L'ingenua illusione antifascista per cui la politica statunitense, dopo il democratico cambio di governo di Washington, sarebbe stata meno aggressiva, è già crollata, mentre nella sinistra riformista tedesca, dopo il successo elettorale dei Verdi al parlamento del Baden-Württemberg e del Partito socialdemocratico (SPD) in Renania-Palatinato, brilla ancora un barlume di speranza in un cambio di direzione “socio-ecologico” e di “politica di pace” dopo il governo Merkel, grazie a una coalizione tra i Verdi, il Partito socialdemocratico e Die Linke (“La Sinistra”).

Allo stesso tempo, però, si diffonde anche un certo malessere: il tono, già non più “diplomatico”, diventa sempre più austero se il presidente americano Biden chiama “killer” il presidente russo Putin, se la Nato vuole respingere “l'approccio aggressivo” della Russia e se la politica estera tedesca reclama sempre nuove sanzioni contro il governo di Putin. Contemporaneamente, la Cina viene apertamente definita dall'Unione Europea “rivale” e “disturbatrice dell'ordine basato sulle regole” e il suo sviluppo economico deve essere ostacolato per mezzo di una nuova “strategia politico-commerciale”, vale a dire con misure protezionistiche. E se a ciò si aggiungono spostamenti di carri armati nella zona orientale della Germania, come si sono visti quest'anno in seguito alla manovra primaverile della Nato, per molte persone diventa tangibile la paura di una guerra reale, guerra che finora ha avuto luogo soltanto “lontano”, in televisione.

In questo contesto, anche all'interno del partito della “Sinistra” c'è al momento una disputa tra coloro che, per non perdere l'opportunità di far parte del prossimo governo federale, attenuano le critiche alla Nato e propongono l'invio di militari all'estero (ovviamente, soltanto con il mandato dell'ONU, nell'ambito del diritto europeo e “nell'applicazione dei diritti umani”), e i critici “di sinistra”, secondo i quali il Partito socialdemocratico e i Verdi “al momento [!] non sono partner alleati nella lotta contro il pericolo acuto di una guerra” (Volker Külow ed Ekkehard Lieberam, su Junge Welt del 16/03). Questi ultimi vedono nella “pericolosissima politica di accerchiamento e di scontro degli Stati Uniti e della NATO” la causa principale del pericolo di una guerra e si oppongono al progetto di “stabilire un'equidistanza” nel partito della “Sinistra”, nello “sforzo di equiparare gli Stati Uniti, la Russia e la Cina”. (Sevim Dagdelen e Ulla Jelpke, su Junge Welt dell'11/02). In questa critica assolutamente giusta agli Stati Uniti e alle ambizioni imperialiste tedesche, si manifesta tuttavia una concezione trasfigurata e derivante ancora dai tempi “realsocialisti”, tipica delle zone orientali del sistema mondiale imperialista.

Proprio come le stesse guerre criminali sono la prova schiacciante della necessità di un superamento storico dell'ordine sociale capitalistico, così l'atteggiamento nei confronti delle guerre imperialiste ha sempre costituito la linea di confine decisiva tra i veri comunisti internazionalisti e la “sinistra del capitale”. E spesso è stata proprio la “sinistra del capitale” quella che ha confezionato la carica ideologica decisiva con la quale la classe lavoratrice veniva riconciliata con il capitalismo e spinta sul campo di battaglia. Si pensi soltanto alla propaganda socialdemocratica della “tregua interna” per l'ipotetica “difesa della patria” contro la Russia zarista reazionaria nella Prima Guerra Mondiale o alla propaganda antifascista della democrazia borghese nella Seconda Guerra Mondiale. Per non finire annebbiati dalle molteplici nubi della propaganda, c’è dunque da fare luce sulle basi e sull'essenza della guerra imperialista.

Le basi economiche della guerra imperialista

Il materialismo storico ha dimostrato che le ragioni di una guerra non vanno cercate nelle dichiarazioni ideologiche e nell’espressione di volontà, ma nell’essenza dei rapporti di produzione della società.

Così come la politica è la manifestazione concentrata dell’economia, la guerra rappresenta la continuazione della politica con altri mezzi. In tutte le società divise in classi, la guerra serve al mantenimento di un dominio all’interno e all’espansione di questo dominio verso l’esterno. È stato il capitalismo, l’ultima e più produttiva società di classe, a rendere dinamico lo sviluppo della guerra, a renderla intrinseca al sistema. L’obbligo di espandersi, che scaturisce dalla stessa struttura economica (l’ampliamento della produzione dovuto alla concorrenza), e la disuguaglianza dello sviluppo politico ed economico degli Stati capitalisti sono motivi costanti di nuove guerre di ripartizione. Le guerre imperialiste del ventesimo secolo sono il prodotto della diffusione del capitalismo e della sua spartizione del mondo. Sono diventate condizione essenziale del capitalismo avanzato, non solo per la conquista di nuovi mercati, ma soprattutto come ultima via d’uscita dalla crisi, distruggendo le forze produttive in nome di nuovi cicli di accumulazione. L’esempio migliore a tal proposito è il ciclo di crescita successivo alla Seconda Guerra Mondiale, che fu relativamente stabile durante varie decenni (a tal proposito, si veda il nostro lavoro pluridecennale sul “Corso del capitalismo mondiale”).

Il declino del capitalismo si manifesta anche nella realtà con guerre continue in tutto il mondo (esclusi in gran parte, tuttavia, i centri capitalistici) e nella sempre più importante produzione di armamenti. Lo sviluppo forzato dalla crisi e dalla lotta di classe, sfociato nel capitalismo di Stato, ha dato all’economia di guerra un valore mai avuto prima. Nel nostro articolo “Capitalismo: un’economia per la guerra” scrivevamo: “Le spese militari sono produttive per il capitalismo in quanto fonti di immensi profitti, al pari delle spese per le infrastrutture e per l’edilizia. Il profitto è realizzato usando la forza-lavoro nei sofisticati armamenti come in ogni altra merce capitalistica. Il fatto che le armi abbiano un valore d’uso distruttivo non cambia assolutamente niente. […] Lo Stato, con la sua quasi inesauribile forza d’acquisto, con le sue enormi necessità, la sua pianificazione a lungo termine, la sua disponibilità, può associare generali e ingegneri, imprenditori e fisici, per inventare le future necessità di guerra. […] Con la stretta cooperazione fra l’industria e le forze armate, i governi promuovono il progresso della tecnologia industriale in ogni settore, dalla scienza dei materiali all’industria farmaceutica e a quella elettronica, e assicurano le migliori risorse tecniche alle imprese nazionali a tutto profitto della capacità concorrenziale” (pubblicato originariamente su “Il programma comunista” e diffuso come volantino alla manifestazione berlinese in ricordo di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, a gennaio 2020).

È significativo il fatto che molte innovazioni tecnologiche “civili” siano “prodotti di scarto” di armamenti: la Internet è l’esempio più recente e significativo. Ma non mancano altri esempi attuali. Un piano d’azione presentato dall’Unione Europea a febbraio 2021 per un “potenziamento del progresso tecnologico dell’Europa” mostra come la Germania e l’Unione Europea avanzino nel correlare ricerca e sviluppo civili e militari. Questo piano prevede, tra l’altro, l’elargizione di fondi per lo sviluppo alle imprese i cui prodotti possano essere utili al riarmo dell’Unione Europea. Un altro esempio di quanto variegata sia la militarizzazione dell’Unione Europea è costituito dalla “Direzione generale Industria della difesa e Spazio” (DG Defence), con la quale si vogliono mettere in connessione le zone militari più rilevanti dell’Unione. Il suo capo, Thierry Breton, ci spiega: “Si tratta semplicemente di difendere la posizione dell’Europa sulla scacchiera geostrategica del mondo” (Neues Deutschland del 23/03/2021). Si deduce automaticamente che quest’ambizione comune europea non può eliminare la persistente concorrenza imperialista interna: si veda a questo proposito la rivendicazione militare della potenza atomica francese, con la sua richiesta di una “autonomia strategica” dell’Unione Europea, e dall’altro lato, la diplomazia transatlantica dell’imperialismo tedesco, che aveva d’altronde già celebrato la sua nuova ascesa dopo la Seconda Guerra Mondiale, sulla scia degli USA.

Chi stabilisce l’orientamento strategico è risultato chiaro a marzo, con la visita a Bruxelles del nuovo Ministro degli Esteri americano, Blinken, che il rappresentante europeo degli Esteri Borell ha ossequiato debitamente: “Siamo tutti d’accordo anche sul voler supportare la massima partecipazione degli Stati Uniti all’iniziativa di difesa dell’Unione Europea e sul voler rafforzare il dialogo a riguardo” (Neues Deutschland del 26/03/2021). Il segretario generale della NATO Stoltenberg precisa, lodando quest’alleanza di guerra: “Nonostante le ripercussioni economiche del Covid-19, il 2020 è stato il sesto anno consecutivo in cui le spese militari degli Stati europei e in Canada sono aumentate” (Neues Deutschland del 17/03/2021).

Affinché gli affari proseguano senza intoppi, le armi vengono regolarmente utilizzate (ovvero sperimentate nella pratica) nelle varie guerre. Gli Stati Uniti sono i più grandi esportatori di armi del mondo con quasi il 40%, ancora di più della Russia. La Germania, in questa classifica, è ancora relativamente indietro con il 5,5%, ma lavora sistematicamente per scalarla. Secondo uno studio dell’Istituto di ricerca sulla pace (SIPRI), le esportazioni di armi della Repubblica tedesca dal 2011 al 2015 sono aumentate del 21%, quelle della Francia del 44%.

Il leitmotiv ideologico della guerra imperialista

Un fattore ideologico centrale del capitalismo, durante la sua ascesa, fu l’idea della nazione che avrebbe dovuto conseguire un’unità territoriale (economica, linguistica e culturale), negando allo stesso tempo le contraddizioni di classe. La sua carica sciovinista è, come sempre, elemento centrale della propaganda di guerra. E proprio così come lo Stato capitalista impose l’unità della società civile non solo in maniera repressiva, ma soprattutto ideologicamente per mezzo di belle promesse (libertà, benessere), anche nella propaganda di guerra capitalistica la promessa di libertà è stata fin dall’inizio essenziale (“antimonarchica” durante la Prima Guerra Mondiale, “antifascista” durante la Seconda).

Proprio con la Seconda Guerra Mondiale è manifesto come gli Stati imperialisti più deboli vogliano sia mobilitare la popolazione con una propaganda aggressiva (nazionalista, razzista) sia ottenere la complicità della classe lavoratrice promettendole bottini di guerra (esemplari furono i nazisti e il loro keynesismo di guerra). Le potenze imperialiste più stabili economicamente vanno in guerra con i “valori civili” tradizionali (si veda l’America del New Deal).

Mentre l’insurrezione proletaria giunse a conclusione della Prima Guerra Mondiale, anche se poi fu stroncata dal comando (social-)democratico e soprattutto in Germania e in Italia terminò nella controrivoluzione fascista, nella Seconda Guerra Mondiale la vittoria delle potenze “antifasciste” portò una stabilizzazione a livello mondiale dei rapporti capitalistici, che subito dopo la guerra risultavano solo leggermente scossi dalle lotte anticoloniali e, con il ritorno della crisi, da parziali conflitti di classe. La propaganda di guerra della seconda metà del ventesimo secolo fu presa in prestito all’unisono dall’arsenale di quest’antifascismo vittorioso.

Nel blocco orientale, la “democrazia antimperialista” avrebbe dovuto accattivarsi i movimenti nazionali ed estendere la sua influenza, così come ovviamente la “difesa del Socialismo”, o meglio del capitalista “Stato di tutto il popolo” russo e dei suoi ambiti di potere. Invece, gli Stati Uniti e gli Stati imperialisti da essi dipendenti, predicavano ininterrottamente “libertà e democrazia”, anche se in pratica sostenevano le dittature più truculente a salvaguardia della loro sfera di potere e di influenza.

La situazione attuale

Ciò che abbiamo appena descritto si è oggi radicalizzato a causa della crisi progressiva del sistema capitalistico. Se le nuove realtà di guerra si basano sulla fase imperialista del capitalismo apertasi all’inizio del ventesimo secolo, il loro aumento quantitativo attuale (guerre continue in tutto il mondo) si basa sulla crisi concreta e profonda del capitalismo. Se la conquista di un mercato mondiale fu elemento costitutivo dello sviluppo capitalistico-imperialistico, lo sviluppo della crisi conduce sempre di più al protezionismo e alla formazione di blocchi. La situazione conflittuale internazionale, conclusasi apparentemente con lo scioglimento del blocco orientale, si ripresenta di nuovo, come una nuova costellazione. La disparità di sviluppo genera nuovi rapporti di potere tra USA, Cina, Europa e Russia.

La Russia, ricca di materie prime, che ha potuto distaccarsi economicamente dall’occidente anche a causa dell’aumento del prezzo del petrolio a partire dal 2000, è tornata ad essere protagonista internazionale militarmente presente (Siria). Il tentativo iniziale di Putin di far parte della formazione europea, anche contro gli USA (una decina di anni fa, promuoveva l’idea di uno “spazio economico da Lisbona a Vladivostok”) è fallito, lasciando posto a una politica da grande potenza autonoma che punta sempre di più ad alleanze con la Cina. A ciò corrisponde anche il continuo calo di fatturato del commercio estero russo con la Germania. Anche la Cina lavora da 15 anni a questa parte per emanciparsi dall’occidente e stimola la produzione interna con finanziamenti statali alle industrie strategiche. La seconda economia nazionale al mondo, quasi in “pole position”, è riuscita a battere già l’anno scorso il record di surplus commerciale. Il mercato di sbocco cinese, il più importante insieme a quello degli USA per l’economia tedesca, dipendente dalle esportazioni, incalza con forza sul mercato mondiale, dove invece l’importanza dell’Europa diminuisce. Nel 2000, l’Europa contribuiva ancora all’economia globale con una quota del 23%, mentre per il 2030 si prevede un calo fino al 13%. Il protezionismo e i continui tentativi autarchici delle grosse potenze atrofizzano ancora più velocemente il mercato mondiale. Secondo uno studio del Peterson Institute, dal 2008 la partecipazione del commercio internazionale all’economia mondiale è diminuita a lungo termine per la prima volta dopo la Seconda Guerra Mondiale (Neues Deutschland del 19/01/2021).

Gli Stati Uniti, con le loro capacità tecnologiche e militari, sono ancora oggi la maggiore potenza mondiale e i protagonisti più aggressivi della politica imperialista. In planata economica, riescono a salvaguardare la valuta di riferimento del dollaro soltanto per mezzo delle guerre. Predicano uno sciovinismo aggressivo, evidente con Trump e il suo “America first”, e ora lanciano, con i democratici, il loro intero potenziale politico statale nel conflitto inter-imperialista (che figuraccia per l’antifascismo, che vedeva il Male soltanto in Trump!). Di conseguenza, fanno accelerare la militarizzazione a livello mondiale. Progettano, ad esempio, in Europa, un’ulteriore alleanza militare con Ucraina, Georgia e Moldavia, per incrementare la pressione sulla Russia, così come, nelle regioni asiatiche del Pacifico, cercano ulteriori partnership militari contro la Cina (le recenti vicende relative alla nascita dell’Aukus, l’alleanza Australia-Regno Unito-Stati Uniti, ne è la prova migliore).

Un’altra causa di guerre durature, devastazioni e ingovernabilità di intere regioni è il fatto che il capitalismo non riesce ad offrire prospettive di nuovi cicli di accumulazione al Vicino e Medio Oriente, distrutto in gran parte dalle guerre, e proprio lì tiene sottomessa militarmente la sovrappopolazione capitalistica.

L’imperialismo tedesco raggiunse la sua vitalità sulla scia degli Stati Uniti nel 1945. Affidando ad altri lo sporco lavoro militare, si è lanciato verso l’egemonia economica in Europa e ha costruito la propria influenza mondiale. Anche per questo la sua ideologia di guerra ha una connotazione democratica e da difensore dei diritti umani, e non solo per il suo retaggio storico. Non è un caso che il primo intervento in guerra dell’esercito tedesco nel 1999 in Jugoslavia sia stato approvato da un Ministro degli Esteri dei Verdi, con un’originale retorica antifascista. Del resto, Joschka Fischer, allora appartenente all’ala “radicale” dei Verdi, ora gestisce con la sua ditta di consulenza “Joschka Fischer & Company” la “continuazione della politica estera con altri mezzi”, come egli stesso ha dichiarato presuntuosamente: non a caso, BMW, Siemens, REWE, sono alcune delle ditte presenti nella sua lista di consulenze… “Offriamo alle imprese consulenze strategiche su condizioni generali in continuo cambio. Le mettiamo in contatto e favoriamo il dialogo reciproco, anche con protagonisti critici”. In questo modo Fischer descrive la sua attività, che rispecchia esattamente il carattere integrativo e “aperto” dell’imperialismo tedesco, che riesce a integrare senza problemi, nella sua forza innovatrice ideologica, anche aspetti come quello di genere e antirazzista, contro il nemico esterno. Meglio lasciare nella faretra le frecce aggressive e neonaziste!

In questo contesto, si pone automaticamente la domanda della reale capacità di guerra di una società fortemente individualista che oggigiorno si basa sì su un esercito professionale, invece che su un esercito di massa, ma che ha bisogno di una formazione ideologica aggressiva. Questo è uno dei motivi principali per cui oggi la Germania non ha una reale capacità di guerra ed è (ancora) subordinata al dominio degli Stati Uniti. Questa flessibilità dell’imperialismo tedesco termina però nei meandri della crisi economica e del conflitto di classe. L’egemonia dell’Europa da un lato e il destreggiarsi tra USA, Russia e Cina dall’altro, gli risultano sempre più difficili. La necessità di un attacco sociale alla classe lavoratrice si acuisce ancora di più a causa dell’attuale e complessa crisi. 

È infatti la classe lavoratrice a dover sopportare il peso maggiore della guerra e della militarizzazione e, allo stesso tempo, l’unica a possedere la forza necessaria alla conseguente lotta contro il sistema capitalistico fondato sulla guerra. Ed è proprio nei periodi di crisi di guerra che la classe lavoratrice ha dimostrato di poter sviluppare il proprio potenziale rivoluzionario. Ma c’è bisogno prima di tutto di un orientamento programmatico chiaro, come quello di Lenin e dei Bolscevichi alla fine della Prima Guerra Mondiale, con la soluzione della “trasformazione della guerra imperialista in guerra civile”. Soltanto con l’atteggiamento programmatico radicale di “classe contro classe” e di “guerra alla guerra” si può evitare che la classe lavoratrice venga declassata a massa manovrata dall’imperialismo.

La sinistra borghese (e stalinista), che ha trasformato, fino a renderli una caricatura, i suoi vecchi punti di vista pacifisti pro-Russia e pro-Cina in una nuova realtà imperialista (e che nemmeno si vergogna di attribuire ancora l’etichetta “socialista” alla grande potenza imperialista cinese, che con Mao riuscì a realizzare l’accumulazione originaria capitalista e ora appare al mercato mondiale come esportatrice in espansione di capitale) cerca in tutti i modi di impedire questo orientamento, reclamando un “grande movimento popolare contro la politica di guerra americana”.

Al sistema della guerra dell’imperialismo mondiale, può opporsi soltanto la lotta di classe proletaria, nel rifiuto di qualsiasi prospettiva nazionale e di qualsiasi alleanza con la borghesia, e il conseguente internazionalismo proletario!

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