trentennali anche ai senza riserva, estendendo la condizione ai nuovi arrivati, agli immigrati, ecc. Certo, con bassi salari e con tempi di lavoro insopportabili (straordinari, cottimi, flessibilità, precarietà) per qualunque operaio nazionale. Ma... c'è “un altro mondo possibile”?

Dalla profondità delle sue viscere, è questo ciò che esprime la borghesia, riaffermando così, senza mezzi termini, che il suo non è pane per denti da latte o per vecchi sdentati... che non si prospettano semplici giri di valzer, ma lacrime e sangue. Contro il riformismo nelle sue più varie articolazioni opportuniste, i proletari lo sanno: non si tratta di un pranzo di gala. Si vuole forse ridare al Capitale una piccola risistemata, una qualche riforma di facciata, come prospettano gli opportunisti (quel tanto che basti perché possa essere assicurata una loro continuità a misura di... “ciuccia-inchiostro”)? Al nostro autore, al nostro idiot savant, non si può non rispondere: “Che fa, il nesci, eccellenza? Non sa che cosa è il Capitale, dopo tanti anni di cattedra?” E agli altri, della stessa risma e dello stesso calibro: “Occorre un comando di classe che dilaghi sul pianeta, che imponga la dittatura del proletariato, diretta dal Partito comunista mondiale”.

Ma veniamo al secondo piatto, alla seconda ricetta: “L’eutanasia del rentier, dunque del ‘potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale’ [?] renderebbe convenienti anche investimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, quali normalmente sono gli investimenti ad alta redditività sociale”.

A parte il fatto che i sottosistemi del Capitale, quello della proprietà fondiaria (terra, materie prime, ecc.) e della proprietà dei mezzi di circolazione e di pagamento (monetario e finanziario) sono inclusivi del sistema della proprietà dei mezzi di produzione, ma soprattutto dei prodotti finali (la cui personificazione è il capitalista, mentre il proprietario fondiario e il banchiere sono personificazioni della rendita e degli interessi, semplici sottrazioni del profitto industriale), c'era da aspettare un secolo e più dai tempi di Marx per capire che tramite i suoi tirapiedi stipendiati la borghesia non esercita più alcun ruolo storico e che, al pari di tutti gli altri briganti, vive di “rendita”? Che cosa è poi il “valore di scarsità del capitale” se non il suo comando, condiviso con le  altre classi proprietarie, di disporre dittatorialmente della “proprietà privata nella sua più vasta accezione”, negandola all'unica classe mondiale che produce ricchezza e lasciandole le semplici condizioni di esistenza di vendita, quando le riesce, della propria forza lavoro? In realtà, si vorrebbero per il capitalismo delle stampelle appropriate affinché il suo cadavere possa ancora camminare: il capitalismo potrebbe vivere, secondo il professore, con investimenti a bassa e differita redditività. Che significa? Forse che la necrofilia propria di una società in decomposizione si è impossessata degli idiots savants? Incapace di guardare in faccia la terribile caduta tendenziale del saggio medio di profitto, di concepire la riduzione estrema dei margini di profitto reali, le professeur crede che questa condizione, che, al contrario, terrorizza il Capitale, possa essere la condizione di una sua (procrastinata all' infinito) esistenza futura? Quanto basso, quanto differito, deve essere questo profitto per i suoi investimenti, perché il bestione si acquieti?

Dopo la crisi del 1929 (crisi di sovrapproduzione), il capitalismo si è forse suicidato o, al contrario, ha militarizzato con la guerra tutte le sue forze produttive? Fu la guerra, “igiene del mondo” di nazifascisti, stalinisti e democratici, ad abbattere rapidamente la disoccupazione, a inchiodare le donne nelle fabbriche in assenza di uomini al fronte, di capitali in movimento per comprare mezzi di sussistenza per gli uomini in guerra e mezzi di produzione-distruzione di massa nelle fabbriche: la guerra come bagno di giovinezza per il capitale.

Con la terza e ultima linea d'intervento, la terza ricetta, siamo in pura Fantasyland. “Per quanto riguarda l’intervento dello Stato […] l’azione si riferisce […] a quelle funzioni […] e decisioni che nessuno prende se non vengono prese dallo Stato”. Qui, la geremiade sul gigantesco debito pubblico prende i toni di un Requiem: “Se quel debito fosse stato contratto per assicurare istruzione, sanità e assistenza ai cittadini, le future generazioni non dovrebbero sopportare nessun prezzo, poiché a fronte di quel debito avrebbero oggi e domani quelle strutture e quei servizi. Il prezzo che pagheranno è la mancanza di quelle strutture e di quei servizi, a causa di un debito pubblico che è stato contratto a favore di quei privati che hanno determinato la crisi attuale”.

Stessa conclusione ipotetica: se gli asini potessero volare, economisti e idiots savants dovrebbero essere nutriti in volo. Pertanto, per evitarci la fatica, è meglio chiuderli nella famosa “torre della fame” di Ugolino: a divorarsi vicendevolmente.

 

Note:


[1] G. Lunghini, “Il mondo ostaggio dei rentiers”, in Cosma Orsi, Il capitalismo invecchia?, Ed. manifestolibri.

[2] K. Marx Il Capitale, Libro III, cap. LI,  Ed. Utet, p.1088. Ricordiamo che le forme che prende la distribuzione sono i profitti, le rendite, gli interessi e i salari e che i consumi si differenziano in “produttivi”, nel caso di macchine, materie prime, energia, ecc che rappresentano la maggior parte dei consumi in generale, e “improduttivi”, nel caso dei mezzi di sussistenza.

[3] K. Marx, Teorie del plusvalore, vol. III, cap. XVII, Ed Riuniti, pp 567-568.

[4] K. Marx. Il Capitale, Libro III, cap. XV, Ed. Utet, pp.327-330.

[5] Idem, p.1089.

[6] “Il ‘rilancio dei consumi sociali’, ovvero l'elisir di vita dei dottori dell'opportunismo”, Quaderni del Programma comunista, n°2, 1977.

[7] K. Marx, Il Capitale, Libro III, cap. XV, Ed. Utet, p.330.

[8] K. Marx. Il Capitale, Libro II, Cap. XX,  Ed. Utet. pg. 495.

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2010)

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