Chi l'avrebbe mai detto! L'amministratore delegato di Telecom legge Marx. Considerando le prebende astronomiche di questo povero suddito del Capitale anonimo, dubitiamo che questa passione per gli scritti del red terror doctor sia sfogo a  pruriti sovversivi sopravvissuti ai tempi della gioventù, quando “tutti siamo stati socialisti”. Piuttosto è probabile che una citazione di Marx faccia sempre colpo in certi ambienti, dove immaginiamo si gareggi nell'esibire larghe vedute sulle questioni sociali e interesse per l'Arte e la Cultura. Che eleganza! Che classe, appunto!

Appare al confronto meno fasullo il faccendiere – più fortunato e furbo che geniale – cui è riuscita l'impresa di mettere le mani su mezza Italia, governo compreso, e non importa come, perché ha saputo incarnare e realizzare le ambizioni dei suoi pari che per questo lo hanno eletto a modello e simbolo. E non passa giorno senza che costui regali una battuta contro i “comunisti” che si nascondono ovunque sotto le mentite spoglie di un cantante, una suora, un attore, un conduttore di talk show. Non crediamo che il Nostro abbia mai preso in mano un'opera di Marx senza rischiare di vomitare, tuttavia lo ha pubblicato... C'è sempre un amministratore Telecom che ha il fegato di leggerlo, e poi, appunto, ci sono “comunisti” dappertutto. Che anche l'amministratore Telecom sia “comunista”? No, ovviamente, ma meno fesso di molti “comunisti” dichiarati. Almeno lui Marx un po' l'ha letto...

Il top manager si è lanciato nell'ardua citazione durante un dibattito televisivo dove si discuteva del nuovo libro di un giornalista di Repubblica in cui, dati alla mano, si documenta la perdita di potere economico e la crescente precarizzazione del lavoro dipendente in genere, e se ne paventano gli effetti dirompenti sugli equilibri sociali (M. Panara, Il male oscuro dell'Occidente, Laterza). La causa viene individuata nel progresso tecnologico che “libera” lavoro, oltre che nella globalizzazione che consente al Capitale di scegliere di produrre dove il “vantaggio comparato” è maggiore, a scapito dei livelli occupazionali dei Paesi di vecchio capitalismo. Poiché la questione veniva posta dal giornalista in termini drammatici, l'amministratore telefonico ha pensato bene di riportare la serenità citando, appunto, Marx. Rivolto al giornalista, si è detto sorpreso che questi non avesse citato nel suo libro un passo (non precisato) dell'Ideologia tedesca in cui Marx e Engels affermano che la tecnologia affrancherà l'uomo dalla schiavitù del lavoro, e gli permetterà di realizzare se stesso in molteplici attività veramente libere senza essere incatenato per tutta la vita ad una funzione.

A quel punto, timidamente, il conduttore – fattosi interprete del senso comune – si è visto costretto a intervenire ricordando che oggi come oggi essere “liberi” dal lavoro, come succede a molti, procura guai seri, specie se non è disponibile una nuova catena a cui liberamente legarsi. Aleggiava un po' di imbarazzo nello studio, vuoi per l'imprudente maneggio di un'arma così pericolosa come Marx, vuoi perché a quel punto la stessa discussione poneva involontariamente una domanda: ma perché in questa società la liberazione dalla fatica del lavoro produce, invece che nuovo benessere sociale, essenzialmente miseria e povertà? Nessuno dei presenti ha osato formularla, né tanto meno era in grado di dare risposta alcuna, se non constatare fatalisticamente i vizi e le virtù del “progresso”.

La risposta si trova facilmente nella stessa Ideologia tedesca e in mille altre pagine dei suoi autori: il capitalismo giunto alla sua fase estrema produce miseria crescente, così come la miseria di masse di nullatenenti fu storicamente condizione necessaria per imporre la schiavitù del salario. Oggi più che mai il Capitale abbisognerebbe di masse sempre crescenti da gettare nella fucina della produzione per continuare ad estrarre plusvalore, ma nell'intento di sottrarre all'operaio ogni controllo sulla produzione, nella corsa a incrementare la scala della produzione per ridurre i costi e battere la concorrenza si è andata via via riducendo la quota variabile, di lavoro vivo, quella che produce plusvalore, mentre è cresciuta enormemente quella costante, fatta di materie prime e apparati tecnici, il cui valore si trasferisce semplicemente nel prodotto senza aggiungervi valore alcuno. Enormi apparati necessitano, in termini relativi, di sempre meno lavoro, mentre il Capitale necessita di incrementare la massa di lavoro vivo da cui estrarre plusvalore. Ecco la contraddizione insanabile in cui si dibatte la società presente: la produzione ha già carattere sociale e l'enorme capacità produttiva è pronta per essere messa a disposizione dell'intera società, ma lo scopo della produzione capitalistica rimane esclusivamente il profitto e la condanna all'insensata crescita per generarne di nuovo si infrange contro il limite della capacità di consumo delle masse rispetto alle necessità di valorizzazione del Capitale. Da qui le ricorrenti crisi di sovrapproduzione che mettono all'ordine del giorno il carattere storicamente transitorio di questo modo di produzione e le sue contraddizioni.

Marx ed Engels non si limitano a svelare l'arcano della ricchezza crescente che genera miseria crescente, ma forniscono anche la soluzione storica al problema, altrimenti insolubile in questa società:

“Abbiamo mostrato altresì che l'abolizione della divisione del lavoro è condizionata dall'esser giunto lo sviluppo delle relazioni e delle forze produttive a una tale universalità che la proprietà privata e la divisione del lavoro siano per esso un impedimento [...] Qui si tratta dunque di individui a un grado determinato di sviluppo storico, e nient'affatto di individui qualsiasi e casuali, anche senza tener conto della necessaria rivoluzione comunista che è essa stessa una condizione comune del loro libero sviluppo (Cfr. L'Ideologia tedesca, Editori Riuniti, pag. 430, corsivo nostro).

Abbiamo preso un passo tra i tanti che ribadiscono l'idea fondamentale del contrasto tra forze produttive e rapporti di produzione. Non sappiamo a quale passo si riferisse il nostro amministratore delegato: il quale ha colto solo l'aspetto dello sviluppo delle forze produttive, dello sviluppo tecnico, che per lui evidentemente basta e avanza per garantire all'umanità l'affrancamento dalla fatica del lavoro. Ma per quanto tale sviluppo sia storicamente necessario, non è sufficiente a salvare l'umanità dalla schiavitù del lavoro salariato, che è tale per chi, per sopravvivere in questa società, non può contare su altro.

L'umanità sarà libera quando saranno spezzate finalmente le catene che legano le potenzialità della scienza e della tecnica applicate alla produzione alla proprietà privata, al profitto, al mercato, quando il loro carattere già sociale potrà liberamente espletarsi. E ciò sarà possibile solo dopo la “necessaria rivoluzione comunista”.

Certo, quest'ultima precisazione non sarebbe gradita nei salotti buoni, e anche per questo l'amministratore delegato l'ha omessa; o semplicemente, non essendo lui stesso individuo casuale e qualsiasi si illude di essere… già libero in questa società e non reclama nessuna rivoluzione. Non è così per milioni, miliardi di uomini che, pur non conoscendo né Marx né il Partito, senza saperlo già ora lottano inconsapevolmente per la rivoluzione che li liberi dalle catene del presente. Per ora, certi fantasmi vengono evocati nelle cerchie ristrette delle classi dirigenti, mentre i rappresentanti di partiti “di sinistra” e sindacati preferiscono esorcizzarli e far scongiuri. Entrambi ben conoscono la minacce che gravano sugli equilibri attuali ed entrambi temono gli stessi fantasmi; entrambi non hanno soluzioni, se non la rimessa in moto a tutti i costi della macchina bestiale e il perpetuarsi della fatica e della miseria, condannate a crescere quanto il Capitale.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2011)

 

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