All’articolo “Crisi e rivoluzione”, pubblicato su queste pagine nel 1974 e ripreso nel numero scorso, fa seguito quest’altro articolo, uscito sempre su queste pagine (n..../1975), che ne approfondisce i temi centrali: la non meccanicità del rapporto fra crisi economica e crisi sociale, il peso tremendo esercitato dall’opportunismo sul proletariato e, di conseguenza, il grave ritardo nella ripresa della lotta di classe anche solo al livello rivendicativo di difesa, la devastazione compiuta dallo stalinismo nel distruggere il partito mondiale del proletariato, la necessità della sua rinascita. Sono temi centrali ieri come oggi, ed è necessario che militanti, simpatizzanti e lettori li facciano propri, anche e soprattutto in un momento come questo, di così bassa tensione sociale.


 

 


Poco più di un mese dopo che a Mosca, in una sala del Cremino “in cui volteggiano ancora gli spettri esangui di statuti penali da vecchi codici zaristi”, si erano riuniti a congresso – il I Congresso dell’Internazionale Comunista – “i rappresentanti dell’ala più rivoluzionaria dell’umanità” [1], Lenin e Trotsky, in significativo e certo non casuale parallelismo, rispondevano a uno dei quesiti che saranno cinicamente sfruttati dai menscevichi e dai centristi di tutto il mondo, ma che in ogni caso erano posti alla teoria dalla rude voce dei fatti. Parafrasando Lenin, lo si potrebbe formulare così: perché è stato così facile, “facile come sollevare una piuma”, cominciare la rivoluzione socialista “nel paese di Nicola e di Rasputin”, mentre è “infinitamente più difficile cominciarla in Europa” (ma, inversamente, in Russia sarà molto più difficile, e in Europa infinitamente più facile, continuarla)? [2]

E, parafrasando Trotsky: come avviene il “fenomeno in apparenza inspiegabile” che, “ in contrasto con la direzione dello sviluppo capitalistico da ovest ad est, la rivoluzione proletaria si svolga da oriente ad occidente” [3], cioè dai paesi più arretrati d’Europa – la Russia, poi l’Ungheria, infine la Baviera – verso i più evoluti, lungo una catena snodantesi in senso opposto a quello che era stato il moto impetuoso di esportazione del capitale finanziario e, con esso, di trasformazione capitalistica di terre essenzialmente agrarie, tuttora chiuse nei ceppi di modi e rapporti di produzione pre-borghesi, e culminante alle soglie delle cittadelle, ben più dure da espugnare, dell’imperialismo europeo e mondiale? Era quella “incongruenza” (per dirla col secondo), era questa “contraddizione” (per dirla col primo), una smentita del marxismo e una condanna dell’Ottobre 1917, o invece una smagliante conferma di quello e una storica rivendicazione di questo?

Se oggi ci rifacciamo ai due scritti gemelli del 1919, non è tuttavia per cercar di capire il “fenomeno” la cui spiegazione teorica assillava la mente di Lenin al suo tavolo di lavoro moscovita e di Trotsky nel treno che, instancabile spola, correva da un capo all’altro della trama immensa della guerra civile, cioè il fenomeno della contraddizione fra l’arretratezza della Russia e il suo “salto” oltre la democrazia borghese” [4]; bensì per trovare la chiave del fenomeno inverso – di allora, e assai più, di oggi – , cioè la “contraddizione” fra il grado avanzatissimo di sviluppo capitalistico dell’Occidente e il suo permanere ostinato nel pantano della democrazia borghese, del suo ritardo pauroso nel saltarle oltre verso la rivoluzione socialista. È un tema di bruciante attualità, che abbiamo già affrontato in precedenza [5], ma che la vita stessa chiede di riprendere sul filo di formulazioni vecchie di 56 anni [si ricordi che questo scritto è del 1975 - NdR] ma fresche come tutte le pagine d’oro del marxismo.

 

I fattori complessi della crisi

La risposta al quesito, identica nei due testi citati, trova il suo sviluppo teorico più completo (il brano di Lenin è essenzialmente polemico e politico) in quello di Trotsky. In riferimento all’Inghilterra, “il più antico paese capitalistico d’Europa e del mondo, e insieme, dal punto di vista della rivoluzione proletaria, il più conservatore, soprattutto durante l’ultimo mezzo secolo”, vi si legge infatti: “Se il marxismo insegna che i rapporti di classe si generano nel processo di produzione, e che questi rapporti corrispondono a un certo livello di sviluppo delle forze produttive; se insegna altresì che tutte le forme di ideologia e, in primo luogo, la politica corrispondono a dati rapporti di classe, ciò non significa affatto che fra politica, schieramenti di classe e produzione esistano rapporti meccanici semplici, calcolabili mediante le quattro regole dell’aritmetica. Al contrario, i rapporti reciproci sono estremamente complessi. Il corso di sviluppo di un paese, incluso il suo sviluppo rivoluzionario, può essere interpretato dialetticamente solo a partire dall’azione, reazione ed interazione di tutti i fattori materiali e sovrastrutturali sia nazionali che mondiali, non mediante superficiali giustapposizioni o analogie formali”.

Appunto l’accumularsi di un groviglio di fattori oggettivi e soggettivi precedenti impediva allora alla curva di sviluppo della crisi economica di riflettersi direttamente nella curva di sviluppo della crisi rivoluzionaria nei paesi tuttavia – dal punto di vista delle forze produttive – più maturi per essa. Così, per uno dei tanti “capricci” apparenti della dialettica storica, era proprio “l’ingresso precoce dell’Inghilterra nella via dello sviluppo capitalistico e della pirateria mondiale”, con la posizione di privilegio così assicurata “non solo alla sua borghesia ma anche a una frazione della sua classe lavoratrice”, con il serbatoio di risorse controrivoluzionarie derivanti al capitalismo britannico da una lunga tradizione parlamentare e dall’arte, acquisita per suo tramite, del maneggio dei mezzi più raffinati di corruzione materiale e ideologica delle classi oppresse, a spiegare – senza che i marxisti vi trovassero una ragione di perdersi d’animo – “l’incongruenza fra lo sviluppo capitalistico della Gran Bretagna e il suo movimento socialista in quanto condizionato da una combinazione temporanea di forze storiche”.

Non diversamente, il gioco complesso dei rapporti di classe in Francia appariva chiaro nei suoi meccanismi apparentemente misteriosi non appena si mettevano in conto il tenace, caparbio, straordinariamente vitale e piccolo-borghese villaggio francese, il “vincolo di comuni memorie e tradizioni fra uno strato considerevole della classe operaia e gli elementi di sinistra della democrazia borghese” strettosi intorno ai ricordi perduranti del 1789 e del 1793, e l’ambivalenza tipica di una classe dominante che “da un lato seduce le masse popolari, compresi gli operai, con uno sfoggio drammatico di tendenze antidinastiche, anticlericali, repubblicane, radicali, massoniche, ecc., dall’altro sfrutta i vantaggi derivanti dalla sua primogenitura e dalla sua posizione di usuraia mondiale per rallentare lo sviluppo di nuove e rivoluzionatrici forme di industrialismo in patria”, spedendo i suoi capitali all’estero. Perciò, “solo un’analisi delle condizioni economiche e politiche dell’evoluzione della Francia, e su scala non solo nazionale ma internazionale, spiega perché il proletariato francese, frantumatosi dopo l’eroica eruzione della Comune in gruppi e sette diversi, anarchici da un lato, ‘possibilisti’ dall’altro, si sia dimostrato incapace di lanciarsi in un’aperta azione rivoluzionaria di classe, di lottare direttamente per la conquista del potere”.

Esisteva infine un parallelismo evidente fra il vertiginoso slancio capitalistico della Germania dopo la guerra franco-prussiana – tardivo rispetto a Inghilterra e Francia, ma appunto perciò avvantaggiato dal possesso di una tecnologia ultramoderna e da una “scienza” dell’organizzazione e combinazione ignota alle primogenite della rivoluzione industriale – e la crescita non meno vertiginosa del movimento operaio organizzato e del livello di vita delle grandi masse, fino alla trasformazione della socialdemocrazia, gioiello della II Internazionale nei suoi anni migliori, in “vivente incarnazione del feticismo organizzativo” al servizio e nell’interesse della controrivoluzione capitalistica [6].

La spiegazione, tuttavia, non poteva esaurirsi per Trotsky nell’analisi delle particolarità dello sviluppo storico nei principali paesi dell’Occidente; era più generale e assumeva quasi l’aspetto di una legge (il concetto, come abbiamo ricordato in Crisi e rivoluzione, sarà ripreso in altra forma al III Congresso dell’Internazionale nel 1921): “Nel suo sviluppo ‘naturale’, la produzione capitalistica allarga costantemente la riproduzione… La produzione capitalistica allargata approfondisce le contraddizioni del capitalismo. Il proletariato cresce numericamente, diventa organizzato e istruito, e così forma una potenza sempre maggiore. Ma ciò non significa affatto che la sua classe avversa, la borghesia, se ne stia ferma a battere il passo. Al contrario, la produzione capitalistica allargata comporta un aumento simultaneo del potere economico e politico della grande borghesia. Essa non si limita ad accumulare ricchezze colossali, ma accentra nelle proprie mani l’apparato amministrativo dello stato, lo subordina ai suoi fini. Con arte sempre più raffinata raggiunge i suoi scopi alternando alla spietata ferocia l’opportunismo democratico. Il capitalismo imperialistico può sfruttare tanto meglio le forme della democrazia, quanto più la dipendenza degli strati piccolo-borghesi della popolazione si fa pesante e insormontabile”, e, grazie al suffragio universale, questa dipendenza economica si converte in dipendenza politica.

“Una concezione meccanica della rivoluzione sociale riduce il processo storico a un aumento numerico ininterrotto del proletariato e a un suo rafforzamento organizzativo continuo”, finché, abbracciando “la stragrande maggioranza della popolazione”, senza una battaglia e senza neppure una scaramuccia esso prende in mano la macchina dell’economia borghese e l’apparato statale, come un frutto maturo per essere colto. In realtà, l’aumento del ruolo produttivo del proletariato corre parallelo all’aumento del potere della borghesia. Man mano che il proletariato si unifica sul piano organizzativo e si educa sul piano politico, la borghesia è costretta da parte sua a perfezionare il suo apparato di dominio e a levare contro il proletariato sempre nuovi strati della popolazione, incluso il cosiddetto terzo stato degli intellettuali di professione, che giocano un ruolo così importante nella meccanica dell’economia capitalistica. I due avversari si rafforzano simultaneamente.

“Quanto più un paese è, dal punto di vista capitalistico, potente – a parità di condizioni – , quanto maggiore vi è l’inerzia dei rapporti ‘pacifici’di classe, tanto più forte deve essere la spinta necessaria per strappare le due classi ostili – proletariato e borghesia – allo stato di equilibrio relativo, e trasformare la lotta di classe in guerra civile aperta. Una volta divampata, la guerra civile, a parità di condizioni, sarà tanto più aspra e rabbiosa, quanto più alto è il livello di sviluppo capitalistico raggiunto dal paese dato; quanto più i nemici sono forti e organizzati, tanto maggiore è il volume di risorse materiali e ideologiche a disposizione di entrambi” [7].

 

 

1919 e oggi

 

 

Guardiamoci a nostra volta dall’applicare meccanicamente alla situazione d’oggi, prescindendo da tutto il complesso di fattori che alterano l’instabile equilibrio fra le classi, un quadro di una lucidità così profetica (esso dà ragione sia della “rivoluzione mancata” o neppure iniziata in Occidente allora, sia delle genesi del fascismo dopo la controrivoluzione sotto gestione socialdemocratica).

A oltre mezzo secolo da allora [si ricordi sempre che il testo è del 1975 – NdR], l’inerzia delle tradizioni democratiche e riformiste è cresciuta nella stessa misura in cui la controrivoluzione staliniana provvedeva a disorganizzare il proletariato come forza di classe e a deformare o impedirne “l’educazione politica” distruggendone il partito rivoluzionario. Il proletariato è, di certo, numericamente ingrossato, ma “i numeri pesano sulla bilancia solo quando sono uniti dall’organizzazione e guidati dalla conoscenza”, e appunto questi due poli inscindibili del binomio (giacché anche l’organizzazione senza conoscenza non pesa sulla bilancia delle lotte di classe, come non pesa su di essa la conoscenza senza organizzazione) stalinismo e socialdemocrazia hanno lavorato insieme a demolire. Le tradizioni nazionali della Francia possono essere impallidite, Westminster non essere più il faro abbagliante di un tempo, il lustro del “feticismo organizzativo” tedesco essersi appannato nella lunga lacerazione della Germania: altre risorse materiali e ideologiche di asservimento, diseducazione, corruzione e paralisi della classe sfruttata ne hanno preso il posto, ancor più viscide e quindi, nei loro effetti lontani, più tenaci: magari la democrazia… di reparto, di fabbrica, di scuola, di quartiere, di comune, di regione. Il mito dell’individuo sovrano e della sua consultazione è negato ogni giorno più dalla concentrazione e centralizzazione crescente dell’economia capitalistica e del suo apparato di dominio, così come il mito della patria è negato ogni giorno più dall’internazionalità del capitale; eppure, entrambi vivono, tenacemente inerti, nella “coscienza capovolta” delle “organizzazioni operaie”. L’intera esperienza dei dopoguerra mondiali si riassume nella doppia lezione che la “pace” capitalistica è tutta un rosario di conflitti rinascenti sul piano locale, regionale o addirittura continentale, e che le riforme interne sfornate a getto continuo dalla borghesia, anche quando trovano un minimo di attuazione, appaiono vanificate dall’insicurezza crescente del terreno su cui poggiano; eppure, nulla è moneta più corrente dell’ideologia della coesistenza pacifica a base di commerci “equi”, nulla è prassi più istituzionalizzata della contrattazione di salari, occupazioni, diritti “garantiti” fra sindacati, organizzazioni padronali e governi. Queste risorse non sono più fattori puramente sovrastrutturali: sono esse stesse forze materiali oggettive radicate e incorporate nel “sistema”, strumenti di mobilitazione della classe operaia contro se stessa [...]; veicoli dell’opera sottilmente riformistica che permette di condire il rilancio dell’economia dopo i periodici bagni di sangue con i mille espedienti previdenziali e assistenziali la cui gamma, “laddove la produzione industriale fiorisce, crea per gli operai occupati […] un nuovo tipo di riserva economica che rappresenta una piccola garanzia patrimoniale da perdere, in certo senso analoga a quella dell’artigiano e del piccolo contadino”: ragione per cui “il salariato ha qualcosa da rischiare, e questo (fenomeno d’altra parte già visto da Marx, Engels e Lenin per le cosiddette aristocrazie operaie) lo rende esitante e anche opportunista al momento della lotta sindacale e, peggio, dello sciopero e della rivolta” [8].

Chi quindi pretendesse di misurare il grado di maturazione delle premesse della rivoluzione col metro di puri diagrammi statistici riflettenti le contraddizioni interne del modo di produzione vigente, non mettendo sulla bilancia il peso massiccio delle controforze caparbiamente operanti in seno alla classe lavoratrice, si vieterebbe la comprensione del terribile gap che divide tuttora recessione capitalistica e rivoluzione proletaria.

L’ampiezza, la profondità e la durata delle devastazioni perpetrate dall’opportunismo staliniano e socialdemocratico si giudicano ripercorrendo anche a volo d’uccello l’arco di un cinquantennio [1919-1975 - NdR] di crisi ricorrenti. Quando Trotsky scriveva le righe che abbiamo riprodotto, la forza d’inerzia del conservatorismo sociale persisteva, ma era impotente a trasformare il movimento operaio organizzato – come è avvenuto poi e avviene oggi – in un mucchio di rovine, e il mondo borghese postbellico in un paradiso di ricostruzione ordinata all’insegna dell’affluent society e del welfare state. Ed è vero che, “più lenta a venire di quanto non ci fossimo immaginati”, essendosi scontrata nel baluardo nemico dello stato forte, prima democratico e poi fascista, la rivoluzione nei paesi a capitalismo stramaturo era stata “infinitamente più difficile da cominciare” che nella “barbara Russia”. Ma alla borghesia (e per delega ai suoi lacchè socialdemocratici) lo spegnerne le fiamme sul nascere era costato enormi fatiche. La vittoria dello stalinismo precedette di poco più di un biennio, al grido della “stabilizzazione del capitalismo”, il Venerdì Nero americano e mondiale [la crisi del 1929 - NdR]: dai brevi sussulti non uscì la rivoluzione proletaria, ma l’ascesa irruente del nazismo. Poi fu la guerra, e neppure un sussulto (come, dimentico delle sue pagine del 1919 e del 1921, se l’era atteso Trotsky) venne a contrastarla: che diciamo? in nome o del “socialismo in un paese”, o della democrazia universale, scorsero fiumi di sangue proletario offerto in gratuito olocausto. Con questo segno in fronte è nato ed è cresciuto il secondo dopoguerra, orgia di accumulazione mai vista di capitale sulle ceneri del massacro, baccanale della democrazia forte e insieme ruffianescamente morbida. Sul piano delle organizzazioni immediate della classe operaia, l’opportunismo all’ennesima potenza dei partiti che le controllano ha dato via libera – non solo non contrastandolo ma favorendolo – a un nuovo ciclo di integrazione nello Stato, e questo, sul piano economico come su quello politico, a un nuovo ciclo di accumulazione e concentrazione capitalistica. Al peso crescente del lavoro morto corrisponde, è vero, il peso numerico crescente del lavoro vivo; ma quello è in moto aggressivo, e questo, sia pure relativamente, è in quiete.

Constatando nel 1952 che eravamo al centro della depressione, e che non era concepibile una ripresa rivoluzionaria se non nel corso di molti anni, il nostro Partito scriveva: “La lunghezza del periodo è in rapporto alla gravità dell’ondata degenerativa, oltre che alla sempre maggiore concentrazione delle forze avverse capitalistiche. Lo stalinismo assomma i caratteri più deteriori delle due ondate precedenti dell’opportunismo, parallelamente al fatto che il processo di concentrazione capitalistica oggi è di gran lunga superiore a quello immediatamente seguente alla prima guerra mondiale”. Forse sarebbe più esatto dire che i due fenomeni si condizionavano a vicenda, cosicché il processo di concentrazione e accumulazione capitalistica poteva riprendere su una scala senza precedenti perché nel corpo dell’unica classe capace di contrastarne la curva nella “guerriglia quotidiana” per il salario e per una minor durata del lavoro e di spezzarla nella guerra civile rivoluzionaria, il cuore pulsante, il partito mondiale, era stato preventivamente trafitto, e della ripresa incontrastata di quel processo si nutriva l’opportunismo prosperante sulle “spese di rappresentanza” dell’ennesimo boom produttivo.

Dalla crisi del Venerdì Nero del 1929 l’America era uscita, nella paralisi del movimento comunista internazionale dopo il 1926, avviando nel New Deal la prassi ormai rituale della collaborazione governo-imprenditori sindacati. Nella crisi del 1974-1975 [che ha aperto il ciclo recessivo in cui siamo immersi anche oggi, 2008 - NdR] il capitalismo è entrato con quella stessa collaborazione già in atto. Può permettersi di “garantire” salari, pensioni, occupazioni, perché gli è stata garantita – e con buon anticipo –

la sopravvivenza. Non basta ancora: in piena crisi, il grido dal cuore dei sindacati e dei partiti operai (investimenti, ristrutturazione, efficienza amministrativa) è solo formalmente diverso da quello del presidente della FIAT Agnelli nell’ormai celebre intervista al Corriere della Sera: “Produttività aumentata!” e “Stato forte!” (democratico, certo, ma robusto – contro la criminalità, l’assenteismo, il parassitismo, per intanto; contro eventuali conati rivoluzionari domani). Nell’ora del pericolo, il capitalismo ritorna… all’epoca del passaggio dalla manifattura alla grande industria, quando, come ricordava Marx, il dottor Ure strillava che “bisogna in qualche modo metter ordine” e ”Arkwright instaurò l’ordine” [9]. Ma gli Arkwright moderni hanno bisogno al loro fianco, come indispensabile aiuto, dei portatori “operai” del Verbo della “responsabilità”, dell’autodisciplina e della “cogestione della crisi” aziendale e nazionale. Non ha forse ripetuto per l’ennesima volta il segretario del PCI Berlinguer (Unità del 16/2) che “efficienza, rigore e stabilità amministrativa e politica al servizio del popolo italiano [ma ciò vale per tutti i popoli di tutti i Berlinguer del mondo!] possono venire garantiti oggi solo andando a sinistra, cioè con il contributo oggettivamente insostituibile del PCI, dei suoi legami con le classi lavoratrici e dei suoi requisiti di onestà, di competenza, di lealtà verso gli alleati, di disinteresse, di dedizione appassionata ai reali interessi dei lavoratori e del Paese?” [non sembra di sentir parlare Veltroni o Bertinotti?! - NdR]. L’opportunismo non ha solo “lasciato fare” all’accumulazione mostruosamente allargata del capitale: le ha dato mano.

Perciò è così lenta a rinascere perfino la lotta economica di resistenza contro il capitale; perciò il capitalismo ha potuto accumulare, dopo il bagno di giovinezza della seconda guerra imperialistica, una dotazione gigantesca di forze produttive (o, alternativamente, distruttive) senza che la classe chiamata storicamente ad abbatterlo abbia anche solo tentato di prenderne autoritariamente e definitivamente possesso, dopo essersi riappropriata il suo programma, i principi della sua strategia e della sua tattica, la sua organizzazione di partito. Di qui deriva, insomma, il pauroso ritardo della crisi politica di classe rispetto alla crisi sociale ed economica di regime.

 

 

La vera “occasione” da non perdere

 

 

L’obiezione che constatare questo ritardo significa darsi perduti vale quella di coloro che nel 1921, dal monito a non adagiarsi nell’illusione che la borghesia dei paesi capitalisticamente evoluti, essendo stata condannata dal tribunale della storia, attendesse soltanto l’usciere per essere messa alla porta, traevano la conclusione che Lenin e Trotsky – loro soprattutto perché i più intolleranti della “frase” demagogica – avevano perso… la fede nella carica esplosiva della crisi postbellica e nelle potenzialità rivoluzionarie del proletariato, almeno europeo. Per i marxisti, i fatti della storia, come le cifre della statistica, non conoscono né l’ottimismo né il pessimismo: essi significano un richiamo severo ai compiti, sempre vasti ed oggi immensi, da affrontare e da assolvere, sulla linea di presupposti strategici e tattici ben definiti come in funzione dei rapporti di forza e della prospettiva dei loro sviluppi, di fronte a un avversario i cui tentacoli, grazie all’opportunismo, si sono così profondamente avvinghiati alle membra della classe operaia. Alla lunga, la crisi economica agirà da “acceleratore” sugli antagonismi che oggi covano, ancora inespressi, nel grembo del modo di produzione capitalistico e della società borghese: lo stesso slancio frenetico che le forze della conservazione sociale cercano di imprimere a rinnovati cicli di produzione e riproduzione allargata del capitale inasprirà il contrasto fra il volume di quest’ultima e la ristrettezza delle basi private dell’appropriazione dei prodotti e delle basi nazionali della loro produzione a caccia di un posto su un mercato mondiale fitto di concorrenti tutt’altro che pacifici, e sconvolgerà gli equilibri faticosamente raggiunti aggravando gli squilibri non mai sopiti, distruggendo “garanzie” economiche e sociali che sembravano eterne e mandando in fumo “riserve patrimoniali” che potevano apparire acquisite, anche in casa di proletari, come altrettanti “diritti” scolpiti su tavole di bronzo. Lentamente, ma con bruschi soprassalti, sveglierà dal suo torpore la lotta rivendicativa e tenderà a spezzare gli argini che vorrebbero disciplinarla frantumandola o contenendola.

Appunto perciò è necessario guardare coraggiosamente in faccia, sin da ora, all’inerzia dei fattori che ritardano la ripresa di classe: non v’è peggior disfattismo, oggi più che mai, della faciloneria di chi grida: “Non v’è più spazio per il riformismo!”, o “Le premesse oggettive della rivoluzione sono tutte presenti; non manca che la direzione rivoluzionaria!”. La prima tesi è falsa e, appunto come tale, paralizzatrice; quanto alla seconda, foss’anche vera, quella “mancanza” sarebbe non già un’inezia, ma più della metà del tutto. “La rivoluzione non si fa su ordinazione; si sviluppa”, diceva Lenin nel maggio 1917. “Le rivoluzioni non si fanno, si dirigono”, scriveva un nostro testo del 1921. Ma lavorare a “svilupparle” e “dirigerle” significa aver saputo prepararvisi a tempo, e questa preparazione né si compie in vitro, né si esaurisce nella formazione teorica, politica, organizzativa di “quadri” ben selezionati; si crea nell’urto quotidiano con le forze ostili, da quelle che sabotano la lotta più modesta per un salario meno avaro, una giornata di lavoro meno bestiale, un sussidio di disoccupazione non equivalente a una condanna a morte, fino a quelle che impediscono il salto di qualità dalle battaglie economiche sparse e compatibili con l’esistenza del regime borghese alla battaglia politica generale per abbatterlo, incanalandole nell’alveo conservatore della democrazia; si cementa nello scontro con le “inerzie” della lotta trade-unionista per assicurarle un minimo di autonomia di classe e per ridestare nei proletari più combattivi il senso, ottenebrato da mille veli ideologici e “benefici” materiali, dell’antagonismo fra capitale e lavoro. Si compie, insomma, attraverso una faticosa risalita dal punto più basso della tensione sociale, nella coscienza lucida e mai “disarmante” delle responsabilità presenti e future ch’essa implica.

Il capitalismo può uscire da una crisi della quale noi avevamo previsto esattamente la data solo creando le premesse di crisi più vaste e profonde e, al limite, di un terzo conflitto imperialistico – oggi soltanto minaccia, domani realtà feroce. Se c’è un “tram da non perdere”, non è quello di una crisi rivoluzionaria di cui si pretenda di possedere tutte le condizioni oggettive – salvo una, cioè l’essenziale – , ma quello di una preparazione dei suoi elementari presupposti soggettivi, che non cadono dal cielo e che scaturiscono dalla nuda terra dei conflitti sociali alla sola condizione che il partito, per embrionale che sia, la fecondi con la sua azione battendosi con eguale tenacia per gli obiettivi immediati e per gli scopi finali del movimento proletario, accettando il terreno delle lotte rivendicative e costruendo in esse e di là da esse il terreno della guerra di classe per la rivoluzione comunista.

È questa la “grande occasione” che, malgrado tutto, la crisi economica in corso offre all’avanguardia proletaria.

 
 
Note:

1. Grandi giorni, maggio 1919, ripubbl. in Trotsky, The First Five Years of the Communist International, ed. Plough Press, Londra, 1973, p.72.

2. Le frasi citate provengono dal Rapporto sulla guerra e la pace, 7 marzo 1918, Opere, XXVII, pp. 84 e 81, ma ricorrono nell’articolo La III Internazionale e il suo posto nella storia, 15 aprile 1919, Opere, XIX, p. 282, al quale qui ci riferiamo.

3. In viaggio: Pensieri sulla marcia della rivoluzione, 29 aprile – 1 maggio 1919, op. cit., pp.85.

4. La III Internazionale ecc., loc. cit., p. 280.

5. Crisi e rivoluzione, in “Il programma comunista”, nr.14/1974, ripubblicato sul n. 1/2008.

6. “La storia si è così configurata – si legge in un articolo di poco precedente (Una rivoluzione strisciante, 23 aprile 1919, op. cit. p.69) – che, nell’epoca della guerra imperialistica, la socialdemocrazia tedesca doveva rivelarsi come il fattore più controrivoluzionario della storia moderna. Ma la socialdemocrazia non è un accidente; essa non è caduta dal cielo, ma è stata creata dagli sforzi della classe lavoratrice tedesca durante decenni di ininterrotta costruzione e adattamento alle condizioni prevalenti nello stato capitalista-junker. L’organizzazione di partito e i sindacati ad essa legati attinsero dall’ambiente proletario gli elementi migliori, più energici, plasmandoli poi psicologicamente e politicamente. Quando scoppiò la guerra, e perciò quando venne il momento della massima prova storica, accadde che l’organizzazione ufficiale operaia agì e reagì non come l’organizzazione di combattimento del proletariato contro lo stato borghese, ma come un organo ausiliario dello stato borghese al fine di disciplinare il proletariato. La classe operaia si trovò paralizzata, perché su di essa gravava non solo tutto il peso del militarismo capitalistico, ma l’apparato del suo stesso partito. Le sofferenze della guerra, le sue vittorie, le sue sconfitte, ruppero la paralisi della classe operaia tedesca, la liberarono dalla disciplina del partito ufficiale. Questo si spezzò in due. Ma il proletariato tedesco rimase senza un’organizzazione rivoluzionaria di combattimento. Una volta di più la storia svelò al mondo una delle sue contraddizioni dialettiche: proprio perché nell’epoca precedente la classe operaia tedesca aveva speso il massimo della sua energia nella costruzione di un apparato organizzativo autosufficiente, che occupava il primo posto nella II Internazionale, proprio perciò, in una nuova epoca, al momento del passaggio alla lotta rivoluzionaria aperta per la conquista del potere, la classe operaia tedesca si dimostrò, dal punto di vista organizzativo, completamente inerme”.

7. In viaggio..., pp.81-82.

8. Partito rivoluzionario e azione economica (1952), ora in Partito e classe, Edizioni Il programma comunista, Milano 1972, p.124.

9. Il dott. Andrew Ure, nella prima metà dell’800, fu uno dei più accaniti sostenitori del libero-scambismo e del capitalismo inglese, mentre Arkwright era l’industriale e inventore inglese che, nella seconda metà del ‘700, attraverso il successivo perfezionamento di macchine per la filatura, pose le basi dello sviluppo dell’industria capitalistica. Quanto al “doppio grido” di Agnelli non sembri una smentita della teoria di Marx che “l’autorità nella fabbrica e quella nella società, in rapporto alla divisione del lavoro, sono in ragione inversa l’una dell’altra”, perché lo “stato forte” non annulla né l’anarchia dei produttori indipendenti in patria, né la “divisione del lavoro” fra i partiti nella gestione degli interessi comuni, ed esalta l’anarchia delle nazioni produttrici sull’arena mondiale.

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2008)

 

We use cookies

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.