La prima parte di quest’articolo è uscita sul numero 6/2008 di questo giornale

 

Breve digressione sulla finanza russa

Ancora la scorsa estate gli analisti spendevano le proprie parole per affermare la solidità del mercato finanziario russo: “Non si esclude che l’estate sarà piuttosto favorevole per il mercato russo: potrebbe ripetersi lo scenario del 2006, quando dopo la correzione di maggio il mercato russo è cresciuto per oltre sei mesi di seguito. Al momento la situazione è ancora più favorevole, rispetto a due anni fa […]”.[1]

A pochi mesi di distanza invece, come svegliatisi da un lungo sogno, gli stessi analisti ci informano che la situazione è precipitata: “In particolare, la Russia ha registrato nel 2008 un saldo passivo tra le entrate e le uscite di capitali per 129,9 miliardi di dollari. La Banca centrale russa ha precisato che lo scorso anno erano state registrate entrate per 83,1 miliardi di dollari. È la più consistente fuga di capitali registrata da Mosca dal 1994. Nel solo quarto trimestre del 2008, la stima delle uscite nette di capitali è di 130,5 miliardi di dollari[2]. E ancora: “Se il greggio dovesse costare non più di 30 dollari al barile – uno scenario possibile nel caso di una forte recessione in Cina – la Russia rischierà di registrare nel 2009 una crescita economica ‘zero’, rischiando addirittura di passare nel quadrante negativo. Per coprire le pericolose falle nel bilancio pubblico il Governo non potrà fare a meno di ridurre la spesa sociale (si prospetta una dura lotta tra la Duma e l’esecutivo) e il Cremlino dovrà rivolgersi per i prestiti al mercato del debito internazionale, oppure togliere i sigilli dal Fondo di riserva. In questo caso, alla fine del 2009,rimarrà poco o niente delle riserve finanziarie accumulate dalla Russia negli anni del boom dei prezzi petroliferi[3]. E, se non si fosse capito quanto fiato hanno ancora le finanze pubbliche russe, eccovi serviti: “Dal punto di vista di molti analisti finanziari l’utilizzo delle risorse per stabilizzare la situazione interna nelle condizioni dello choc esterno rappresenta una linea corretta. In un periodo a breve termine una riduzione delle riserve non dovrebbe avere conseguenze esageratamente negative […]. Ciononostante, i problemi possono cominciare se questa strategia potrebbe essere usata per 1-1,5 anni.”[4]

Il quadro è il medesimo di quello della sfera della produzione e non potrebbe essere diversamente: solo l’inutile analisi economica politica borghese può separare ciò che invece è intimamente unito. La tanto decantata “tigre russa”, in realtà, in questi ultimi dieci anni, ha solo faticosamente tentato di risalire la china dopo i disastri dell’era eltsiniana. Gli indici della produzione e della finanza non hanno fatto in tempo a mettere il naso fuori dalla linea dei precedenti massimi del 1992 che sono subito crollati nel baratro della recessione. Le cifre che si rincorrono in questi giorni ci permettono di confermare che le luci di cui brillavano i dati macroeconomici russi non erano i riflessi di una scintillante potenza economica, ma solo i fuochi fatui di una bolla finanziaria che si aggirava nefasta per l’intero globo.

Vogliamo ora soffermarci per un attimo sulla guerra in Georgia, scoppiata l’estate scorsa. Da tutte le parti, si è parlato di “guerra nazionale” e di “guerra per il petrolio”. Sicuramente questi fattori sono presenti, ma ci permettiamo di affermare che il casus belli, il motivo per cui questa guerra è stata scatenata il giorno dell’inaugurazione dei giochi olimpici di Pechino, proprio quando massima era l’attenzione dei mass media, deve rintracciarsi da un'altra parte: è stata soprattutto una “guerra finanziaria”. Che cosa intendiamo dire?

Dopo la guerra in Georgia, l’indice della borsa di Mosca è letteralmente crollato e tutti gli analisti sono concordi nell’affermare che sono i capitali stranieri a essersene andati. Il mondo occidentale, e in primo luogo gli USA, avrebbe avuto difficoltà a ritirare così repentinamente tanti capitali dalla Borsa russa (tanto da far crollare l’indice da quota 2000 a quota 300 in un battibaleno), nel clima di “sereno confronto pacifico” che vigeva prima della guerra georgiana. Totalmente diverso è il contesto nel quale i capitali si ritirano da una Borsa, non diciamo ancora di una nazione apertamente nemica, ma di un paese con cui si ha avuto uno scontro armato, anche se per interposta nazione. La guerra georgiana infatti è scoppiata apparentemente senza un motivo: ovvero, i motivi di tensione in quella terra esistevano identici i giorni precedenti il conflitto ed esistono ancora oggi, dopo la guerra, quasi per nulla mutati. L’unica materiale e concreta conseguenza che ha avuto la guerra georgiana è stata la fuga dei capitali dalla Russia, e tale “nefasto” fenomeno è stato anche più volte stigmatizzato dal presidente Medvedev e dal ministro delle Finanze Kudrin.

Avremo modo di tornare sulla questione e di tirare le conclusioni: ora però vogliamo meglio osservare la nazione russa dal punto di vista delle classi in gioco e del loro interagire.

 

Le classi in gioco: la borghesia

Oggi, dopo lo tsunami del 1991, la classe borghese in Russia è la classe vittoriosa: anzi, nella sua dinamica impersonale, essa stessa è stata alla base di quello tsunami. Chiederà qualcuno: “Allora affermate che la classe borghese non esisteva in Russia prima di tale evento? Allora ammettete che nel 1991 abbiamo assistito alla genesi della classe borghese russa, genesi brutalmente interrotta dai fatti rivoluzionari nell'ottobre 1917?”. La nostra risposta a queste domande è chiaramente negativa. Sono proprio gli accadimenti successivi al crollo dell'URSS (come avviene in un esperimento di laboratorio) a dimostrare l'inconfessabile verità, da noi sempre sostenuta ed enunciata: la classe borghese russa negli ultimi 60 anni si è mimetizzata, calzando il colbacco e i baffoni del prode Stalin. Dopo aver sconfitto la rivoluzione a pochi anni dal suo trionfo, essa ha proceduto, quel tanto che bastava tinta di rosa, a dispiegare pienamente le ali e a instaurare il modo di produzione capitalistico sullo sterminato territorio russo (e oltre).

“Come avviene in un esperimento di laboratorio”, dicevamo: infatti, con la “lente temporale” della storia possiamo interpretare i fatti di Russia del 1991 come un gettare la maschera da parte della borghesia. Chi sono infatti gli attuali borghesi russi? Naturalmente, essi non saltano fuori da un magico cilindro, e non sono neanche da imputare all'improbabile decisione di rientrare in patria delle migliaia di russi e dei loro attuali discendenti, che, in varie ondate fra la fine dell'Ottocento e gli inizi del '900, hanno lasciato la terra natia per i paesi “capitalistici”. E allora chi saranno mai?

Scrive un giornalista borghese, a dimostrazione che ormai neppure i borghesi riescono a sostenere in maniera convincente la favola del socialismo in Russia (se non per biechi confronti elettorali): “se un professore vede un ippopotamo e dichiara che si tratta di una giraffa, sarà il caso di assegnarli una cattedra di zoologia?” [5]. Bella domanda! Ma dunque, se gli “ippopotami borghesi” gestivano le intraprese, utilizzavano il denaro come mezzo di scambio, gestivano i capitali delle imprese frutto del pluslavoro estorto, pagavano salari ai propri operai (già, esistevano gli operai!), abitavano in case più o meno lussuose in quartieri diversi da quelli proletari, avevano un tenore di vita ben al di sopra della vita di stenti di operai e contadini, utilizzavano il mercato internazionale per i propri scambi di merci e capitali, agivano come seconda potenza imperialistica del pianeta, e via di seguito, be’, è possibile definirli “giraffe comuniste”? E a chi ha raccontato per tanti decenni la grande menzogna dell'“ippopotamo” trasformato in “giraffa” possiamo dare... la “cattedra di zoologia”?

L'attuale compagine borghese russa ha una triplice origine, tutta in piena continuità con il passato. I primi appartenenti alla “borghesia contemporanea” sono gli uomini della nomenclatura sovietica, gli uomini del PCUS. Un secondo apporto viene direttamente dalle alte cariche dirigenziali delle varie industrie produttive: i direttori di fabbrica e i vari manager. Infine, la criminalità, che stava dietro al mercato nero sin dai tempi “sovietici”, ha offerto un ulteriore bacino da cui selezionare forze nuove. Questo apparente cambiamento da “burocrati” (come erroneamente venivano definiti gli uomini al potere in Russia) a borghesi è avvenuto utilizzando gli stessi uomini: neppure, si badi, generazioni diverse, ma proprio gli stessi uomini. Via i più esposti, tutti gli altri sono saliti sul carro della loro classe e hanno spinto il processo fino alla rottura delle vecchie “convenzioni”, ormai logore – né più né meno quello che è successo in Italia, grosso modo negli stessi anni: via i più compromessi, tutti gli altri li troviamo ancora felici e pasciuti a grufolare nella melma. Alla faccia della “rivoluzione”, come sono stati definiti i fatti di Russia del 1991!

Dedichiamo ancora qualche parola alla criminalità, allo scopo di sbugiardare il metodo d’analisi borghese. Essa viene presentata dalla vulgata giornalistica come il prodotto dell'accumulazione originaria, scimmiottando così anche le categorie marxiste: come il prodotto dell'irrompere del modo di produzione borghese occidentale nel “mondo comunista sovietico” [6]... E hanno ragione, ma per il motivo sbagliato. Infatti, la criminalità ha sì ragione di esistere in un mondo dove dominano i valori di scambio e non i valori d'uso: ma proprio per questo la criminalità è figlia del sistema capitalistico “sovietico” e non di quello “capitalistico” eltsiniano. Lo sviluppo del mercato nero è cresciuto di pari passo con la crescita del capitalismo in Russia e da esso ha tratto sia il prodotto del proprio commercio sia la ragione di esistere. La macchinosità del sistema centralizzato “sovietico” creava la necessità di trovare altri canali di distribuzione delle merci rispetto a quelli ufficiali, e a ciò si sommava il fatto che le esigenze della borghesia “sovietica” trovavano il naturale sfogo nell'investimento dei propri capitali nel mercato nero. Il meccanismo ritornava interessi agli investitori e dunque dava alla borghesia la possibilità di aumentare notevolmente il proprio tenore di vita e i propri consumi. Tutti erano implicati nel mercato nero, dai dirigenti di partito a qualsiasi livello, ai direttori e manager di fabbrica, fino agli operai e contadini: questi ultimi poi accedevano al mercato quasi esclusivamente come consumatori. “Illegale” il mercato era solo per la facciata, ma la sua presenza era tanto indispensabile allo Stato russo quanto la necessità di “sfamare e vestire” la propria popolazione.

Certo, gestire il mercato nero non contempla, almeno per il versante della strada, la giacca e la cravatta; così, caduta la maschera “socialista”, questi criminali si sono fatti strada per investire i propri ingenti capitali, accumulati in decine di anni, con un po' più di veemenza (ma solo un poco di più) rispetto ai loro colleghi “onesti”, il versante degli uffici (e spesso in combutta fra loro). Insomma, da qualunque parte la si rigiri, ormai la storia ha emesso il suo verdetto, e il verdetto dà piena ragione al nostro partito su tutti gli aspetti della nascita e dello sviluppo del modo di produzione capitalistico in Russia, durante e dopo la controrivoluzione staliniana.

Quello a cui abbiamo assistito, semmai, è stato un’ulteriore evoluzione del processo precedente. Tale evoluzione non deve essere intesa nel senso della partenogenesi di una nuova classe, ma deve essere inquadrata in un processo di selezione selvaggia dei meglio attrezzati ad affrontare la nuova fase economica dettata dalla crisi causata dalla caduta del saggio di profitto, che ormai aveva investito l'economia russa e rischiava di disintegrarla dalle fondamenta [7].

Figlio anch'esso di questa selezione è il processo di divaricazione all'interno della stessa classe borghese, fra i veri e proprio oligarchi che gestiscono quasi per intero il Pil russo e la media e piccola borghesia, che, a dire il vero, è molto meno numerosa che altrove, ed è soprattutto concentrata nelle città di Mosca e Leningrado (pardon, San Pietroburgo!). Possiamo così evidenziare come alla prima categoria appartengano quasi esclusivamente gli ex dell’apparato, e invece alla seconda e terza categoria fanno capo gli ex dirigenti di fabbrica e gli esponenti più o meno presentabili della criminalità organizzata russa.

 

Il proletariato

La classe proletaria russa, la gloriosa classe che seppe “dare l’assalto al cielo” e passare alla “critica delle armi”, non attraversa un periodo di buona salute. Completamente estromessa dal processo di privatizzazione e praticamente assente come forza organizzata, sia nei fatti che hanno determinato l'ascesa del presidente Eltsin nel '91 sia nel putsch presidenziale del '93, ha dovuto subire negli ultimi 20 anni innumerevoli attacchi alle proprie condizioni di vita e di lavoro. Molti sono gli elementi di debolezza: in primo luogo, sul piano politico. Nel 1999, uno storico borghese così descriveva il clima politico negli anni eltsiniani: “'Nostalgici', 'irresponsabili', 'parassiti', 'assistiti' o 'inutili': con questi termini si tratteggia la figura degli operai in molti interventi di sprezzanti dirigenti politici; in commenti spesso satirici di giornalisti o nelle schematiche analisi di alcuni sociologi[8].

Le parole si commentano da sole, ma qualcosa di più si può dire. Più di tutto, ci fa letteralmente saltare sulla sedia l'aggettivo “inutili”: parola grossa, in bocca a una classe parassitaria che vive del lavoro altrui, esercitando la propria dittatura di classe per mezzo della violenza organizzata dall’industrialismo di Stato. Eppure, la citazione descrive egregiamente il gioco della borghesia di allora: scaricare sulle spalle del proletariato il fallimento politico dell'URSS, costringendolo in un angolo e applicando il seguente lurido ragionamento: “se c'era socialismo, comandavate voi, quindi il fallimento è del vostro modello; ora comandiamo noi, e vedrete come, con le nostre leggi, faremo prosperare la Russia: se vi provate a rivendicare qualsivoglia vecchio ammortizzatore sociale, siete solo parassiti, la vergogna della ‘Santa Madre Russia’”...

Tuttavia, come abbiamo visto, nonostante un primo momento di sbandamento, il proletariato ha saputo organizzarsi e incidere in modo significativo sulla precipitosa caduta della presidenza Eltsin. Dopo quei moti, però, vi è stato un nuovo periodo di arretramento, un’involuzione determinata, oltre che dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza che tante energie sottrae alla classe proletaria, anche dai metodi dittatoriali e apertamente violenti della presidenza Putin. La lotta dei lavoratori ha preso altre strade, trascinandosi fino ai giorni nostri: ha privilegiato il presidio delle fabbriche per cercare di impedirne la chiusura, spesso anche a costo di grandi fette del proprio salario, piuttosto che impegnarsi in vere e proprie azioni dirette.

In secondo luogo, la classe proletaria si è sobbarcata la quasi totalità delle spese economiche delle privatizzazioni dell'economia “sovietica”. Il processo di depauperamento del proletariato russo è stato di una linearità assoluta. Prima, l'illusione di una grande riforma economica democratica, una sorta di “riforma agraria” della proprietà dello Stato, con la distribuzione paritetica di tanti voucher, pezzettini di proprietà del patrimonio statale. In questa prima fase, la borghesia ha agito per giustificare e raccogliere il consenso del proletariato sulle privatizzazioni. Naturalmente, avere dei pezzi di carta significa non possedere nulla, e infatti i piccoli capitali furono irrimediabilmente attratti dai grandi capitali. Quindi, la borghesia ha accumulato i voucher, e i proletari li hanno venduti per pochi dollari, dovendo pensare alla sopravvivenza quotidiana. Ricordiamo che in quel periodo il baratto copriva il 70% e più degli scambi e i salari arretrati erano pari al 27% del Pil russo: in altre parole, non c'erano praticamente salari..

A questo punto, ricostituiti in mani “private” quegli stessi capitali che le stesse mani gestivano come “proprietà pubblica” e ormai messi con le spalle al muro, i proletari hanno visto erodere velocemente sia il proprio misero salario (che nel 2000 era il 25% di quello del 1992) sia la quasi totalità del welfare state architettato dal sistema “sovietico”.

Parte di questo welfare state nella Russia “sovietica” era a carico delle immense aziende statali, che confondevano i propri confini con quelli di intere città o settori consistenti di esse. Molte di queste aziende sono state smantellate e con esse sono stati smantellati interi settori di welfare state: i pezzi di welfare sopravvissuti ancora oggi sono per lo più appannaggio dei grossi monopoli energetici. Tali istituti di protezione sociale sono diventati di fatto una gabbia dorata (una sorta di servaggio indotto), in cui il lavoratore è sì parzialmente tutelato, ma dalle maglie delle quali egli non si può certo staccare, visto il deserto che lo circonda: maternità, infanzia, scuola, aspetti ricreativi, parti di sanità e altro ancora erano infatti i settori di welfare gestiti dalle aziende.

Ma là dove il timone era in mano allo Stato, questo lo ha tenuto ben stretto e dritto, proseguendo l'opera di depauperamento della classe proletaria: nuova legge sul lavoro, che di fatto permette il licenziamento portando la condizione del proletario dalla non-licenziabilità alla massima flessibilità; abolizione del sistema delle case popolari, con grave peggioramento delle condizioni di vita del proletariato; smantellamento del resto del sistema nazionale sanitario, con riduzione della vita media dei proletari; riforma delle pensioni, che ha gettato nella miseria più nera milioni di pensionati, ecc. ecc.

Di fronte a questo vero e proprio tracollo, come si giustifica la popolarità che i sondaggi danno alla presidenza Putin? La risposta è semplice: il proletariato non si può identificare semplicemente e riduttivamente con gli operai occupati, perché abbraccia anche gli anziani, i bambini, i disoccupati, i sottoccupati, mentre fra questi operai occupati, anch'essi formati da una molteplicità di individui, vi è la presenza significativa di una vera e propria aristocrazia operaia, che in questi anni ha visto crescere, in alcuni casi anche notevolmente, il proprio reddito. L’appoggio di questo settore del proletariato, unitamente a un nazionalismo strisciante che ha influenzato anche fasce operaie (inducendole ad attribuire la propria caduta in disgrazia alla minaccia dello straniero), ha permesso a Putin di avere solidi addentellati anche nelle file proletarie.

E, proprio con il nazionalismo, veniamo al terzo elemento da prendere in considerazione: gli immigrati, e in particolare le loro condizioni di vita e i loro rapporti con il proletariato nazionale – vero e proprio termometro che misura il grado di arretratezza o avanzamento della classe proletaria di tutta l'area. Il nazionalismo ha permesso alla borghesia di raggiungere un triplice risultato: respingere da sé le critiche sulla situazione economica addossandone le colpe allo straniero in generale, e “a chi viene a rubare il lavoro e le case” in particolare; comprimere il salario dell'operaio russo utilizzando la livella rappresentata dalle misere condizioni dell'immigrato; ridurre gli immigrati allo stato di semischiavitù economica e sociale, isolandoli completamente dal resto del proletariato.

In Russia, esistono tre categorie di immigrati. Ci sono gli immigrati “comunitari”, cioè i proletari che migrano nelle repubbliche russe dalle vicine repubbliche appartenenti allo CSI – kazachi, uzbeki, turkmeni, ecc. – , che fuggono dai propri villaggi e dalle città e vanno in Russia alla ricerca del lavoro, spesso letteralmente spinti dai propri governi interessati alle rimesse e ad abbassare la pressione sociale causata dalla disoccupazione cronica in patria; questi proletari trovano in Russia un’accoglienza assai poco confortevole: l’appartenenza alla CSI garantisce loro la qualifica di operaio e non di schiavo, ma per il resto essi vanno a coprire le fasce dei lavori più umili e umilianti.

La condizione di semischiavitù rappresenta invece la quotidianità per gli immigrati provenienti dai paesi “extracomunitari”, non CSI. Ad esempio, nell'estremo nord est della Russia, lavorano migliaia di nord coreani, impegnati nelle sterminate foreste nei campi di lavoro dell'industria del legno: manodopera a bassissimo costo, indispensabile per la storica industria russa, che viene tenuta per mesi completamente isolata e segregata nei campi di lavoro, e che, in caso d’incidente (non raro, trattandosi di taglio di foreste), non può in nessun modo farsi ricoverare in ospedali russi [9].

Alla terza fascia di immigrati appartengono infine gli immigrati interni, cioè i russi che si spostano da una repubblica all’altra, da una regione all’altra. Anche in questo caso, la loro condizione si trova ai minimi livelli della scala sociale: per le leggi russe, infatti, un operaio russo mantiene i propri diritti di cittadinanza solo se resta nella propria regione di origine; se emigra e si stabilisce in un altra regione, senza una pezza giustificativa (una chiamata nominale da una fabbrica o di un potente di zona), egli praticamente perde ogni diritto e cade nella condizione di vero e proprio immigrato.

Naturalmente, il gioco della borghesia russa è rodato da tempo (e applicato in tutte le nazioni del mondo). La divisione, oltre ad avere un obbiettivo direttamente economico (la compressione dei salari), mira a un ben più importante obbiettivo strategico: la divisione della classe proletaria. In questo senso, possiamo definire terzo elemento di debolezza il permanere di tale divisione e il non sorgere di un movimento a esso avverso, che punti dritto verso l'affasciamento di tutto il proletariato, sotto un’ unica bandiera internazionale e contro ogni divisone nazionalistica.

Un capitolo a parte va dedicato alla questione delle case. Il sistema “sovietico” funzionava all'incirca nel seguente modo: lo Stato costruiva le case (spesso anche i grossi agglomerati industriali investivano in edilizia), e poi le case venivano distribuite e ridistribuite (spesso, nella Russia “sovietica”, diverse famiglie vivevano in modo promiscuo in un solo appartamento) ai lavoratori a “prezzi politici” [10]. Dopo la caduta del regime “sovietico”, si è proceduto per tentativi anche bizzarri e contraddittori: famosa, e piena di conseguenze per il mercato speculativo, fu la privatizzazione a costo zero di una parte del patrimonio edilizio statale a favore degli occupanti degli immobili; alcuni di questi, successivamente, vista l'impennata dei prezzi degli immobili dovuta al duplice movimento della speculazione e della carenza atavica di alloggi, hanno potuto anche raccogliere buoni frutti: molti sono invece caduti, anche non molto tempo fa, nelle maglie di “agenzie piramidali”, che si sono appropriate con l'inganno delle case e non le hanno né mai restituite né mai indennizzate.

Il processo ha comunque portato alla veloce liberalizzazione dei prezzi degli affitti e questi, a loro volta, hanno contribuito al peggioramento rapidissimo delle condizioni di vita del proletariato. Si assiste così in tutta la Russia al tentativo sia dei proprietari truffati sia degli affittuari vessati di costituire comitati e di darsi un coordinamento nazionale, per lottare sul terreno della necessità di alloggi a prezzi ragionevoli. La diffusione e la combattività di questi comitati, che hanno perfino sfiorato l'agenda di Putin, sono sicuramente un primo segnale di una possibile ripresa della lotta di classe in Russia.

 

Tiriamo alcune prime conclusioni

E’ realtà evidente che l’economia mondiale è in recessione, non importa quanti siano i segnali (sbandierati dalla stampa) di “incipiente lenta ripresa”. I numeri negativi della crisi ormai si sprecano e quasi tutti concordano nel definire questa crisi come la più grave e profonda “dal dopoguerra ad oggi”: la novità è che il dopoguerra di cui si parla non è il secondo, ma il primo.

La Russia, che ha goduto per un decennio di una fase di ripresa, immersa com’era anch’essa nella bolla del credito che spingeva le borse mondiali, sta crollando miserabilmente, come l’intera economia mondiale, senza poter far nulla per invertire il processo. Ma la situazione russa è ulteriormente aggravata dalle ataviche inefficienze produttive e finanziarie. Abbiamo visto [11] come nel settore produttivo la Russia sia solo riuscita a far risalire alcuni indici industriali al livello del 1992; ma abbiamo anche visto come alcune storiche industrie siano quasi del tutto scomparse. Abbiamo visto come l’economia e conseguentemente la politica russa abbiano concentrato i proprio sforzi nell’unico settore che prometteva sicuri profitti, quello minerario ed energetico: almeno all’inizio, questa storica propensione ha pagato; ma, per la stessa caratteristica di industria da export che caratterizza il settore, esso è indissolubilmente agganciato a fattori esterni, al mercato internazionale dei prezzi delle materie prime. Abbiamo infine sottolineato come il processo di creazione di un tessuto di imprese atte alla produzione per il consumo sia praticamente abortito da subito, schiacciato dalle difficoltà interne e dalla concorrenza internazionale.

D’altra parte, la situazione dell’agricoltura non è certo migliore di quella dell’industria e l’intero comparto vive una continua fase di instabilità: dal punto di vista infrastrutturale e meccanico, l’agricoltura vede infatti il deterioramento dei mezzi ed ha un’estrema difficoltà a rintracciare i capitali di cui avrebbe bisogno; dal punto di vista del reddito, i salari contadini sono a livelli tali da determinare solo la fuga di maestranze verso le città.

Le finanze poi precipitano pericolosamente verso l’annullamento di tutti i vantaggi monetari di cui ha goduto la Russia negli ultimi dieci anni. Nei primi anni ’90, un fiume di denaro è stato drenato dalle casse russe su conti esteri: questi capitali, ripuliti dalla loro origine russa, sono rientrati, insieme a molti altri, determinando il riemergere degli indici di borsa ai livelli precedenti il 1992. A questo fenomeno, si somma il continuo indebitamento privato, cioè l’indebitamento delle aziende, che hanno attinto ampiamente al mercato del debito internazionale, coperte dalla protezione statale che ostentava i propri fondi sovrani di riserva come il membro nerboruto di una potente nazione: la Russia guadagnava nel presente, ma sempre di più si indebitava nel futuro. Questo processo ha determinato ora il “quasi crack” e il rischio di default finanziario a cui lo Stato si sta pericolosamente avvicinando. Infatti, il presente attuale è molto differente del presente di solo qualche mese fa. La situazione è talmente grave che sta velocemente consumando tutte le riserve russe, e il futuro prossimo non riserva di certo dei miglioramenti.

Se, dal punto di vista strutturale, la Russia non se la passa proprio bene, ciò vale anche dal punto di vista sociale. L’immenso sforzo con cui era riuscita ad arpionare per qualche tempo i livelli macroeconomici del 1992 non è stato sostenuto in egual misura da tutte le classi e la mannaia sulle condizioni di vita e di lavoro si è abbattuta sulla classe operaia in modo feroce e determinato.

La classe borghese e il suo alfiere Putin, che in passato hanno costretto in un angolo il proletariato, oggi si trovano di nuovo a dover gestire una grande crisi. Ma le condizioni sono radicalmente cambiate dalla volta precedente: non solo perché questa crisi spinge sul baratro e non verso un’ulteriore fase di espansione come la precedente, ma soprattutto perché la borghesia russa ha consumato tutto il suo “credito storico”. La libertà d’azione, ottenuta sventolando in faccia al proletariato il fallimento del “socialismo reale”, e permettendo così alla borghesia russa di gestire una feroce ristrutturazione economica e sociale, oggi ha perso quasi del tutto la sua efficacia. Dieci anni di capitalismo feroce hanno dimostrato al proletariato russo quanto poco le proprie condizioni e aspirazioni possano fare fronte comune con quelle borghesi, nazionali e internazionali. La condizione economica si deteriora con rapidità e la classe proletaria sempre più sarà costretta a imboccare una strada di antagonismo sociale.

Non possiamo dire se, ancora una volta, la classe proletaria russa sarà la prima a dichiarare la guerra aperta contro la borghesia. Quello che sappiamo è che sul terreno vi sono oggi, e vi saranno sempre più domani, tutte le condizioni perché in Russia si accenda di nuovo la lotta proletaria. Se questo poi sarà un processo che scaturirà da una sollevazione endogena o come contraccolpo di una sollevazione in altre parti del mondo, solo il tempo ce lo potrà dire.

 
 
Note

 

1. “La domanda in Russia si sposta d’estate in azioni della serie ‘B’”, Notiziario dei mercati CSI, 23/06/2008, su http://www.intesasanpaolo24.com/Csi/Bollettini/MercatiFinanziari. [back]

2. “I mercati emergenti lanciano segnali di ripresa”, Notiziario dei mercati CSI, 20/01/2009, su http://www.intesasanpaolo24.com/Csi/Bollettini/MercatiFinanziari. [back]

3. “2009 difficile ma non drammatico per l’economia russa”, Notiziario dei mercati CSI, 20/01/2009, su http://www.intesasanpaolo24.com/Csi/Bollettini/MercatiFinanziari. [back]

4. Il Cremlino mobilita le riserve per far fronte alla crisi”, Notiziario dei mercati CSI, 20/10/2008, su http://www.intesasanpaolo24.com/Csi/Bollettini/MercatiFinanziari. [back]

5.“La Russia alle prese con il passato sovietico”, Le Monde Diplomatique, Febbraio 2001 [back]

 

6. Non possiamo trattenerci dal mettere tra virgolette l’aggettivo “sovietico”: dal nostro punto di vista, infatti, esso è un guscio vuoto, come tutte le “proclamazioni marxiste” di stampo staliniano, che hanno nascosto (e, nell’eredità post-staliniano, continuano a nascondere) il completo capovolgimento del marxismo. Di sovietico nel senso marxista del termine, non esiste più nulla in Russia dalla metà degli anni ’20 del ‘900. [back]

 

7. Cfr. “Il corso del capitalismo in Russia”, Il programma comunista, n° 7-8/1999; “Il corso del capitalismo in Russia (II)”, Il programma comunista, n° 3/2002. [back]

 

8. “La fierezza perduta della classe operaia”, Le Monde Diplomatique, aprile 1999. [back]

9. Ai tempi dell'URSS, si trattava di “galeotti” che il prode compagno Kim Il Sung vendeva ai russi per pagarsi i debiti; oggi, la convenzione è stata rinnovata, vista la persistenza dei debiti, ma i lavoratori sono “operai volontari”. [back]

10. Per un’attenta analisi della “questione delle abitazioni” nella Russia staliniana e post-staliniana, cfr. la nostra Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, Edizioni Il programma comunista, 1976 (ma gli articoli che la compongono risalgono al 1955-57. [back]

 

11. Cfr. l’articolo precedente. [back]
 
 
 
Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2009)

 

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