Il percorso che abbiamo sviluppato finora ci ha portato dalle prime incerte applicazioni della tattica del “fronte unico” nella prima metà degli anni Venti agli zigzag tattici dei vertici dell’Internazionale Comunista associati ad un rapido spostamento del partito bolscevico non su posizioni di “destra” ma di chiara natura controrivoluzionaria (teoria del “socialismo in un solo paese”), al parallelo bestiale processo di industrializzazione capitalistica in Russia, alla trasformazione delle parole comuniste di difesa dei programmi e delle finalità della lotta contro il capitale e dei regimi borghesi di qualsiasi tinta in nome della lotta di classe in quelle di lotta “popolare” (cioè interclassista) antifascista in difesa delle libertà democratiche, e ci ha mostrato come tutto ciò dovesse teorizzarsi nella dottrina dei “fronti popolari” e nella sua conseguente applicazione nella guerra antifascista in Spagna, alla vigilia della seconda guerra mondiale. Furono pochissime le voci che non si associarono al totale tradimento di quanto avevano indicato i primi congressi dell’IC, e queste voci si trovarono completamente isolate non solo – come è naturale – dal campo della socialdemocrazia interclassista, ma anche da quei gruppi e movimenti che si rifacevano alle dirette esperienze rivoluzionarie dei decenni precedenti, fossero questi i gruppi legati più o meno direttamente al nome di Leone Trotsky, o ai movimenti “infantili” della sinistra tedesca e olandese, o all’operaismo rivoluzionario. Assieme a tutti questi, anche gli anarchici non esitarono a scegliere l’opzione della difesa della democrazia (e quindi di uno stato borghese che si voleva “migliore” rispetto a quello fascista).

Lo stalinismo, dal canto suo, non andava per il sottile e, messi tutti nello stesso sacco, li bollava semplicemente come “spie fasciste” e quindi passibili della pena di morte. Individuata nella Russia di Stalin la patria di tutti i comunisti, la tattica era elementare: rispolverando astutamente la classica formula del “disfattismo rivoluzionario”, si esortavano i proletari di tutto il mondo a schierarsi contro le “proprie” borghesie solo e se queste manifestassero sentimenti ostili alla Russia; poco male, poi, se ciò avrebbe comportato alleanze con i nazisti (patto Ribbentrop-Molotov, 1939-41) contro gli imperialisti occidentali, oppure l’esatto contrario. Qualora queste “proprie” borghesie avessero stretto un’alleanza economico-militare con la Russia, ad esse il proletariato avrebbe dovuto garantire pieno appoggio. A guerra ormai iniziata da due anni, tutti quanti (escluse quelle “voci” di cui sopra) si gettarono di nuovo nelle braccia della democrazia violata, schierandosi dunque per il campo imperialistico degli alleati occidentali contro quello degli alleati dell’Asse. In queste braccia si trovarono dunque, schierati sullo stesso fronte, stalinisti, antistalinisti, operaisti, immediatisti, anarchici, socialisti e socialdemocratici: è il momento in cui fiorisce un bosco di sigle, di partitini, di movimenti democratici, tutti con il chiaro intento di giocarsi qualche aliquota di potere a guerra finita, sapendo di avere già fatto la scelta giusta con lo schierarsi dalla parte dei vincitori.

Il lettore può approfondire i temi trattati di seguito nei seguenti lavori di partito:

“Il proletariato nella seconda guerra mondiale e nella ‘Resistenza’ antifascista”, Il programma comunista, nn. 7, 9, 10/1975; Dialogato coi morti, Ed. Il programma comunista, 1956; “Confluenza nella unitaria dottrina storica internazionalista dei grandi apporti delle lotte rivoluzionarie nei paesi moderni”, Il programma comunista, n. 23/1964 e segg.

 

 

24. “Resistenza” al fascismo, ovvero rinuncia alla lotta contro il Capitale

 

Dopo il 25 luglio 1943, la borghesia italiana impiegò non più di 45 giorni a tradire i precedenti alleati per scegliersi quelli che ormai (soprattutto dopo l’ingresso nella scena bellica degli Usa) apparivano evidentemente i vincitori. Le masse proletarie, totalmente disorganizzate, prive di legami con i pochi elementi comunisti che da quasi due decenni vivevano in esilio in Europa o erano stati massacrati in Russia, furono rapidamente incanalate sotto le bandiere dell’unità nazionale, della lotta per la “liberazione” in difesa degli interessi nazional-borghesi. Le bestiali condizioni in cui da anni viveva la classe operaia portarono alle prime grandi manifestazioni di classe del 1943, destinate anche a rimanere le ultime forti manifestazioni spontanee, non incanalate dentro l’alveo socialdemocratico. Quando, dopo la caduta del governo Mussolini, in agosto nuove manifestazioni percorsero la penisola, il governo antifascista del generale Badoglio non esitò a emanare direttive draconiane di “difesa dell’ordine”, appoggiate dall’ordine di sparare sui dimostranti (un centinaio di morti, oltre duemila arresti).

Non è il compito di questo studio ripercorrere le tappe politico-militari dell’opposizione antifascista democratica negli anni della guerra nei due paesi in cui più che altrove essa pretende di avere giocato un ruolo decisivo sulle sorti della guerra.

In Italia, vi erano gli oppositori più o meno nascosti al fascismo ancora al potere (minimi gruppi più o meno organizzati di intellettuali affascinati dalla cultura anglosassone, che dal 1942 in modo del tutto velleitario cercavano di funzionare come servizio di spionaggio inglese); vi erano gli eredi del liberalismo giolittiano; socialisti riformisti di tradizione turatiana; mazziniani ed esponenti massonici; europeisti ante litteram; democratici cristiani; e magari anche certi insospettabili apparati e arnesi fascisti, se si deve dar credito a vecchi figuri di voltagabbana plurimi (se tutti parlassero, si legge, “oggi si saprebbe con quanta delicatezza la polizia [cioè l’OVRA, ndr] abbia manovrato per garantire alle spalle quei movimenti clandestini che aveva il compito di scoprire e di perseguitare”) (1); vi erano infine, primi inter pares, gli stalinisti, cioè i “nazionalcomunisti”, gli strenui difensori dell’onore della patria, violato da un ventennio di brutalità fascista. Come si vede, tutto un “fronte unico” che, avendo avuto ben poco da dire nel 1922 a fascismo ormai salito in cattedra – e in ogni caso era, anche quello, un fronte fieramente ostile alle direttive e all’azione rivoluzionaria del PCd’I – ritrovava d’incanto compattezza di ideologia e di azione nei vari “comitati d’azione per l’unità del popolo italiano”, o “comitati italiani per la pace e per la libertà” e infine nei “Comitati di Liberazione Nazionale”, soprattutto grazie all’intervento militare e finanziario anglosassone. Sotto quelle bandiere era da ritrovare tutta la tradizione invocata vent’anni prima dagli Amendola (il padre: ben più coerente del figlio, bieco esponente dello stalinismo democratico), dai Croce, dai Salandra, dai Missiroli, dai socialisti già accorsi vigliaccamente a firmare col fascismo il lugubre “patto di pacificazione” del 1921.

In Francia, la tradizione di “rivoluzione popolare”, che avanzava al suono della Marsigliese oppure sotto le bandiere dell’anarco-sindacalismo, era ben più radicata di quella marxista (la stessa Comune parigina del 1871 aveva dovuto fare i conti con l’improvvisazione proudhoniana). Il Partito comunista, nato su ibride basi, non tardò ad assimilare il dettato stalinista dell’interclassismo antifascista, aderendo al “fronte popolare”, al movimento di liberazione nazionale, alla lotta per la democrazia e assicurando il pieno appoggio alla borghesia liberale nazionale: e pazienza se questa, quello stesso 8 maggio 1945 in cui celebrava a Parigi la vittoria del progresso contro la barbarie, annegava in un bagno di sangue (45.000 morti) le rivolte che si scatenavano in Algeria in nome dell’indipendenza! Che aspettarsi, d’altra parte, da un partito di cui l’Internazionale nel 1922, cioè a poco più di un anno dal congresso di Tours in cui esso si costituiva come sezione dell’IC, denunciava la “tendenza a ristabilire l’unità con i riformisti; […] a formare un blocco con l’ala radicale della borghesia; […] la sostituzione del pacifismo umanitario piccolo-borghese all’antimilitarsimo rivoluzionario”? (2).

Tornando in Italia, se a ben poca cosa si ridussero gli interventi militari di una qualche importanza da parte del fronte antifascista nazionale (d’altra parte, mentre gli anglosassoni mettevano in campo 3000 pezzi di artiglieria, 3100 carri armati, 5000 aerei e 19 divisioni, il fronte unico nazionale poteva schierare al più e ottimisticamente 200.000 uomini dotati solo di armi leggere), ben maggiore decisione questo mostrò – soprattutto per intervento della sua componente staliniana – nel controllo di un movimento operaio che, inaspettatamente, alla caduta del governo Mussolini, aveva dato prove di un non sopito istinto di classe. In primo luogo, si trattava dunque di evitare che qualche testa calda emergesse dalla “spontaneità popolare” – cioè dalla lotta di classe, per ciò che ne restava – , magari pronta ad usare la polvere da sparo in una direzione che non poteva piacere agli stalinisti. In secondo luogo, alla vigilia della vittoria, bisognava costituire squadre armate a protezione e difesa degli impianti industriali, in modo da assicurare che la fabbrica, il luogo di pena per milioni di operai, continuasse a svolgere il proprio ruolo di creazione di plusvalore nel processo produttivo nel corso del successivo periodo di ricostruzione e di accumulazione capitalistica. Nel dettato stalinista, sarebbero dovuti essere gli operai stessi a sorvegliare che gli impianti – in cui essi sono schiavi salariati – mantenessero la loro piena operatività di centro del potere economico borghese. Di lotta insurrezionale non si doveva più parlare, neppure come ipotesi teorica.

 

 

25. Poteva esprimere il movimento partigiano un potenziale realmente rivoluzionario?

 

Da alcuni decenni, storici e analisti antistalinisti insistono sul fatto che, tra 1943 e 1947, guerra e miseria avevano creato condizioni favorevoli a una soluzione rivoluzionaria, mettendo tra le mani di partigiani comunisti armi che sarebbero potute essere rivolte, finalmente, contro il nemico di classe. In sostanza, la seconda guerra mondiale avrebbe favorito la polarizzazione delle energie rivoluzionarie: se l’esito si risolse solo in alcuni casi di lotta violenta a carattere locale o si frantumò in innumerevoli casi di vendette di tipo personale, ciò sarebbe in larga misura da attribuire – secondo questi storici e analisti – alla politica attendistica, intellettualistica e settaria dei gruppi che allora si rifacevano in modo più o meno esplicito alle direttive del PCd’I dei primi anni Venti e che, alla prova dei fatti, avrebbero dimostrato la loro incapacità nell’azione. La realtà suona in modo totalmente diverso. L’unica avanguardia che si era dotata, fin dal 1943, di una sia pur esile struttura di partito, era il Partito comunista internazionalista, nelle cui file erano confluiti nuclei operanti soprattutto in Piemonte e in Lombardia, e a cui avevano aderito alcuni gruppi di emigrati in Francia e in Belgio, che nei due decenni precedenti avevano rappresentato l’unica voce, debole ma pienamente orientata nella dottrina marxista, trovando la propria espressione nei giornali Prometeo e Bilan. Ma quest’organizzazione si era formata senza che ci fosse stato il tempo per fare chiarezza completa su alcuni dei problemi posti dalla controrivoluzione in atto negli ultimi venti anni: che cosa è diventata la Russia? come ricostruire il rapporto organico con le masse operaie? come e attraverso quali tappe si può giungere a ricostruire un’avanguardia rivoluzionaria organizzata internazionalmente? qual è l’analisi marxista del corso dell’imperialismo alla luce dell’esito del primo e del secondo massacro mondiale? Non solo dunque il Partito comunista internazionalista era caratterizzato da un’eterogeneità forzata: esso aveva anche perso qualsiasi legame autentico con il proletariato internazionale, e, a causa delle cristalline posizioni antidemocratiche difese da decenni, era emarginato da tutti i gruppi che si muovevano sul terreno dell’antistalinismo. Così, fu necessario oltre un decennio di messe a punto teoriche ed organizzative, senza le quali sarebbe stato impossibile proporsi come autentica guida per le lotte future.

D’altra parte, in che modo il movimento partigiano avrebbe potuto rappresentare uno sbocco rivoluzionario alla seconda guerra mondiale? Secondo i sostenitori di questa tesi, una reale alternativa alla costituzione di un partito di classe stava in quello che fu avanzato come “programma partigiano” del 1943: guerra alla guerra (formula insufficiente, che lascia margini ad interpretazioni pacifiste); guerra ai regimi che l’avevano causata e teorizzata (e chi, se non Germania e Italia? e perché non guerra anche a chi l’avrebbe vinta?); disprezzo (?!) per finanzieri, industriali, grandi agrari, cardinali ecc., ma anche “suprema disciplina di azione, rigore di costume, sete di sapere e consapevolezza” (un pasticcio che sta tra la bolscevizzazione della metà degli anni Venti, la “rivoluzione culturale” di Mao e le formulette escogitate dagli studenti del ’68) (3).

Questa posizione, per generosa che possa sembrare oggi a occhi ingenui e non marxisti, era completamente fuori strada. La situazione generale della classe e del suo partito erano allora completamente differenti da quelle presenti alla fine del primo conflitto mondiale e una “ripetizione” di un qualcosa che potesse assomigliare al “biennio rosso” era semplicemente impossibile. Allora, l’impulso dato al movimento rivoluzionario dalla Rivoluzione russa, assieme al fermento all’interno delle organizzazioni di classe in cui maturavano – purtroppo con fatale ritardo – le condizioni per la formazione dei primi partiti comunisti europei, e a quella che sembrava una travolgente marea di agitazioni che stava attraversando l’intera Europa, costituirono effettivamente una solida base per i tentativi di conquista del potere in Germania e nell’est europeo. Ma con lo scoppio della seconda guerra mondiale le condizioni generali della lotta erano radicalmente cambiate, non solo per l’assenza di una organizzazione rivoluzionaria in grado di far sentire la propria voce su scala internazionale, ma perché la penetrazione nel proletariato mondiale della dottrina stalinista della “difesa dello stato proletario” (la Russia), e l’aperto schieramento dei partiti “comunisti” a fianco delle potenze borghesi – prima descritte come imperialiste e plutocratiche, poi come baluardi di pace, progresso, libertà e democrazia – , avevano rappresentato una totale rinuncia alle posizioni storiche di classe e condannato il proletariato a un abbandono, da cui non avrebbero potuto risollevarlo locali, puntiformi focolai di lotta armata, priva di una direzione programmatica e di una organizzazione politica consolidate. Inoltre, l’occupazione militare alleata dei paesi sconfitti escludeva la possibilità di qualsiasi tentativo di rovesciamento del potere; e, se non fosse bastata questa, era pronta la vigilanza controrivoluzionaria esercitata dal partito stalinista e dai suoi scagnozzi per intervenire in caso di necessità (4). Pertanto, “contro il partigianismo barricadiero e piccolo-borghese che convogliava verso le montagne centinaia di giovani operai, i comunisti internazionalisti affermarono la necessità che il proletariato combattesse nelle fabbriche la sua battaglia contro il suo nemico capitalistico. Gli scioperi che punteggiarono quel travagliato periodo storico videro il Partito [comunista internazionalista] attivissimo nelle officine di Torino, di Milano, dell’Italia settentrionale” e le nostre parole d’ordine “furono divulgate con tutti i mezzi anche tra i raggruppamenti partigiani, nonostante le difficoltà obbiettive. Il partito, esile organizzativamente, fu costretto a muoversi tra mille difficoltà combattendo con coraggio ma con scarsi mezzi i due blocchi politici” (5), pur sapendo che nulla avrebbe potuto forzare una situazione che, in realtà, si presentava come la peggiore possibile. Era dunque perfettamente coerente con le nostre posizioni assunte nei riguardi della guerra di Spagna invitare il proletariato europeo al disfattismo durante e alla fine della seconda guerra mondiale, ma non si poteva prescindere dall’urgenza di rinsaldare le fila dell’organizzazione sulla base di una dottrina rivoluzionaria restaurata contro tutte le gravissime deformazioni precedenti, sapendo che la ripresa della critica delle armi non poteva giungere che alla fine di un lungo periodo di lavoro interno di analisi e di ripresentazione della dottrina comunista, di una ripresa di penetrazione nelle masse proletarie e, infine, di approfondimento della crisi dell’imperialismo. Al di là di questo, ci poteva essere solo confusione e smarrimento, sotto forma di azioni disperate più o meno individuali o di immediatismo nelle sue varie forme (sindacalismo, operaismo). Il ribellismo del 1946, strombazzato oggi da qualche volenteroso critico, non poteva avere un grammo di successo rivoluzionario, dal momento che nasceva sulla base di rivolte di carattere locale, giustificate finché si vuole contro il canagliume fascista e chi lo difendeva, ma estranee, per finalità e per organizzazione, all’internazionalismo comunista. Senza una preparazione decennale alla guerra civile, senza un seguito effettivo tra le masse urbane, senza una guida politica in grado di dirigere il movimento, questi sparsi tentativi non potevano finire che nel giro di pochi mesi, come infatti avvenne. Ritenere l’opposto, significa dimenticare quali siano le condizioni oggettive del successo rivoluzionario, che Lenin ricordava, nel 1921, a uno sprovveduto Terracini nel corso del III Congresso dell’Internazionale: “Avevamo con noi la maggioranza dei soviet dei deputati operai e contadini di tutto il paese […] Avevamo con noi quasi la metà dell’esercito, che allora contava per lo meno dieci milioni di uomini […] Abbiamo vinto con tanta facilità perché avevamo preparato la nostra rivoluzione durante la guerra imperialistica. […] Abbiamo vinto perché masse grandissime di contadini erano animate da spirito rivoluzionario. […] Il nostro primo passo è stata la creazione di un vero partito comunista per sapere con chi abbiamo a che fare e in chi possiamo avere piena fiducia” (6). Avevano i ribelli del 1946 tutto ciò? E basterà tutto ciò ai nostri “critici”, a coloro che avrebbero voluto a tutti i costi “fare la rivoluzione”, a coloro che rimproverano oggi all’esile partito di allora, appena ricostruito in mezzo alle rovine prodotte nel proletariato dalla guerra, dal fascismo, dall’opportunismo democratico, una tattica attendista? E alle loro consuete accuse di “settarismo” rivolteci da attivisti e volontaristi di varia estrazione, che stancamente ripetono ciò che da piccoli hanno imparato sulla Piccola enciclopedia del socialismo e del comunismo stalinista, rispondiamo da sempre (cioè dal 1912, 1919, 1921, 1926: tappe portanti del nostro partito) che “anche in una situazione estremamente sfavorevole ed anche nei luoghi in cui la sterilità di questa è massima, va scongiurato il pericolo di concepire il movimento come una mera attività di stampa propagandistica e di proselitismo politico. La vita del partito si deve integrare ovunque e sempre e senza eccezioni in uno sforzo incessante di inserirsi nella vita delle masse ed anche nelle sue manifestazioni influenzate dalle direttive contrastanti con le nostre” (“Tesi di Napoli”, 1965) (7). Questo, e non altro, è stato ed è il nostro modo di porci nei confronti del proletariato.

 

 

26. Lo stalinismo europeo del secondo dopoguerra

 

Alla fine della guerra e dopo gli accordi di Yalta, il proletariato europeo si trovava di fronte a nuovi padroni. La fine della prima guerra mondiale aveva sancito, oltre a vari tipi di sanzioni economiche, la mutilazione di territori dei paesi sconfitti. Ma ora si passò alla loro invasione fisica o al loro smembramento. Dove lo stalinismo russo non poté entrare con la forza armata, lo fece attraverso le sue numerose teste di ponte rappresentate dai locali partiti “comunisti”. Non poteva essere il caso della Germania occidentale, dove ogni resistenza di classe era stata schiacciata da decenni. In Francia e in Italia, ove la tradizione di lotta era ancora viva, si trattava di canalizzarla nel senso della riorganizzazione del nuovo ordine borghese, usando tutte le forme necessarie. In Francia, a quella tradizione, cioè, si doveva sostituire quella dei Frossard, dei Cachin e dei Thorez. Il primo (“gran maestro in scappatoie”, “vecchia volpe del partito”, secondo le espressioni di uno che ben conosceva il partito comunista francese di quegli anni Venti, cioè A. Rosmer) era segretario del partito e in quanto tale primo responsabile della linea che, per anni, contrappose da destra la linea del partito all’Internazionale; costretto alle dimissioni nel 1922, ritornò ai suoi maestri socialisti per qualche anno finché, fatta l’unica scelta azzeccata della sua vita, finì come ministro nel governo Pétain. Il secondo, entusiasta interventista antitedesco nel corso della prima guerra mondiale, ambasciatore segreto della Francia presso l’ex-rivoluzionario Benito Mussolini in vista della sua conversione (pagata in franchi) a fianco delle borghesie in guerra tra loro, fieramente ostile ai bolscevichi, avrà il coraggio di presentarsi a Lenin per chiedere perdono dei crimini della borghesia francese, ottenendone la gelida risposta: “Dovreste chiedere perdono per i vostri propri crimini nei confronti del proletariato francese” (8). Il terzo, Thorez, l’arnese perfetto dello stalinismo, l’alter ego francese dell’italiano Togliatti, era colui che nel 1926 dichiarava essere i comunisti “i migliori difensori del patrimonio nazionale”; che dieci anni dopo ribadiva di “essere fiero della grandezza passata del nostro paese”; e che, a guerra appena finita, esaltava nel proprio partito “il sangue dei cattolici, dei comunisti […] il sangue di tutti i nostri eroi [che] ha fecondato il nostro suolo e sigillato l’unità nazionale” (9).

In Italia, la situazione non era diversa e, se possibile, ancora peggiore. Mentre i proletari italiani erano invitati a schierarsi sotto la bandiera anglosassone nei reparti partigiani contro i tedeschi, la caccia all’oppositore dava i suoi frutti, con l’assassinio di valorosi compagni presentati nella stampa “comunista” come “agenti del nemico truccati con berretto estremista [...] tenitori di tabarins e di bische clandestine [...] setta di rivoluzionari da strapazzo e visionari dogmatici [trasformati] in agenzia criminale e senza scrupoli di nemici della rivoluzione [...] agenti dell'OVRA e della Gestapo [...] accolita di avventurieri che hanno fatto dell'anticomunismo il proprio cavallo di battaglia” (10). Liquidando ogni opposizione operaia, accordandosi con i partiti cattolici e spegnendo sul nascere ogni tentativo spontaneo di rivolta, il PCI si apprestava a diventare partito di governo, partecipando alla stesura della Costituzione italiana e mandando il suo uomo più rappresentativo, Palmiro Togliatti, a fare il Ministro di Grazia e Giustizia due volte sotto il re, la terza con un presidente della Repubblica. In tal veste, nel giugno del 1946, egli firmerà un decreto di amnistia per reati politici in termini tali da garantire una perfetta continuità tra apparato amministrativo-poliziesco fascista (in parte finito in galera) e apparato democratico repubblicano.

Gli eventi successivi presentano aspetti che, al di là delle particolarità locali ereditate da situazioni storiche diverse, si rassomigliano in tutta Europa negli aspetti sostanziali, in nome dell’unità nazionale, della democrazia “partecipata”, dell’antistalinsmo e dell’antifascismo. Gli anni della ricostruzione postbellica richiedono uno sforzo produttivo gigantesco, e la classe operaia è messa alla catena come mai prima di allora. Nel primo dopoguerra, al taylorismo si era sostituito il fordismo (tanto apprezzato da Gramsci!): allo stesso modo, ora, nel secondo dopoguerra, al fordismo si sostituisce il toyotismo. Certo non per “costruire il socialismo” in nessuna parte del mondo: si trattava invece di forgiare le basi del nuovo ciclo di accumulazione di capitale universale, e costruirlo precisamente facendo ricorso a tutto il più raffinato apparato tecnologico-produttivo e organizzativo-poliziesco.

Masse proletarie scampate agli orrori della guerra e delle campagne militari sono ora riprecipitate nel torchio dell’orgia iper-produttiva e dell’iper-profitto, ma a tanto non bastano briciole di “stato assistenziale”: c’è bisogno della massiccia capacità di convincimento dell’ideologia democratica e, se ciò non basta, per coloro che vogliono combattere per qualcosa, c’è pronta la “difesa della patria del socialismo” contro gli imperialismi occidentali (ormai non più alleati) e, soprattutto, c’è pronta la difesa della “propria” patria, della “propria” industria, della “propria” azienda. C’è lo stalinismo che funziona a pieno regime, che attinge a piene mani nei suoi alleati locali: laburismo, operaismo, consiliarismo, gramscismo (11).

Certo, non mancarono grandi esempi di lotta, né convulsioni di masse disorientate ma ancora battagliere. Il 1953 conobbe la Comune di Berlino, grande rivolta proletaria contro l’oppressione del capitale internazionale, che fu schiacciata dalla Santa Alleanza rinnovata tra stalinisti e democratici. Nel 1956, anno decisivo per il riassetto di numerosi aspetti lasciati nell’ombra dai recenti accordi di pace interimperialistici, in un inquieto contesto di crisi internazionale (Cipro, Suez, Medio Oriente, Algeria, Marocco ecc.), esplodeva la bolla antistaliniana al XX Congresso del PCUS, gettando nello smarrimento partiti e intellettuali fautori della “patria del socialismo” e fornendo le basi per quello che diventerà l’anticomunismo antistalinista, gridato nelle piazze in nome del progresso, della democrazia e della libertà. Nello stesso anno, la rivolta operaia di Poznan, grande centro metallurgico polacco, metteva in discussione i “trionfi” dell’economia socialista, rivelando alle masse occidentali attonite la realtà dei bassi salari, dei folli ritmi di lavoro, delle bestiali condizioni di vita: il governo “comunista” non esita a ricorrere alla prassi, consolidata in tutto il mondo, di sparare sulla folla. E, alla fine dell’anno, i fatti di Ungheria saranno lì a confermare, per chi ne avesse ancora bisogno, l’identità tra “democrazia borghese” occidentale e “democrazia socialista” orientale.

 

 

27. L’antistalinismo democratico

 

È in questo contesto internazionale che, nei paesi di più antico capitalismo, nascono le opposizioni interne nei vecchi partiti stalinisti: ovunque si cavalca il vecchio ronzino della “democrazia dal basso”, la rivolta contro le alte gerarchie dei propri partiti, il richiamo (generalmente pretestuoso) alle tradizioni rivoluzionarie degli anni Venti, sì, ma ben filtrate da due o tre decenni di lotta antifascista e di alleanze interclassiste. È la fase politica in cui gli uni gridano slogan contro la prepotenza americana, gli altri contro la barbarie totalitaria staliniana. Ai primi, rispondevamo ricordando “le loro idiote e servili piaggerie di quel tipo di civiltà e delle direttive di propaganda dei Roosevelt e dei Churchill”; ai secondi, “le loro istrioniche esaltazioni degli immani sacrifici sui campi di guerra di milioni di proletari Russi per la causa di cui erano allora fautori” (12). Fu, allora, un rinnovato inseguimento, da parte degli stalinisti pentiti, alle “basi operaie”, che avrebbero garantito la massima protezione contro le derive burocratiche e i culti della personalità. Fu tutto un rincorrere gli elettori della “base” dei vecchi partiti nella convinzione di poter creare partiti nuovi, nei quali sarebbe stata garantita la libertà di idea, la discussione di tutti i principi, il rispetto di tutte le opinioni, in nome di una rinnovata democrazia. Ed ecco nascere, in una sorta di riproposizione burlesca di antiche posizioni, da una parte, l’operaismo e lo spontaneismo degli anni Sessanta, legati ad una visione antipartitica, anarco-sindacalista, del processo rivoluzionario; oppure, dall’altra, i rinnovati tentativi di costruire “comitati d’azione”, i cui entusiasti fautori si ritenevano in grado, miracolosamente, di pervenire alla ripresa internazionale del movimento rivoluzionario attraverso la formazione di un eterogeneo (a dir poco!) partito di classe. Mentre i primi sorsero da un contesto materiale, quello del “miracolo economico” europeo, dei vertiginosi incrementi produttivi e dei bestiali ritmi di lavoro per le masse proletarie, e potevano rappresentare dunque, fatta esclusione dei tentativi intellettuali di teorizzazione antimarxista, un primo embrionale gradino verso una reale presa di coscienza rivoluzionaria, i secondi mostravano la totale incapacità di cogliere da un lato l’ampiezza della controrivoluzione e il grado di oppressione ideologica cui sottostava il proletariato, dall’altra il complesso processo che sta alla base della riorganizzazione dell’avanguardia rivoluzionaria. Come già lucidamente spiegato nel 1926, ogni tentativo di opporsi alla bufera per mezzo di espedienti organizzativi (fusioni temporanee di piccole organizzazioni di opposizione, manovre frazionistiche) sarebbe stato destinato all’insuccesso: si doveva al contrario e urgentemente metter mano a “un lavoro pregiudiziale di elaborazione di ideologia politica di sinistra internazionale, basata sulle esperienze eloquenti traversate dal Comintern” (13). Perciò, quando la cosiddetta destalinizzazione internazionale sembrò ai volontaristi di tutto il mondo l’occasione per riproporsi alle masse come gli eredi della tradizione rivoluzionaria e i veri restauratori “antidogmatici” e liberamente critici del marxismo, il nostro partito dovette reagire con la massima energia: “Quando l’ora sarà dalla storia segnata, la formazione dell’organo di classe non avverrà in una risibile costituente di gruppetti e di cenacoli che si dissero e si dicono antistalinisti e che oggi si dicano bene o male ‘anti-ventesimo congresso’. Il Partito, ucciso goccia a goccia da trent’anni di avversa bufera, non si ricompone come i cocktails della drogatura borghese. Un tale risultato, un tale supremo evento, non può che essere posto alla fine di un’ininterrotta unica linea, non segnata dal pensiero di un uomo o di una schiera di uomini, presenti ‘sulla piazza’, ma dalla storia coerente di una serie di generazioni. Soprattutto non deve sorgere da nostalgiche illusioni di successo, non fondato sulla incrollabile dottrinale certezza del corso rivoluzionario, che da secoli possediamo, ma sul basso soggettivo sfruttamento dell’annaspare, del vacillare altrui; che è misera, stupida, illusoria strada per un risultato storico ed immenso” (14).

 

 

28. Lo stalinismo terzomondista

 

Il secondo dopoguerra, ancor più che il primo, è certamente caratterizzato dal sorgere di violente lotte nelle ex-colonie e, in generale, in tutto il cosiddetto Terzo Mondo. Si è trattato, in larga misura, di lotte di “liberazione nazionale”, di ridefinizione del ruolo delle classi all’interno di quei paesi e, in una certa misura, di autentiche lotte di classe. Tutto ciò ha rappresentato la conseguenza dell’avvenuto erompere delle contraddizioni tra le nuove forze produttive sviluppatesi, grazie o nonostante la presenza imperialista, all’interno di rapporti patriarcali arcaici.

Non è mancato, né manca oggi, chi vuole cavalcare queste lotte in nome del “comunismo”. Lo stalinismo “storico” russo l’ha fatto, ed ha attivamente appoggiato finanziariamente e militarmente quelle rivolte, allo scopo di estendere la propria influenza imperialista su aree di mercato sempre più vaste. Esso ha cercato anche una giustificazione teorica, sostenendo che quello era l’unico modo per impedire il progredire mondiale dell’imperialismo a stelle e strisce, tacendo il fatto che, comunque, mai e poi mai verrebbe messa in discussione l’economia di mercato e il controllo militare di quei paesi e di quelle lotte.

Mentre dunque il XX Congresso del PCUS gettava nello sconforto milioni e milioni di proletari ingannati e di intellettuali in crisi di identità, le bandiere classiche dello stalinismo (socialismo in un solo paese; creazione di un mercato nazionale; rivoluzione “per tappe” di menscevica memoria: cfr. il capitolo 9 di questo studio) venivano riprese dai dirigenti dei movimenti di lotta e da innumerevoli schiere di illusi nelle metropoli. A nulla potevano ormai valere, anche su questo tema, le classiche posizioni dell’Internazionale, espresse nelle “Tesi sulla questione coloniale” nel corso del suo II Congresso (1920): “la dominazione straniera ostacola costantemente il libero sviluppo della vita sociale; perciò il primo passo della rivoluzione deve essere l’abbattimento di questa dominazione. Appoggiare la lotta per l’abbattimento della dominazione straniera non significa sottoscrivere le aspirazioni nazionali della borghesia indigena, ma aprire al proletariato delle colonie la via della sua liberazione”. E se le condizioni oggettive dello sviluppo e della maturazione della lotta di classe, ancora ai suoi primi passi, avrebbe reso impossibile la realizzazione del “comunismo” in questi paesi, un partito autenticamente comunista al potere avrebbe enormemente accelerato, grazie all’appoggio dato a esso dal proletariato delle metropoli, l’estendersi della rivoluzione all’intero pianeta.

Il modo in cui la limpida teoria marxista è stata stravolta nei riguardi della questione coloniale può essere seguito passo passo nelle guerre di liberazione nazionale nei paesi “arretrati”. In Cina, lo stalinismo – in questo caso perfettamente sintetizzato nelle figure storiche di Stalin e Mao – appoggiò il movimento nazionalista democratico-borghese: ciò che significò, come già si è visto, la consegna delle armi al nemico e il conseguente massacro di milioni di proletari, soprattutto nelle grandi città industrializzate. La vecchia e sempre attuale teoria dei “tre principi del popolo” di Sun Yat-Sen (15) – nazionalismo, democrazia, socialismo – veniva modificata nella teoria delle “tre tappe”. Queste “tappe”, nelle loro varianti locali, sono state adottate da tutte le successive rivoluzioni anticoloniali sotto le false bandiere del “socialismo”. La prima tappa è quella militare, e sancisce il principio nazionalistico della unificazione della “patria”. La seconda tappa è quella culturale, e deve servire per preparare il popolo alla democrazia elettiva. La terza tappa è la sintesi delle prime due, e rappresenta l’acquisito status di “paese socialista”. Mentre le ultime due “tappe” costituiscono l’eterno programma del terzomondismo, basterà sostituire la prima con la sua controparte, cioè l’antimperialismo nazionalistico borghese, e troviamo il manifesto di tutti i movimenti no global del XXI secolo. Ma dietro la lotta armata talora violentissima dei popoli di colore, e dietro le virulenze esclusivamente verbali degli antimperialisti occidentali, si trova l’unico punto di approdo possibile: la difesa della democrazia borghese, il pacifismo, il rispetto delle bandiere nazionali, la libertà di commercio. La “teoria della guerriglia”, che vuole estendere a tutto il mondo la rivolta anti-Usa senza toccare i presupposti economici dell’imperialismo mondiale, è figlia diretta dello stalinismo di mezzo secolo fa: sia essa agitata da Castro, da Guevara, da Marcos, dai movimenti contadini di tutti i paesi del Terzo Mondo, essa non può uscire dai limiti di una visione nazionale, e talvolta sotto-nazionale della lotta. A questa teoria e a questa pratica, noi opponiamo “il concetto e la pratica dell’internazionalismo […] al centro dell’attività teorica e pratica, di propaganda e proselitismo […]. Perché proprio su questo terreno, nell’ultimo secolo, la classe mondiale ha subìto la sconfitta più cocente: dalla bastarda teoria del ‘socialismo in un solo paese’ alla proclamazione delle ‘vie nazionali al socialismo’ fino a tutti gli episodi di ‘guerre fra i poveri’ o di artificiose contrapposizioni fra settori di una classe che può essere vittoriosa solo se è unita” (16).

 

 

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Note


 

1. C. Silvestri, Matteotti, Mussolini e il dramma italiano, ed. Cavallotti, Milano 1981.

2. A. Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria. Vol. I: 1919-1923, Editori Riuniti, pp. 543-44.

3. Cfr. “La lotta partigiana italiana fuori delle interpretazioni patriottarde”, Azione Comunista, n. 42 e 43, 1959.

4. Non è certo un caso che, nei casi in cui “partigiani comunisti” sembrarono sul punto di prendere possesso con la forza delle armi di piccoli comuni nelle campagne italiane, il PCI si sia affrettato ad agitare la carota, con la minaccia (poi più volte attuata) di usare il bastone.

5. “Il proletariato nella seconda guerra mondiale e nella ‘Resistenza’ antifascista”, Il programma comunista, n.10/1975.

6. Lenin, Opere complete, vol. 32, Editori Riuniti 1967, pagg. 447-49.

7. Ora in In difesa della continuità del programma comunista, ed. il programma comunista, 1989, pag. 178.

8. L’episodio è ripreso da “Il movimento operaio francese dal 1914 al 1921”, il programma comunista, n.15/1963.

9. “Thorez au Panthéon national!”, Le Prolétaire, n. 13, 1964.

10. F. Platone, “Vecchie e nuove vie della provocazione trotzkista”, Rinascita, aprile 1945.

11. I presupposti della cosiddetta “riorganizzazione scientifica del lavoro” furono perfettamente espressi già da Taylor: dimezzamento dei costi, riduzione del personale, raddoppio dei salari degli operai superstiti, triplicandone la produttività”. Cfr. F. W. Taylor, Processo a Taylor, a cura di D. Di Masi, ed. Olivares, Milano 1992.

12. “Le prospettive del dopoguerra in relazione alla Piattaforma del Partito”, Prometeo, n. 3, 1946, ora in Per l’organica sistemazione dei principi comunisti, ed. il programma comunista, pag.154.

13. “ La crisi del 1926 nel partito e nell’Internazionale”, Quaderni del Programma Comunista, Ed. Il programma comunista 1980, pag. 5-8.

14. Dialogato coi morti, Ed. Il programma comunista, 1956, pag. 6.

15. Si ricorderà che Sun Yat-Sen, autentico padre spirituale di Mao e presidente della Repubblica cinese dal 1911, aveva avanzato un programma di radicalismo borghese molto avanzato, col doppio scopo di cercare di evitare lo sviluppo del capitalismo e di conseguire una riforma agraria radicale (nazionalizzazione della terra): programma ampiamente analizzato e fatto a pezzi fin dal 1912 da Lenin.

16. “Non è con i ‘pii desideri’ che si fermerà la corsa distruttiva del capitalismo. Solo il proletariato internazionale guidato dal suo partito potrà farla finita una volta per tutte con il sistema del profitto, dello sfruttamento, della distruzione e delle guerre”, il programma comunista, n. 4, 2001.

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2009)

 

 

 

 

 

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