A oltre dieci anni dall’introduzione dell’euro, gli economisti borghesi hanno scoperto che, da quel momento, s’è verificato uno “strano” fenomeno: un’ulteriore perdita di competitività dei paesi aggregati all’euro, mascherata da un tasso d’inflazione uguale per tutti i paesi dell’Unione europea, imposto dalla BCE (vale a dire, Germania-Francia), fissato centralmente ad un valore non superiore al 2% (indice armonizzato dei prezzi al consumo, che rappresenta una media ponderata dei diversi indici nazionali). Questo tasso d’inflazione, tenuto sotto controllo dall’autorità monetaria è considerato un indice di stabilità per quantificare la massa di denaro circolante, in funzione del Prodotto interno lordo potenziale (= quantità di beni e servizi che sarebbe possibile produrre in condizioni normali di pieno impiego) e della velocità media di circolazione del denaro.[1]  

Il grafico riportato in basso mostra le “Grandi variazioni di competitività di diversi paesi europei: come si legge, si tratta della “Stima del saggio di scambio reale dall’introduzione dell’euro nel 1999”, ovvero della “Media ponderata di un paniere di saggi di scambio bilaterali adattati ai prezzi relativi al consumo – I pesi sono derivati dai flussi del commercio manifatturiero e riguardano sia  il commercio bilaterale diretto sia la competitività con paesi terzi”. A giudicare dunque dal grafico, ci sarebbe stato un implicito aumento dei prezzi delle merci del settore manifatturiero in questi paesi, con una conseguente perdita di competitività degli stessi sui mercati internazionali [2]. Al di là del fatto che nessuno stato dell’Unione poteva autonomamente valutare e svalutare la propria moneta, le cause vanno cercate nella legge del valore scoperta da Marx: solo essa può aiutarci a svelare le contraddizioni relative alla perdita di competitività.

 

 

 

Dal grafico, si evince infatti come sia variato il rapporto di competitività in seno all’area dell'euro. Guardando le stime dei tassi di scambio reali, che l’Irlanda in dieci anni si sia portata a un livello di oltre il 20%, mentre la Germania si è collocata a -3%, dimostra uno scarto di competitività bilaterale di oltre il 23% in dieci anni. Che cosa è accaduto? E’ accaduto che si sarebbero abbassati i prezzi di produzione delle merci prodotte nei paesi con gli apparati produttivi più moderni – cioè con una più elevata composizione organica e tecnica del capitale (Germania e Francia, per quanto riguarda le economie più grandi), una maggiore produttività per un tasso di sfruttamento maggiore; mentre si sarebbero alzati nei paesi con apparati produttivi meno avanzati da un punto di vista capitalistico – cioè, con una più elevata presenza di imprese di piccole e medie dimensioni e/o impianti mediamente di più vecchia concezione e, di conseguenza, una più bassa composizione organica del capitale e minore produttività [3].

Caduta la foglia di fico degli equilibri monetari tra partner europei, le merci prodotte dai paesi più deboli dell’Eurozona si sono ritrovate “nude” (in quanto non potevano svalutare, né rivalutare le loro monete) di fronte alle altre merci e di fronte alla legge del valore – identificata dagli economisti borghesi più di due secoli fa e definitivamente inquadrata da Marx nel contesto generale dell’economia capitalistica e della sua transitorietà storica. “Nude” cioè di fronte al fatto che gli scambi tendono ad avvenire tra equivalenti (ossia tra elementi contenenti la stessa quantità di lavoro sociale oggettivato) e sono perciò progressivamente aumentate di prezzo, semplicemente perché il loro valore di scambio è mediamente maggiore delle stesse merci prodotte in Germania e in Francia (cioè è maggiore la quantità di lavoro mediamente necessaria per produrle, essendo l’apparato industriale che le produce mediamente meno efficiente).

In altre parole, a dispetto dei vari paracadute monetari, il rapporto tra i prezzi delle merci del settore manifatturiero ha manifestato lo scarto tra i valori. Così si è scoperto, grazie all’inflessibilità dei fatti, che le divise monetarie utilizzate nei PIGS prima dell’introduzione dell’Euro erano sottovalutate e che questa sottovalutazione favoriva le esportazioni e (mascherando il differenziale di produttività) manteneva “competitive” le loro merci sul mercato mondiale. Tra le diverse monete nazionali si stabiliscono infatti degli equilibri (sempre temporanei, in quanto relativi a determinate circostanze, il mutare delle quali li tramuta facilmente in squilibri) che consentono agli Stati con la moneta “forte” di vedere aumentati, solo per effetto del cambio, quei capitali investiti nei paesi la cui moneta è sottovalutata e di acquistare negli stessi le merci a condizioni vantaggiose. I medesimi rapporti monetari consentono specularmente agli Stati con la valuta più debole di vendere meglio le merci in essi prodotte e di attrarre l’investimento di capitali stranieri [4]. Persa dagli Stati nazionali aderenti alla “moneta unica” la possibilità di un utilizzo indipendente della leva monetaria, le merci prodotte nelle zone con una più bassa composizione organica del capitale hanno continuato a perdere di competitività rispetto alle altre; la loro esportazione, e con essa l'economia degli Stati in questione, ne ha sofferto e, complice la crisi generale del capitalismo, tali Stati sono stati costretti a indebitarsi (come facevano prima e come sono costretti a fare oggi) per mantenere i propri apparati produttivi in caduta libera. Specularmente, le nazioni con l’apparato industriale più moderno hanno tratto vantaggio dalla moneta unica e hanno affrontato meglio la crisi.

Uno Stato privo del controllo autonomo sulla moneta è esposto quasi senza difese alla concorrenza internazionale: il caso (per ora) più clamoroso è quello della Grecia, di cui  continuiamo ad occuparci [5] in quanto si prospetta anche l’eventualità di una sua uscita dall’ Unione monetaria, ma non deve sfuggire all’attenzione la recente fuga parziale degli investitori di fronte ai Titoli di Stato portoghesi. Un’unione monetaria come quella europea, accompagnata da un’unità politica fittizia, difficilmente potrà resistere a lungo di fronte alle crisi, sempre più acute e profonde, del capitalismo, poiché essa non solo non elimina la concorrenza, effetto di saggi di profitto differenti, tra gli Stati aderenti, ma permette, intrinsecamente, agli Stati più forti di incassare in breve tempo e per intero i frutti derivanti dalla superiorità del proprio apparato industriale, a scapito degli “alleati” più deboli.

Ovviamente, le politiche monetarie sono dei palliativi che possono soltanto dilazionare le contraddizioni del capitalismo, non certo eliminarle.

Il problema dei rapporti fra le monete, che a prima vista può apparire solo tecnico, maschera in realtà precisi rapporti politici (di forza) tra stati capitalistici e sottende anche a esplosive tensioni fra le classi. In altri termini: alla base dei problemi dei rapporti fra monete nazionali sta l’acuirsi della concorrenza sui mercati internazionali delle merci e dei capitali. Il mantenimento della parità non è possibile nel lungo periodo, in presenza di una diminuzione del valore delle merci di uno o più paesi concorrenti [6]. Le crisi monetarie non sono dunque che violente ricomposizioni degli squilibri degli scambi sul mercato mondiale e, alla base di essi, della produzione, e nello stesso tempo l'inizio di nuove e più catastrofiche crisi.



[1] E’ la borghese “teoria quantitativa della moneta”: per valutare la stima di crescita della moneta (aggregato monetario M3 in %), si somma l’inflazione programmata (2%) con il Pil potenziale (fissato al 2%) e si sottrae la velocità di circolazione di M3 rispetto al reddito (supposto negativo: - 0,5%, ovvero in riduzione).  Si ottiene 2%+2%-(-0,5%)= 4,5% (tasso percentuale dell’aggregato M3 richiesto). Cfr. Luigi Campiglio, Tredici idee per ragionare di economia, Ed. Il Mulino.

[3]  Stiamo parlando qui del rapporto relativo tra i prezzi delle merci del settore manifatturiero dei diversi paesi. Recentemente, è stato rispolverato, con borghesissimo spirito di solidarietà, il vecchio e dispregiativo acrostico PIGS, maiali, dalle iniziali di Portogallo, Italia, Grecia e Spagna (alla “I” viene assegnata la doppia valenza di Italia e Irlanda), un tempo utilizzato per indicare le economie dell’area mediterranea e oggi usato per additare quei paesi che versano nelle maggiori difficoltà economiche.

[4] Svalutare una moneta rispetto alle divise straniere equivale al mutamento della “ragione di scambio” sui mercati esteri: aumentano le esportazioni nella nazione che gioca sulla svalutazione, ma le importazioni si pagano di più; la svalutazione non riequilibra la “ragione di scambio”, la bilancia dei pagamenti non necessariamente viene  poi equilibrata e si potrebbe arrivare a successive svalutazioni e indebitamenti.

[5]  Vedi “Ultimatum ai proletari greci”, il programma comunista n. 1/2010, p.7.

[6]   Si veda il recente riaccendersi dello scontro tra USA e Cina sulla valutazione dello yuan.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2010)

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