All’origine del movimento operaio, c’è stato un germogliare di associazioni per la difesa delle condizioni di vita e di lavoro, che si opponevano come classe alle classi dominanti e al loro Stato. Queste diverse forme di associazionismo (leghe operaie, federazioni di mestiere, associazioni mutualistiche) trovarono nelle Camere del Lavoro la forma organizzativa territoriale che sintetizzava, sviluppava e organizzava le esperienze di lotta di tutte le categorie e organizzazioni operaie. La Camera del Lavoro aveva come compito fondamentale quello di difendere, in qualsiasi circostanza, gli interessi economici dei lavoratori. Quello che caratterizzava in modo esclusivo la Camera del Lavoro era il metodo della lotta di classe aperta, dura, aspra, a volte sanguinosa, nei confronti delle classi dominanti. Quale che fosse l’importanza delle diverse Camere del Lavoro, esse rappresentavano un elemento fondamentale sia nei rapporti tra le classi sociali sia in quelli con con lo Stato borghese, sia sul piano organizzativo che su quello economico e politico. Quindi, si presentarono quasi immediatamente i tentativi di controllarle a fini di pace e consenso sociale. Questo fece sì che intorno ad esse si sviluppasse un’aspra lotta politica tra le diverse anime che attraversavano il movimento operaio (quella riformista-opportunista, quella anarchica e quella marxista rivoluzionaria) per assumerne il controllo e la guida. Anche la classe dominante borghese tentava di influenzarle attraverso le amministrazioni comunali, concedendo sussidi al bisogno e attraverso i suoi partiti cercando di cooptarla in un sistema di relazioni politiche e industriali quando questa era diretta da forze politiche riformiste; di attaccarla e anche tentare di scioglierla con la forza dello Stato quando questa mostrava caratteri spiccatamente classisti e rivoluzionari. All’interno della Camera del Lavoro, si distinguono quelle che diventeranno le associazioni di difesa economiche principali, il sindacato di mestiere prima, di categoria, generale e nazionale poi. L’atteggiamento della classe dominante e del suo Stato nei confronti delle organizzazioni sindacali della classe proletaria ha attraversato, secondo la periodizzazione che ne ha dato il nostro Partito, tre fasi: divieto-tolleranza-assoggettamento [1]. La prima fase, quella di divieto, è così descritta da Marx:

“La legislazione sul lavoro salariato, coniata fin dall’inizio sullo sfruttamento del lavoratore, e da allora a lui sempre ostile si apre in Inghilterra con lo Statute of Labourers di Edoardo III, 1349 al quale in Francia corrisponde l’ordinanza del 1350 promulgata in nome di Giovanni. Le legislazioni inglese e francese corrono parallele, e sono identiche per contenuto. […] Tutte le combinazioni, i contratti, i giuramenti ecc. coi quali muratori e falegnami si vincolano l’un l’altro, vengono dichiarati nulli e invalidi. La coalizione fra operai viene trattata come delitto grave dal secolo XIV fino al 1825, l’anno della revoca delle leggi contro le coalizioni. […] Le crudeli leggi contro le coalizioni caddero nel 1825 di fronte all’atteggiamento minaccioso del proletariato. Ma solo in parte. Alcuni bei residui degli antichi statuti non scomparvero prima del 1859. Infine, l’Atto del parlamento del 29 giugno 1871 pretese di eliminare le ultime tracce di questa legislazione di classe mediante il riconoscimento giuridico delle Trades’ Unions. Ma una legge della stessa data (An act to amend the criminal law relating to violence, threats and molestation) ristabilì di fatto la situazione precedente in forma nuova. Con questo gioco di prestigio parlamentare, i mezzi dei quali gli operai possono servirsi in uno sciopero […] vengono sottratti al diritto comune e sottoposti a una legislazione penale di emergenza […]” [2].

Quanto alla Francia, così continua Marx:

“Dai primi inizi della tempesta rivoluzionaria, la borghesia francese osò sottrarre nuovamente agli operai il diritto di associazione solo da poco conquistato. Con decreto del 14 giugno 1791, essa proclamò ‘lesiva della libertà e della dichiarazione dei diritti dell’uomo’ e punibile con 500 livres di ammenda e la privazione per un anno dei diritti di cittadinanza attiva, ogni coalizione fra operai” [3].  In questa prima fase, in cui le organizzazioni della classe operaia e gli scioperi sono considerati fuorilegge (essendo i proletari dei veri e propri “senza riserve”, privi di ogni risorsa), lo scontro di classe raggiunge asprezze terribili: la lotta di classe assume immediatamente carattere politico, è una lotta per la vita o per la morte, e la classe dominante borghese e il suo Stato non mancano di mostrare il suo volto feroce e sanguinario. Le manifestazioni contro il carovita (per esempio, a Milano l’8 maggio 1898) sono represse nel sangue dall’esercito, che prende a cannonate e a colpi di mitraglia i proletari che manifestano, facendo 80 morti, 450 feriti e 2000 arresti (secondo i resoconti ufficiali:, secondo altri resoconti, i morti sono 350 e i feriti circa 1000). La città di Milano è messa sotto assedio, la Camera del Lavoro viene immediatamente sciolta dal sanguinario gen. Bava Beccaris, che in segno di riconoscimento per l’eccidio di proletari viene nominato senatore del Regno… del Capitale.

La seconda fase, quella della tolleranza, è la fase dell’espansione del capitalismo, del periodo coloniale, nel quale la borghesia grazie anche ai grandi profitti ottenuti dal saccheggio dei “popoli colorati” dell’Africa e dell’Estremo Oriente (Cina-India), può elargire ad una parte della classe operaia il famigerato “piatto di lenticchie”, e creare così un’aristocrazia operaia opportunista e incline al compromesso con la classe dominante borghese. E’ anche il periodo in cui, fallito il tentativo di distruggere violentemente le organizzazioni operaie e di mantenere fuorilegge lo sciopero, la borghesia e il suo Stato avviano un lento processo di penetrazione ideologica e politica del movimento operaio attraverso la costruzione di sindacati gialli [4] e di sindacati bianchi [5]; quel che è peggio, nelle cittadelle rosse delle Camere del Lavoro penetra l’opportunismo riformista e revisionista che vincola l’azione della classe operaia alla sola lotta economica compatibile con lo sviluppo del capitalismo e con l’interesse aziendale e nazionale. Nelle fabbriche si formano i primi organismi misti di lavoratori e imprenditori, per disciplinare e gestire la forza-lavoro. Si avvia così l’epoca delle relazioni sindacali e industriali per tentare di frenare quella che la classe dominante borghese definisce la “mania scioperaiola”, cioè la determinazione proletaria a difendere con tutti i mezzi le proprie condizioni di vita e di lavoro. Prototipo di questi organismi è stata l’istituzione del “Collegio dei probiviri” nel giugno 1893: una magistratura speciale che aveva il compito di trovare una soluzione “equa” all’antagonismo di classe. Poi, nel 1907, abbiamo i “concordati di tariffa” (primo tipo di contratto collettivo) e le “Commissioni interne”, si sperimentano le “Commissioni di sciopero”, e infine si arriva al primo riconoscimento giuridico del sindacato. E’ l’atto finale di un percorso durante il quale il movimento proletario utilizza i metodi della lotta di classe nella sua difesa contro lo sfruttamento capitalista, ma, nello stesso tempo, i suoi organismi dirigenti sono catturati dall’ideologia democratica, riformista e opportunista, e si danno al compromesso con la classe dominante borghese.

Il periodo di tolleranza si chiude con l’entrata del Capitale nella fase imperialista. Ci saranno così l’esplosione della lotta di classe nel primo dopoguerra, il “biennio rosso” (1919-1920), la sconfitta del movimento operaio per opera del riformismo socialista che venne meno ai suoi compiti storici, la reazione borghese, l’apparizione dei sindacati fascisti con etichetta tricolore in opposizione a quelli rossi, la distruzione delle Camere del Lavoro. Con l’avvento del fascismo, si avranno così il generale riconoscimento giuridico del sindacato e la sua sottomissione allo Stato borghese: sciolte le commissione interne, i sindacati fascisti vengono riconosciuti come unici firmatari del contratto di lavoro, e viene introdotta  la “delega” al padronato e agli uffici statali: cioè la riscossione obbligatoria, tramite prelievo diretto da parte del padrone, dal salario in busta paga, dei contributi che gli operai prima versavano volontariamente e liberamente alle organizzazioni sindacali, eliminando così il rapporto diretto e di fiducia tra organismo sindacale e operai e distruggendo anche l’indipendenza economica del sindacato. Lo sciopero venne vietato e punito come delitto contro l’economia nazionale, e infine, nel 1927, i riformisti socialisti che dirigevano la Confederazione delle Camere del Lavoro (CGL) e avevano tradito le lotte operaie liquidarono l’organizzazione sindacale. Queste trasformazioni segnano uno spartiacque storico irreversibile, con la conquista e l’imprigionamento del sindacato nello Stato borghese, l’assoggettamento all’economia nazionale e alle compatibilità aziendali. La lotta di classe viene abolita “per decreto” e si cerca d’integrare le masse operaie allo Stato, ritenendo superato il contrasto tra Capitale e Lavoro: dovevano regnare l’armonia e la pace sociale.

La catastrofe della seconda guerra imperialista, i grandi scioperi del marzo 1943, del novembre-dicembre 1943 e del marzo 1944, il fallimento del fascismo di nazionalizzare la classe operaia, di integrarla nello Stato e di rendere “superata” la lotta di classe, convinsero la borghesia (anche quella più retriva  e conservatrice) che un accordo con i vecchi dirigenti del sindacalismo riformista prefascista doveva essere raggiunto, per incanalare in un senso favorevole alla classe dominante capitalista le poderose lotte che si annunciavano. Subito dopo la messa in disparte di Mussolini il 25 luglio 1943, con la regia di Leopoldo Piccardi, nuovo Ministro dell’Industria, del Commercio e del Lavoro del Governo Badoglio, i sindacati fascisti sono commissariati, e a guidarli sono messi l’opportunista socialista riformista Buozzi (alla testa della Confederazione dei lavoratori dell’industria), l’interclassista e fautore dell’armonia tra le classi sociali Grandi (alla testa della Confederazione dell’agricoltura) e lo stalinista Di Vittorio fautore della missione nazionale della classe operaia (alla testa dei braccianti). Sarà proprio l’opportunista Buozzi, insieme al Commissario di Confindustria Mazzini, a firmare il 2 settembre 1943 l’accordo per la ricostituzione delle Commissioni Interne nelle fabbriche, come unica forma di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro. Il  9 giugno del 1944 con il “Patto di Roma” nasce il nuovo sindacato nazionale, libero e democratico. La gloriosa Camera del Lavoro  (CGL) viene trasformata  in Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL). Compito di  questo nuovo sindacato non è più quello di difendere con tutti i mezzi che la lotta di classe mette a disposizione le condizioni di vita e di lavoro del proletariato, ma quello di impegnare il proletariato nell’opera di ricostruzione dell’economia capitalista nazionale, sottomettendolo alle sue esigenze. Questo nuovo sindacato, che si poneva il compito di nazionalizzare la classe operaia, è stato definito dal nostro partito “sindacato tricolore”, cucito sul “modello Mussolini”: un’organizzazione che, fallita la via fascista, cercava per la via democratica di sottomettere la classe operaia alle esigenze del Capitale – degna erede, dunque, del sindacalismo fascista nemico della lotta di classe e degli interessi immediati e storici della classe proletaria. Esageriamo? Tutt’altro!

Nell’introduzione della “Carta del Lavoro” fascista, si legge: “Il bene dello Stato è dunque da anteporre a quello degli individui isolati o dei gruppi di individui che compongono la nazione italiana. A questo concetto è informata non solo la Carta del Lavoro, ma tutta la politica fascista” […]. Al punto III, troviamo scritto: “L’organizzazione sindacale o professionale è libera. Ma solo il sindacato legalmente riconosciuto e sottoposto al controllo dello Stato ha il diritto di rappresentare legalmente tutta la categoria di datori di lavoro o lavoratori […]; di stipulare contratti collettivi di lavoro obbligatori per tutti gli appartenenti alla categoria; di imporre contributi […]”. Al punto IV, troviamo scritto: “Nel contratto collettivo di lavoro, trova la sua espressione concreta la solidarietà fra i vari fattori della produzione, mediante la conciliazione degli opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori […]”. E, al punto V: “La Magistratura del lavoro è l’organo con cui lo Stato interviene a regolare le controversie del lavoro […]”.

Passiamo ora allo Statuto della nuova Confederazione Generale Italiana del Lavoro. L’art.1 dichiara: “La confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) è una organizzazione nazionale  di lavoratori. Essa organizza i lavoratori che […] accettando e praticando i principi del proprio statuto, considerano la fedeltà alla libertà e alla democrazia fondamento perenne dell’attività sindacale […]. La CGIL pone a base del suo programma e della sua azione la Costituzione italiana […]”. A sua volta, l’art.39 della Costituzione afferma: “[…] I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono rappresentare unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. E l’art. 40: “Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”. D’altra parte, la Costituzione (art.1) afferma: “La Repubblica italiana è fondata sul lavoro”, il che per il comunismo non ha altro significato che quello di “essere fondata sullo sfruttamento del lavoro salariato”.

E’ poi proprio confrontando gli atti costitutivi della CGL e della CGIL (oltre che gli articoli della “Costituzione nata dalla Resistenza”) che si vede la totale diversità e finalità delle due organizzazioni e la continuità sostanziale tra la nuova CGIL e i sindacati fascisti.

Nello statuto della CGL rossa (10 dicembre1924), all’art.1 si afferma: “E’ costituita in Italia la Confederazione Generale del Lavoro per organizzare e disciplinare la lotta della classe lavoratrice contro lo sfruttamento capitalistico della produzione e del lavoro; e per sviluppare nella classe stessa le capacità morali, tecniche, e politiche che la debbono portare al governo della produzione socialmente ordinata e all’amministrazione degli interessi pubblici generali”. E nella parte finale dell’art. 31: “[la CGL] organizza il movimento proletario nel campo della resistenza, per modo che alle lotte di categoria subentrino sempre maggiormente le lotte di insieme, tendenti a elevare il tenore di vita di tutta la classe lavoratrice e dare a questa la convinzione che ogni miglioramento conseguito sul campo del salario mediante la lotta di categoria a lungo andare è destinato a essere vano, ove essa classe lavoratrice non proceda con una più stretta azione contro il potere politico ed economico, a trasformare radicalmente l’istituto della proprietà privata”.

Ora, gli elementi fondamentali di continuità tra sindacalismo fascista e sindacalismo post-fascista tricolore sono: a) il riconoscimento giuridico del sindacato da parte dello Stato; b) il riconoscimento giuridico del contratto di lavoro; c) la conciliazione tra le classi sociali (o pace sociale nell’interesse della patria o del paese o dell’azienda, che in ultima analisi altro non significa che sottomissione della classe operaia agli interessi del Capitale); d) la trasformazione dello sciopero (il mezzo principale di lotta di difesa di cui dispone la classe operaia), che il fascismo vietava per legge, in una pratica esercitatile solo nell’ambito delle leggi che lo regolano, affidata ai “sindacati tricolori” per controllare che non fuoriesca dalle compatibilità aziendali e nazionali e per incanalarlo a sostegno degli interessi borghesi attraverso l’autoregolamentazione, la frammentazione, l’articolazione e la diluizione nel tempo; d) la “delega” al padronato e agli uffici statali della riscossione dei contributi degli iscritti al sindacato, tramite prelievo direttamente in busta paga sul salario.

Proprio quest’ultimo fatto mette nelle mani della borghesia e del suo Stato le casse del sindacato, ne vanifica l’indipendenza economica  ed è foriero di pace sociale e di rinuncia per sempre della lotta di classe. Già nell’immediato secondo dopoguerra, gli operai più combattivi, che appartenevano ancora alla generazione della CGL rossa, si rendevano conto che il sistema della “delega” ricordava troppo da vicino l’impostazione fascista e di fatto vanificava l’indipendenza del sindacato mettendolo nelle mani dei padroni. Alle loro rimostranze, i “nuovi” sindacalisti democratici e nazionali rispondevano che “questo sistema di versamenti e di finanziamento è stata una delle iniziative più indovinate del fascismo” [6]. Negli anni ‘60 del secolo scorso, su questo metodo di finanziamento, noi scrivevamo: “Questo sistema di raccolta merita una critica a sé sia per il suo effetto sul lavoratore, sia per il riconoscimento che in tal modo la classe padronale apertamente dà non solo di non aver più alcun timore dei sindacati, ma di considerarli come organi di conciliazione permanenti entro la quale la classe operaia deve essere convogliata per poterla meglio controllare. Le direzioni si incaricheranno dunque di interpellare i lavoratori circa il sindacato a cui preferiscono iscriversi, al fine di procedere alle trattenute mensili. E’ inutile osservare quale arma di ricatto sia stata così offerta loro; ciò che è ben più grave è il controllo che i capitalisti potranno esercitare su una buona parte della organizzazione e che non mancherà di dare i suoi frutti” [7].

A cavallo tra il 1966 e il 1967, mentre si attua il tentativo di unificazione sindacale tra CGIL-CISL-UIL, il nostro Partito affronta di petto la questione delle “deleghe”, valutandola come un ulteriore passo della CGIL verso l’inserimento nello Stato borghese. La CGIL era ancora legata a metodi organizzativi che richiamavano l’epoca della sua fondazione, ma nel 1966 decideva di rinunciare anche a queste parvenze formali, sebbene da tempo avesse rigettato i metodi e i contenuti della lotta di classe. Con l’introduzione della delega, si passava dal vecchio sistema di riscossione attraverso i collettori – il contributo in denaro che i salariati donavano volontariamente per l’iscrizione all’organizzazione sindacale – a quello con “trattenuta” sulla busta paga. Questo passaggio rappresentava una rottura di quel rapporto genuino che è rappresentato dal collettore di reparto: unico metodo per mantenere un contatto continuo e costante tra operai organizzati e sindacati, evitando in questo modo la burocratizzazione stessa del sindacato e nello stesso tempo per coinvolgere direttamente gli operai alla soluzione diretta dei loro problemi. La “delega” non fa altro che sancire l’atto di vendita dell’organismo sindacale ai padroni, i quali possono così controllarlo direttamente e dormire sonni tranquilli in quanto la pace all’interno dell’azienda è assicurata (fino a quando gli operai lo permetteranno).

La “delega” alle direzioni aziendali delle riscossioni dei contributi sindacali dei loro dipendenti era presentata dai tre sindacati come una geniale innovazione. In realtà, era un vecchiume, tanto che negli anni precedenti la prima guerra mondiale, negli Stati Uniti, la supercorrotta AFL aveva tentato d’imporla localmente, ma era stata dissuasa dall’energica protesta dei settori più coscienti e combattivi della classe lavoratrice: la “delega” (o check-off), disse De Leon [8], avrebbe fatto del padrone una specie di tesoriere del sindacato. Varando la “delega”, i tre sindacati hanno quindi ripreso la tradizione sabotatrice delle più vendute organizzazioni USA e del loro ossequio agli interessi padronali.

D’altra parte, la delega era contemplata nella legislazione fascista. Scriveva infatti, nel 1926, Giacomo  Suardo, allora Presidente del Senato, in Mussolini e le Corporazioni (p.28): “Le associazioni sindacali legalmente riconosciute hanno facoltà di imporre ai consociati che rappresentano, vi siano o non iscritti, un contributo annuo non superiore ad una giornata di lavoro. Per l’esazione di tale contributo si applicano le norme stabilite dalla legge per la riscossione delle imposte comunali. Le quote dei lavoratori sono riscosse mediante ritenute sui salari o stipendi e versate alle casse delle associazioni sindacali” [9].

Gli faceva eco, l’anno dopo, Giuseppe Bottai, Ministro delle Corporazioni, in L’ordinamento corporativo dello Stato (pag.63): “La base tipica della gestione finanziaria è rappresentata dai contributi sindacali. La riscossione di questi avviene per il tramite dei datori di lavoro, che sono tenuti a corrispondere anche le quote dai loro dipendenti rimborsandosi in seguito per ritenuta” [10]. Dunque, i moderni sindacalisti democratici e post-fascisti le loro novità sono andati a prenderle dritte dritte nel sacrario dell’ideologia corporativa fascista e, gesuiti come sono, hanno fatto della “delega un… omaggio alla libera scelta: s’invita cioè l’operaio a delegarne il compito al centromeccanografico dell’azienda, ma se si rifiuta sarà, nel caso migliore, guardato a vista come pecora nera e, nel peggiore, non gli sarà rinnovata la tessera e sarà espulso dall’organizzazione economica. La caccia dei bonzi della CISL, UIL e CGIL a caccia dei comunisti e dei loro simpatizzanti organizzati nei sindacati è aperta.

Il nostro Partito si mobilitò allora in una dura battaglia contro l’utilizzo della delega fra i proletari, nelle assemblee e negli scioperi cui partecipavano i militanti: l’invito a non firmare le deleghe e a versare direttamente al sindacato le quote è pressante, e numerosi sono i nostri volantini che hanno queste parole d’ordine. In essi, si ribadisce che l’unico vecchio e sano modo per iscriversi al sindacato è quello di andare direttamente alla Camera del Lavoro, oppure di nominare direttamente compagni di lavoro di fiducia che si assumono il compito di collettori. Così era nato il sindacato di classe e questo era l’unico modo per farlo ridiventare di classe: fuori i bonzi, che per una delega si vendono al capitale, e rifiuto della stessa – non per una questione formale, di puntiglio, ma perché è l’unica via che porterà alla riorganizzazione del sindacato di classe, l’unico strumento per contrastare il fascismo padronale e sindacale e difendere realmente gli interessi di classe del proletariato.

Certo, vi fu allora dell’attivismo nella pretesa di mobilitare strati non irrilevanti del proletariato nella situazione di allora, come errata era la valutazione che si dava, che considerava l’introduzione della delega come un prodotto dello smantellamento dei pochi residui di “rosso” rimasto ancora appiccicato alla CGIL, dimenticando l’analisi compiuta dal partito sull’evoluzione dei sindacati nel procedere dell’imperialismo e della controrivoluzione staliniana [11]. Ma questo errore di tipo attivistico fu poi corretto con le “Tesi sindacali” del 1972.

Negli anni ’70 del ‘900, con lo “Statuto dei lavoratori”, il metodo di finanziamento tramite “delega” veniva generalizzato a tutte le organizzazioni sindacali firmatarie di contratti collettivi di lavoro. Inoltre, lo “Statuto” aggiungeva un'altra forma di finanziamento ai sindacati tricolori: quella dei “permessi retribuiti” ai dirigenti sindacali e ai Rappresentanti Sindacali Unitari (RSU), i quali tutti insieme vanno a formare uno strato di burocrati al soldo delle aziende e perciò nemici della lotta di classe. Quindi, in questa fase storica (fase imperialista del Capitale), l’assoggettamento dei sindacati allo Stato borghese e al Capitale è al tempo stesso politica, ideologica, giuridica ed economica: per questo, il sindacato tricolore è uno ostacolo da abbattere per la ripresa della lotta di classe. Il compito e la funzione dei “sindacati tricolori” sono stati spiegati bene da Bombassei, vicepresidente di Confindustria per i rapporti sindacali: “Il compito delle relazioni industriali è di determinare le condizioni per una maggiore competitività delle imprese […]” [12]. Da parte sua, Marchionne, amministratore delegato Fiat, dice: “I sindacati [sono chiamati] ad assumersi più responsabilità nella gestione degli stabilimenti” [13]. E il segretario della CISL Raffaele Bonanni: “Il cuore della produttività delle aziende sta nel fatto banale ma essenziale dell’utilizzo degli impianti […] l’azienda deve poter contare sullo sfruttamento pieno degli impianti” [14]. Da par sua, il ministro Tremonti dichiara: “Il conflitto di classe non c’è più. Addio all’opposizione tra capitale e lavoro. Oggi c’è il senso crescente dell’interesse comune, l’idea che siamo tutti sella stessa barca” [15].

Al ministro che usa la metafora della “barca” per indicare il superamento della lotta di classe e fare l’apologia dell’armonia tra le classi sociali, noi rispondiamo con la parafrasi di un nostro scritto[16], ricordando che, mentre la sua classe sociale (con il suo codazzo di servi) se ne sta comodamente  sul ponte di comando, i rematori salariati (proletari “senza riserve”) sono incatenati nella pancia della “barca-galera”, destinati ad affondare con essa quando l’impresa capitalista affonda, mentre il Capitale salpa (delocalizza) per altre “imprese-barche-galere”.

La lotta di classe non trova la sua soluzione storica nell’armonia tra le classi sociali, ma nella dittatura proletaria. Mentre Maurizio Landini, segretario della FIOM, dice: “Noi siamo disponibili a tutto, non a ridurre i diritti” [17], il Ministro Sacconi dichiara: “Le parti devono avere il coraggio di derogare agli stessi contratti nazionali e, un domani, anche a pezzi importanti dello Statuto dei lavoratori” [18].

Dunque, il cerchio si è chiuso: il compito dei sindacati nazionali “tricolori” cuciti sul modello Mussolini è quello di essere i guardiani del Capitale nelle fabbriche, di controllare che gli operai vengano sfruttati  per tutto il tempo che stanno nei luoghi di lavoro, fino a che l’ultima goccia di sangue scorre nelle loro vene. A loro è richiesto (ed essi obbediscono ben volentieri!) di svolgere la stessa funzione che i kapò svolgevano nei campi di concentramento del Capitale. La crisi che attanaglia il capitalismo mondiale dovrà portare necessariamente anche se non in maniera meccanica all’esplodere della lotta di classe aperta, aspra, dura, violenta, e insieme con essa dovrà ripresentarsi sulla scena della storia “un ampio e numeroso proletariato di salariati puri in lotta aperta contro il regime borghese” [19]. E questa fase di ripresa della lotta di classe non potrà non “coincidere col rifiorire di un associazionismo economico sindacale delle masse” [20], fatto di organismi di difesa economica indipendenti, ad adesione volontaria e fuori dalle influenze della classe dominante borghese, del suo Stato e dei suoi partiti – organismi di difesa economica sui quali il nostro Partito dovrà estendere la propria influenza, contrapponendola  a quella degli opportunisti, per prenderne la testa e la direzione e far così trascrescere le lotte economiche in lotta politica per l’abbattimento del Capitale e l’instaurazione della dittatura proletaria. Queste organizzazioni di difesa economica hanno nello sciopero il principale mezzo di lotta, ma devono sapere che per essere efficace quest’arma deve essere usata senza preavviso, senza limiti di tempo e di spazio – deve insomma essere considerata per quello che è: un’arma in mano alla classe operaia nella guerra di classe, e non un “diritto”, che può essere “regolamentato” o “temporaneamente sospeso”, o – peggio ancora – “autoregolamentato”. E’importante sapere che, nella lotta contro i padroni, è necessario “resistere un minuto di più”: quindi, è fondamentale essere anche economicamente indipendenti. In previsione degli scioperi, l’organizzazione si dovrà dotare di fondi che si trasformino in casse di sciopero per sostenere collettivamente tutti i lavoratori (senza distinzioni arbitrarie) e tutti coloro che vivono di salario. I soldi così raccolti direttamente “senza nessuna delega”, attraverso i fiduciari di reparto o di azienda che rispondono direttamente ai loro compagni di lavoro, serviranno a sostenere l’organizzazione stessa, che ha bisogno di personale per sviluppare la propria attività ordinaria (propaganda, mobilitazione, ecc.) e per sostenere i lavoratori in lotta (tutela legale, sostegno individuale a chi subisce la repressione lecita e illecita della borghesia, preparazione e distribuzione dei mezzi di sussistenza e sopravvivenza per gli scioperanti, ecc.).

Note:

[1] Cfr. il nostro testo “Forza violenza dittatura nella lotta di classe” (1946-1948), in Partito e classe, Edizioni Il programma comunista, pag. 113.

[2] Marx, Il Capitale, Libro I, Cap. XXIV, UTET, pag. 924-27.

[3] Idem, pag. 928.

[4] Sono chiamati gialli i sindacati organizzati direttamente dal padronato per contrastare i sindacati rossi o quelli di classe spuria, né proletaria né borghese, come i mezzadri nell’agricoltura che si pongono in concorrenza con i braccianti, veri proletari della terra.      

[5] Sono chiamati bianchi i sindacati d’ispirazione cattolica fautori della pace sociale e dell’armonia tra le classi.

[6] Cfr. Battaglia Comunista, n. 1, 10-17 gennaio 1946.

[7] “Che cos’è, dunque, il ‘nuovo corso’ sindacale?”, Il Programma Comunista, n.12/1961.

[8] Daniel De Leon, socialista americano, redattore del Daily People, organo del Socialist Labor Party of America.

[9] Cit. in “Gratta la pelle democratica e ci troverai il fascista”, Il Programma Comunista, n. 5/1967.

[10] Cit. in idem.

[11] Cfr. “Per il risorgere di un’ala rivoluzionaria nella CGIL”, in Spartaco, supplemento a Il Programma Comunista, n. 3/1967.

[12] Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2010.

[13] La Stampa, 6 novembre 2010.

[14] La Stampa, 27 novembre 2010.

[15] La Stampa, 29agosto 2009.

[16] Cfr. “Anima del cavallo vapore”, Il Programma Comunista, n. 5/1953.

[17] La Stampa, 19 giugno 2010.

[18] Il Sole 24 Ore, 30 giugno 2010.

[19] Cfr. la premessa al nostro testo “Forza violenza dittatura nella lotta di classe” (1946-1948), in Partito e classe, Edizioni Il programma comunista, pag. 78.

[20] Cfr. “Riunione di Firenze. 8-9 settembre 1951”, in Per l’organica sistemazione dei principi comunisti, Edizioni Il programma comunista, pag. 18.

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2011)

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