Com’è noto, la Fincantieri ha ritirato il suo “piano” che prevedeva più di 2500 licenziamenti negli impianti di Sestri Ponente, Castellammare di Stabia, Riva Trigoso (senza contare le altre inevitabili migliaia nell’indotto). Lo ha dovuto fare, perché alla sua “dichiarazione di guerra” i lavoratori - fra cui moltissimi immigrati - hanno risposto con la propria: sono scesi subito in sciopero, hanno riempito le strade di Genova, di Napoli, di altre località con manifestazioni decise e non folkloristiche, hanno isolato e scavalcato i poliziotti e i becchini attivi da tempo nelle loro file, hanno messo a soqquadro i luoghi e i simboli delle istituzioni. Hanno fatto sentire la propria grande forza potenziale.

La lotta paga. Ma non basta: i lavoratori dovranno vigilare, perché – ritirato oggi – il “piano” della Fincantieri salterà fuori di certo domani, magari in forma leggermente diversa, o appena diluita grazie ai buoni uffici dei sindacati (compresi i finti estremisti della FIOM e delle loro dirigenze locali). La crisi in cui siamo immersi è crisi del modo di produzione capitalistico e non di questo o quel settore o, peggio ancora, il prodotto di questa o quella disonestà o incapacità individuale. Da salvare non sono la “cantieristica italiana”, l’“orgoglio di un settore-chiave”, la “tradizione di un lavoro apprezzato all’estero”! Sono i salari e dunque le vite delle migliaia di lavoratori dei cantieri e dell’indotto, piccolo contingente dell’enorme esercito di proletari nazionali e internazionali.

I lavoratori della Fincantieri dovranno vigilare, dovranno istituire solidi e preventivi legami con altri lavoratori in lotta o minacciati di “piani” simili, dovranno scrollarsi di dosso tutti i succhiasangue sindacali e politici, dovranno riconquistare una propria autonomia d’iniziativa, movimento, organizzazione. Si va alla guerra come alla guerra: e questa è una guerra – è una guerra di classe.

La rivolta operaia nei cantieri navali è solo l’annuncio della guerra di classe

Proletari, compagni!

Un’altra “dichiarazione di guerra”, dopo quella della Finmeccanica, è venuta dalla Fincantieri. Ha seguito lo stesso copione: ovvero l’attacco spietato che da anni viene scatenato in ogni settore produttivo, in ogni ambito pubblico o privato, cooperativo o precario, contro le condizioni di vita e di lavoro della nostra classe. Non c’è stato scampo: dai metalmeccanici ai lavoratori dei cantieri navali, dagli edili ai lavoratori del commercio, la condizione operaia è stata colpita in modo micidiale senza una risposta proporzionale – solo scioperi farsa, scioperi preavvisati, spezzettati, articolati da parte delle cosiddette organizzazioni sindacali, da anni sotto paga dei padroni e dello Stato. Così, secondo il piano di licenziamenti, altri 2551 lavoratori di Sestri Ponente, di Castellammare di Stabia, di Riva Trigoso, e di conseguenza altre migliaia nell’indotto, si sarebbero dovuti andare ad aggiungere alle schiere dei milioni di disoccupati, in cassa integrazione, all’esercito crescente di lavoratori messi fuori produzione per le esigenze del profitto d’impresa, se… se i proletari non avessero risposto allo stato di guerra dichiarata. Occorreva dare un segnale e questo segnale è partito, per tutta la classe e non solo per i lavoratori dei cantieri navali. La vergognosa conduzione sindacale dei licenziamenti, dei contratti peggiorativi dei metalmeccanici a Termini Imerese, a Pomigliano, a Mirafiori, con l’esplicito consenso di Cisl e Uil e con le farse dei referendum della Fiom, è stata così messa sotto i piedi: la rivolta è la dimostrazione che si può andare oltre, che si possono scavalcare gli istigatori del crumiraggio e della resa, è la dimostrazione che si può fare da sé con la propria determinazione e il proprio coraggio, che si può ottenere con la lotta ad oltranza ciò che anni di delegazioni comunali, regionali, sindacali e politiche hanno impedito (perché questo è il loro scopo). La pazienza è saltata, la rabbia ha finalmente preso il posto della rassegnazione e della solitudine a cui sono condannati i lavoratori quando si affidano ad avvocati, carte bollate, monti di pietà istituzionali.

Proletari, compagni!

La strada della lotta è l’unica che consente di andare a testa alta, di ritrovare la fiducia nelle proprie forze, di andare verso quell’organizzazione coesa e durevole che può sfidare qualsiasi attacco. L’azione di lotta, la rivolta spontanea ai danni del Comune e della Prefettura quali rappresentanti della direzione politica e repressiva, è solo un segnale diretto verso il futuro. Esso è stato immediatamente accolto anche dai lavoratori di Palermo, Ancona, Monfalcone, Porto Marghera, Trieste. E questa è già una vittoria: i lavoratori si sono riconosciuti in una classe, che ha gli stessi interessi immediati (quelli di sopravvivere oltre il profitto), hanno afferrato immediatamente che non la produzione a tutti i costi deve decidere della loro vita, che i licenziamenti, aumentando la produttività, decidono l’aumento dell’orario di lavoro, dei ritmi, della condizione di insicurezza, della precarietà dell’esistenza, che la concorrenza spietata tra aziende a livello internazionale nei cantieri navali (Corea del Sud, Taiwan, Germania, ovunque) produce solo la nostra miseria e la loro ricchezza. La via non deve essere quella dei licenziamenti, ma della drastica diminuzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Questa riduzione è assente ormai da un secolo dalle rivendicazioni operaie, e deve tornare a esserne al centro, per la nostra stessa sopravvivenza.

Proletari, compagni!

Per condurre una simile guerra di classe occorre però una forza coordinata straordinaria, un esercito di lavoratori disciplinato, diretto da un’avanguardia di classe, che abbia memoria delle poche vittorie e delle innumerevoli sconfitte.

Noi comunisti internazionalisti siamo quell’avanguardia. Non abbiamo mai smesso di indicare ai lavoratori la via della lotta di classe aperta e i metodi e gli obiettivi che le sono propri da centocinquant’anni: sciopero generale a oltranza, senza preavviso e senza limiti di tempo e spazio; rifiuto organizzato di ogni discriminazione in base a età, sesso o nazionalità; riduzione drastica dell’orario di lavoro a parità di salario; forti aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate; salario pieno a disoccupati, licenziati e immigrati; rifiuto organizzato di ogni forma di lavoro precario o in nero; lotta a ogni concertazione, compatibilità e sacrificio in nome dell’economia e degli interessi nazionali.

Noi comunisti internazionalisti sappiamo, perché la storia ce lo insegna, che verrà il momento in cui la nostra classe comprenderà che la difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro non può bastare e che è indispensabile, anche per evitare il massacro, passare al contrattacco: dalla quotidiana guerriglia economica all’autentica guerra di classe, che è guerra politica per la conquista del potere. Questa lotta sarà attuabile solo sotto la guida di un organo specifico che è il partito di classe, il nostro partito, l’unico che, nel corso dei decenni e di fronte alla controrivoluzione democratica, nazifascista e stalinista, abbia saputo mantenere fermi i principi che da sempre distinguono i comunisti da tutti gli altri: la lotta senza quartiere alla società del profitto e del capitale, l’internazionalismo, la necessità della violenta rottura rivoluzionaria e della presa del potere.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2011)

 

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