In un discorso tenuto il 7 gennaio 1848 all’Associazione democratica di Bruxelles, Marx dichiarava: “Ma in generale il protezionismo è, ai nostri giorni, conservatore, mentre il sistema del libero scambio è distruttivo. Distrugge le antiche nazionalità e spinge all'estremo l'antagonismo tra borghesia e proletariato. In una parola, il sistema della libertà commerciale promuove la rivoluzione sociale. E' solo in questo senso rivoluzionario, Signori, che voto a favore del libero scambio”.[1]

Ben venga dunque il libero scambio, se esso accelera la spirale catastrofica che conduce alla ripresa dello scontro di classe, e questo è quanto si è verificato, entro certi limiti, negli anni che hanno preceduto la crisi attuale. La contraddizione sta nel fatto che, mentre per il capitale la libertà di commercio e di allocazione dei capitali in una dimensione mondiale alla ricerca del profitto massimo è una necessità vitale, allo stesso tempo tale libertà spinge la bestia verso l'abisso: le consente cioè di gonfiarsi al punto da ridurre l'intero mondo ad una piccola gabbia dove la sua insaziabile voracità non può più essere soddisfatta. Allora, il gran bovaro si premura di riportarla nel recinto domestico per sottoporla ad adeguate cure: ma tale ritorno, nell'attuale assetto della produzione mondiale, è carico di contraddizioni e ostacoli.

Ciò che caratterizza il modo con cui gli economisti trattano l'argomento “protezionismo” nella fase successiva allo scoppio della crisi è la preoccupazione che atteggiamenti protezionistici possano generalizzarsi e rendere ancor più grave la contrazione del commercio mondiale. Ora, atteggiamenti del genere si stanno in effetti manifestando, ma non hanno ancora assunto frequenza e dimensioni tali da poter parlare di una vera deriva protezionistica, come fu dopo il '29. Noi che seguiamo le cronache solo per rintracciarvi tendenze e prospettive, oltre a sicure conferme della lettura marxista della crisi, dobbiamo preventivamente ribattere alcuni punti fermi: il protezionismo è un fenomeno connaturato al capitalismo fin dalle origini.

 

Alla fine del XVII, secolo, scrive Marx, l'Inghilterra combina tutti gli elementi dell'accumulazione originaria in sistema coloniale, sistema del debito pubblico, sistema tributario e protezionistico moderni. I metodi poggiano in parte sulla violenza più brutale, come p. es. il sistema coloniale. Ma tutti si servono del potere dello Stato, violenza organizzata e concentrata della società per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. E' essa stessa una potenza economica” [2].

 

E più oltre, sempre a proposito dell'accumulazione originaria e del ruolo di espropriazione dei liberi produttori indipendenti che viene esercitato dal moderno sistema tributario, Marx scrive che la sua efficacia è rafforzata dal sistema protezionistico, “espediente per fabbricare fabbricanti, per espropriare lavoratori indipendenti, per capitalizzare i mezzi nazionali di produzione e di sussistenza, per abbreviare con la forza il trapasso dal modo di produzione antico a quello moderno. Gli Stati europei si sono contesi la patente di quest'invenzione e, una volta entrati al servizio dei facitori di plusvalore, non solo hanno a questo scopo imposto taglie al proprio popolo, indirettamente con dazi protettivi, direttamente con premi sull'esportazione, ecc., ma nei paesi da essi dipendenti hanno estirpato con forza ogni industria[3].

 

Altro che le amenità del libero mercato! E stiamo parlando dell'accumulazione originaria! Figuriamoci se si può parlare oggi, a un secolo dall'Imperialismo di Lenin, di “libero mercato”! Senza politiche protezionistiche, nessuna delle attuali potenze economiche avrebbe potuto sviluppare un tessuto produttivo e un mercato interno per i propri prodotti – fatta eccezione per l'Inghilterra, antesignana dell'industria, che anzi sostenne il liberismo per abbattere i prezzi dei generi alimentari aprendo alle importazioni di derrate, e così calmierando il prezzo della forza lavoro industriale. Già in questa vicenda storica, considerata da Marx nel trattare la questione delle “leggi sul grano”, è leggibile l'aspetto contraddittorio del fenomeno: nel fatto cioè che la protezione dell'industria nazionale, a certe condizioni, possa passare attraverso l'apertura ai mercati internazionali. Per l'industria, è fondamentale tenere basso il prezzo delle materie prime che concorrono nel determinare il costo del capitale costante e di conseguenza il saggio del profitto. Sempre Marx:

 

“E' quindi comprensibile la grande importanza che ha per l'industria l'abolizione o la riduzione dei dazi sulle materie prime: lasciarle entrare il più liberamente possibile era già dottrina fondamentale del protezionismo giunto ad una più razionale evoluzione. Questo, unitamente al dazio sul grano, fu l'obiettivo principale dei free traders inglesi che si preoccuparono soprattutto anche dell'abolizione del dazio sul cotone” [4]. 

 

Protezionismo e liberismo convivono sempre, e anche la fase attuale lo conferma: gli atteggiamenti liberisti sono in generale espressione di una posizione di forza sui mercati mondiali da parte di potenze che sono in grado di imporre le proprie merci e i propri investimenti ai partners attraverso forme di ricatto economico-militare. Non si tratta quindi del tanto celebrato affidarsi al “libero mercato”, in cui produttori indipendenti fanno a gara a chi è più bravo a produrre beni di pari qualità ai costi più bassi; quell'epoca – se mai ve ne è stata una simile nelle storia – è stata sostituita dalla concentrazione monopolistica e dal sostegno statale alle grandi concentrazioni industrial-finanziarie, nell'epoca dell'imperialismo studiato da Lenin. Tanto il protezionismo quanto questa specie di “liberismo” si avvalgono del sostegno dell'organizzazione politico-militare dello Stato. La concorrenza continua a costituire l'essenza del sistema capitalistico, ma è, su scala mondiale, concorrenza tra Stati e gruppi monopolistici che si avvalgono di una vasta strumentazione di protezione e supporto. Engels, registrando l'avvento del mercato mondiale in seguito allo sviluppo dei mezzi di comunicazione, ne parla come di un enorme campo di investimento per i capitali delle potenze in grado di contrastare il predominio industriale inglese, e perciò come di un potente fattore che attenua la tendenza alla crisi del sistema capitalistico; ma osserva che, nello stesso tempo, le barriere protezionistiche di cui si erano dotate le potenze concorrenti dell'Inghilterra rappresentavano già gli armamenti “per la definitiva campagna universale che dovrà decidere della supremazia sul mercato mondiale. Di modo che ogni elemento che contrasta il ripetersi delle antiche crisi reca quindi con sé il germe di una crisi futura molto più terribile” [5].

 

Oggi si assiste ad una significativa inversione che mette in luce i mutati rapporti internazionali tra vecchie potenze e potenze emergenti (Cina in primis). Il Bollettino Bce del febbraio 2009, nel valutare le tendenze mondiali in tema di protezionismo, concludeva che, se non sussistevano prove di un aumento delle misure, tariffarie e non, volte a contrastare l'import, tuttavia vi erano segnali chiari di un intensificarsi delle spinte protezionistiche, soprattutto in alcune regioni (Usa e zona Euro), mentre nelle economie emergenti rimaneva forte il sostegno alla cosiddetta globalizzazione. Sono dunque i primi – Usa in testa – ad assumere un orientamento di crescente protezionismo. Ciò significa che sono sulla difensiva, senza per questo rinunciare alla penetrazione politico-militare nelle aree strategiche decisive: anzi, intensificandola proprio in risposta all'incalzare dei nuovi concorrenti. E ciò è riflesso del maggiore dinamismo delle potenze emergenti di fronte all'arrancare dei vecchi squali. Questi, di fronte agli effetti devastanti della crisi, navigano un po' a vista, valutando di volta in volta le difficoltà che si presentano, cedendo alle pressioni ora delle lobbies che vogliono difendere le produzioni nazionali ora delle lobbies che sarebbero danneggiate dall'aumento delle tariffe sull'import, ecc. – sostanzialmente impotenti di fronte al “territorio sconosciuto” di una crisi senza precedenti nel secondo dopoguerra, che essi sperano trovi uno spontaneo superamento nelle dinamiche dell'economia, magari debitamente sostenute da interventi pubblici.

 

Il rafforzarsi di tendenze protezionistiche non è evidentemente causa, ma effetto della contrazione del commercio mondiale generato dalla crisi mondiale di sovrapproduzione. E’ scontato che, in presenza di una contrazione complessiva degli sbocchi ai prodotti dell'industria, si apra una fase conflittuale tra i concorrenti per assicurarsi quote di mercato ai danni degli avversari, e a questo scopo valgono tanto il dumping quanto l'aumento delle tariffe all'importazione, le sovvenzioni alle produzioni nazionali, e cento altre forme più o meno nascoste di aiuto e sostegno che tutti stanno mettendo in atto, nei limiti delle proprie forze e possibilità. E’ anche vero che, come tendenza, sarebbe possibile una crisi grave di rapporti commerciali tra due potenze (segnali in tal senso riguardano gli Usa e la Cina): in questo caso, si avrebbe una retroazione della politica sull'economia, che darebbe il via ad un’ulteriore contrazione del commercio mondiale proporzionata alle dimensioni delle economie coinvolte. A quel punto, le prospettive del capitale internazionale potrebbero essere affidate solo all'economia di guerra e alle iniziative politico-militari, e il riaffiorare di spinte protezionistiche è il segnale che indica essere questa la direzione che ormai il capitalismo sta imboccando.

 

Tuttavia, non essendo interesse di alcuno – nelle fasi interlocutorie di transizione come l'attuale – interrompere i rapporti commerciali con concorrenti-partners, la tendenza al compromesso e verso gli accordi bilaterali o di area è nelle cose e si sta manifestando con una certa chiarezza. Per contro, appartiene ai pii desideri dei free traders odierni un rilancio del cosiddetto commercio libero globale, come si può ben vedere nel ristagno degli accordi del Doha Round (che del resto non hanno mai registrato progressi significativi in tutta la loro quasi decennale storia).

 

E' storia vecchia come il capitalismo: “ogni idea di controllo comune globale e preventivo della produzione delle materie prime [ma questo si può estendere alla produzione in generale: Engels annota a piè di pagina il sorgere di un nuovo protezionismo, che riguarda principalmente proprio gli articoli di esportazione. Ndr] è in definitiva incompatibile con le leggi della produzione capitalistica [...] che rimane perciò sempre un pio desiderio ed è limitato a provvedimenti di carattere generico ed eccezionale nei momenti di grave, immediato pericolo e di incertezza”, dopo di che “subentra la convinzione che domanda e offerta si regolano a vicenda” [6].

 

La fase attuale si presenta particolarmente interessante, perché le aggregazioni economiche di area preludono alle aggregazioni politico-militari che dovranno caratterizzare la fase successiva, con buona pace dei sostenitori del libero mercato come garanzia di pace mondiale. Non per caso, l'ultima spinta liberalizzatrice è coincisa con l'avvento della incontrastata egemonia USA, il cui sistema finanziario aveva interesse all'abbattimento di ogni barriera alla circolazione libera del capitale in tutte le sue forme, fossero esse espressione di capitale reale o fittizio – egemonia che metteva gli USA in grado di imporre la propria pace alle proprie condizioni su scala planetaria.

 

Dal punto di vista economico, nella fase attuale di massima internazionalizzazione del capitalismo, la questione assume aspetti contraddittori. Il ricorso al mercato estero è annoverato da Marx tra le cause antagoniste alla caduta tendenziale del saggio medio del profitto: “Il commercio estero, in quanto fa diminuire di prezzo sia gli elementi del capitale costante che i mezzi di sussistenza necessari nei quali si converte il capitale variabile, tende ad accrescere il saggio del profitto, aumentando il saggio del plusvalore e diminuendo il valore del capitale costante. Esercita in generale un'azione in questo senso perché rende possibile un ampliamento della scala di produzione[7].

 

Negli ultimi trent'anni, il processo di liberalizzazione dei mercati finanziari, dei flussi di merci e capitali su scala globale e di integrazione dei mercati mondiali ha dato al capitalismo la possibilità di una nuova fase di espansione (il volume del commercio mondiale è quadruplicato dal 1982 ad oggi), con l'effetto di produrre una massa immensa di mezzi di produzione e capitali in cerca di valorizzazione su scala planetaria. La crisi ha rivelato l'esaurirsi del processo di espansione, oltre il quale è difficile intravedere ulteriori possibilità di ripresa stabile senza preventiva e catastrofica distruzione di uomini, merci, mezzi di produzione e capitali, oggi paurosamente in eccesso rispetto alle possibilità di valorizzazione.

 

Va considerato anche l'aspetto particolare che ha assunto nell'ultimo decennio l'integrazione dei mercati, attraverso l'interdipendenza USA-Cina nel ruolo rispettivamente di  fornitore di servizi finanziari e di produttore-esportatore, con il mercato americano nel ruolo di buco nero pronto ad assorbire, con la pompa del credito e dell'indebitamento, i surplus di produzione altrui. Qui sta l'asse centrale degli attuali equilibri internazionali e qui si sono aperte nel corso dell'anno le schermaglie commerciali e monetarie più significative. Gli USA non possono ricorrere massicciamente al protezionismo senza mettere in pericolo la stabilità del proprio debito pubblico, detenuto principalmente dalla Cina (che in tal modo si è stretta a sua volta il cappio al collo, legandosi alle sorti del dollaro); la Cina da parte sua non può orientarsi repentinamente sul proprio mercato interno, potenzialmente enorme, sia per le ripercussioni sociali di difficile controllo che ne deriverebbero, sia perché la sua macchina produttiva necessita di sbocchi nell'immediato, e non può aspettare che si completi un lungo processo che porti ad una crescita massiccia dei consumi interni: deve perciò continuare finché possibile ad affidarsi al mercato USA e in generale all'export. Da qui, il deciso contrasto alle spinte protezionistiche provenienti dagli Usa e la resistenza alle pressioni per una rivalutazione dello yuan. Nel contempo, la Cina ha iniziato un processo di sganciamento dal legame con l'economia Usa, a cominciare dalla riduzione della sottoscrizione di T-bonds americani, di cui ora non è più la prima detentrice.

 

Nell'assetto attuale dei mercati internazionali, non esiste più una netta distinzione tra import ed export: le potenze economiche hanno dislocato in tutti i continenti filiere produttive utilizzanti marchi nazionali che si affidano alla produzione estera. Anche questo fattore agisce come deterrente al ricorso all'aperto e generale protezionismo, che si attua su singole produzioni, strategiche e non. Un cenno a parte meritano i semilavorati, che costituiscono un'alta percentuale dell'interscambio. Oggi, il mercato dei semilavorati svolge una funzione simile a quella delle materie prime nella determinazione del saggio del profitto, perché la filiera della produzione integrata internazionale le colloca più spesso al di fuori dell'ambito nazionale, determinando una forte interdipendenza. Il che comporta altresì grande velocità nella trasmissione degli effetti delle crisi e blocco della produzione in tempi rapidi. Questo è un ulteriore elemento che fa sì che in generale il capitalismo, nelle sue varianti nazionali, non possa più affidarsi unicamente al rilancio dei mercati interni che, pur se pompati al massimo, mai sarebbero in grado di compensare la contrazione degli sbocchi esteri (tutte le previsioni sulle ripercussioni di disposizioni protezionistiche confermano che gli svantaggi a lungo termine per l'economia e i singoli settori sarebbero ben maggiori dei vantaggi immediati) [8].

In USA, il rilancio dei consumi interni viene perseguito con potenti piani di sostegno al credito, ma il mercato interno USA è il mercato di sbocco delle merci cinesi ed europee. Ciò blocca ogni possibilità di una deriva protezionistica generale, almeno finché la Cina non si sarà almeno in parte sganciata dalla dipendenza dei consumi americani; ma quel momento, se verrà, segnerà un passaggio strategico con conseguenze a livello mondiale.

 

Possiamo concludere che, mentre il protezionismo come atteggiamento politico-economico prevalente appartiene al capitalismo industriale nascente, nella fase terminale del presente modo di produzione, ogni ricorso al protezionismo generalizzato appare difficilmente praticabile, se non come fase immediatamente precedente l'aperto conflitto politico-militare. Da parte sua, il liberismo come  ideologia di supporto ai processi di liberalizzazione dei flussi internazionali di capitali, merci e uomini, ha poco a che vedere col liberismo classico. Esso esprime piuttosto la tendenza alla penetrazione dei mercati esteri da parte di colossi finanziari e industriali strettamente integrati con i rispettivi apparati politico-militari. E' la continuazione su scala planetaria della politica delle cannoniere, che impose con la forza, a metà Ottocento, l'apertura dei porti giapponesi e cinesi alle merci degli stati capitalistici d'Occidente. Ma esso è semplicemente l'altra faccia del protezionismo, come questo orientato alla guerra commerciale, combattuta tanto a colpi di dumping quanto di tariffe sull'import.

 

La capacità di penetrazione delle merci di un Paese nei mercati internazionali dipende da molteplici fattori, ma in definitiva dalla capacità dell'integrazione fra Stato e sistema industrial-finanziario di fronteggiare efficacemente le aggregazioni politico-economiche concorrenti nella conquista dei mercati, nel controllo dei flussi finanziari e delle materie prime – e, non ultima, dalla capacità di sottomettere al proprio interno la forza lavoro salariata ai ritmi e alle condizioni di produzione più consone al perseguimento della tanto agognata e mai definitivamente conquistata “competitività”. Come ciò che conta nell'agone economico mondiale sono essenzialmente l'organizzazione e la forza, così nel mercato interno dominano le aziende e i gruppi economici in grado di stabilire un rapporto organico con gli apparati statuali, politici e amministrativi, di esercitare pressioni per l'ottenimento di appalti e concessioni con ogni mezzo più o meno legale, dalla corruzione alla violenza mafiosa. Dall'avvento della fase imperialistica in poi – e oggi in grado elevatissimo – la concorrenza si configura sempre più come guerra per bande organizzate. Scrivevamo nel 1950, su quella che allora era la nostra rivista teorica: “La conquista dei mercati esteri, l'ingaggio di lavoratori stranieri, l'importazione di materie prime, o infine l'esercizio di tutta l'impresa capitalistica in paese estero con elementi e fattori del posto, sono processi che non possono nel mondo capitalistico essere svolti con i puri mezzi economici, come il gioco della concorrenza, [ma implicano] il tentativo di regolare e controllare i prezzi di vendita e di acquisto, e mano mano i privilegi e le protezioni con misure di Stato o convenzioni interstatali. Quindi l'espansionismo economico diviene colonialismo aperto o dissimulato, appoggiato con poderosi mezzi militari. E' la forza che decide...” [9].

 

C'è poi un particolare tipo di merce che è bene, per il capitale, che transiti liberamente attraverso i confini: la forza lavoro. Qui, la concorrenza tra operai non colpisce con la delocalizzazione o con il basso costo del lavoro all'estero, ma, direttamente, con l'aumentata offerta di forza lavoro a prezzi stracciati sul mercato del lavoro interno. Il problema di fondo per il capitale, la questione che non si concilia con le sue esigenze, è l'esistenza degli esseri umani in carne ed ossa, che hanno necessità di soddisfare i loro bisogni elementari, ma che risultano essere enormemente in eccesso rispetto alle necessità di un loro impiego da parte del capitale. Così, per quanto la forza lavoro mondiale si diriga dove c'è un'alta concentrazione di capitale, ovunque siano diretti i flussi, là i proletari a milioni condividono sempre più la stessa condizione di incertezza e precarietà. Pensare che possa il protezionismo salvaguardare i “posti di lavoro” autoctoni è l'ultima illusione che il Capitale può seminare, nel mentre la sua macchina distruttrice continua a rivoluzionare tutti i vecchi rapporti sociali, certezze e “garanzie” comprese. Potrà al più risultare un capitolo del nuovo credo fascistoide, che chiamerà un'altra volta i proletari al sacrificio a difesa di improbabili patrie in un mondo che ormai il Capitalismo stesso ha unificato e integrato nel mercato e nella produzione, e che attende solo l'unificazione del proletariato mondiale sotto la direzione del suo partito rivoluzionario, per fare il salto alla società futura.



[1] K. Marx, “Discorso sul libero scambio”, in Appendice a K. Marx, Lavoro salariato e capitale, Editori Riuniti, p.106.

[2] K. Marx, Il Capitale, Libro Primo (“La cosiddetta accumulazione originaria”), Editori Riuniti, pp.813-814.

[3] Idem, p.819.

[4] K. Marx, Il Capitale, Libro Terzo (“Effetti della variazione dei prezzi”), cit., p.143.

[5] In K. Marx, Il Capitale, Libro Terzo (“Capitale monetario e capitale effettivo”), cit., p.575.

[6] Idem, p.157.

[7] K. Marx, Il Capitale, Libro Terzo (“Cause antagonistiche”), cit., pp.288-289.

[8] Secondo uno studio del 2005, una reintroduzione di barriere commerciali comporterebbe un ribasso molto cospicuo sulla crescita del Pil in termini reali in tutti i paesi. Ciò principalmente per la risposta restrittiva della politica monetaria all'aumento dei prezzi interni conseguente agli aumenti dei dazi (Bollettino Bce, febbraio 2009, pag.92).

[9] “Proprietà e capitale”, Prometeo, Serie II, n°1, nov.1950, p.20.

 

Vedi anche:

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2010)

 

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