È certo molto difficile, per chi non è addentro alle cose italiane, orientarsi nel gioco delle forze sociali e politiche d’Italia. Si comprende perciò che non è facile farne, in poche parole, un quadro d’insieme. Si sa che lo sviluppo dell’industria in Italia non è stato altrettanto rapido come negli altri paesi, e perfino all’interno del paese non si è prodotto in modo uniforme. È in Italia settentrionale che lo sviluppo è stato spinto più avanti, e più scendiamo verso sud, più è lento. Diverso il caso nell’agricoltura, altrettanto sviluppata al Nord che al Sud, e comunque, dal punto di vista tecnologico e della resa, assoluta e relativa, la sua importanza è maggiore al Nord che al Sud. Nella pianura padana, dove si trovano i principale centri industriali, l’agricoltura è altrettanto sviluppata, mentre nelle altre regioni d’Italia - con l’eccezione di alcune regioni estremamente fertili dell’Italia centrale e della Campania, le condizioni sono, in genere, meno favorevoli all’agricoltura. Per questa ragione non si può caratterizzare la classe dominante come formata da un’alleanza tra i grandi industriali del Nord e i grandi proprietari fondiari del Sud, ciò vorrebbe dire non tener conto della rilevante forza sociale degli agrari del Nord (in particolare quelli delle province d’Emilia, Lombardia e Veneto). Al contrario, il carattere semifeudale della proprietà fondiaria, nell’Italia meridionale, e la mentalità medievale dell’aristocrazia fondiaria contribuiscono ad allontanarla da una partecipazione diretta alla vita politica. E se i governi borghesi trovano, al Sud, un forte appoggio sociale e politico,, ciò avviene soprattutto a causa dell’influenza dei ceti medi del Sud. Date le degradate condizioni sociali e l’assenza di un forte movimento operaio, la borghesia italiana non ha una coscienza di classe molto sviluppata, non lotta in prima fila contro il pericolo rivoluzionario, manda al Parlamento – entro il quadro costituzionale – tanto deputati di sinistra che di destra, e non prende parte attiva alla reazione attuale condotta dalle organizzazioni politiche della classe dominante.

Al contrario, da lungo tempo in Italia settentrionale esiste un forte movimento operaio, non solo nel seno del proletariato urbano, ma anche – e ciò è caratteristico – nel seno del proletariato rurale. Questo movimento poggia sui salariati agricoli impiegati nelle grandi proprietà fondiarie e, in alcuni distretti, sui piccoli contadini (mezzadri), ma mai sui piccoli proprietari.

Il movimento del proletariato industriale , già assai forte prima del 1914, crebbe dopo la guerra in modo formidabile. Bisogna menzionare in primo luogo i metallurgici, che sono dappertutto la punta di diamante della lotta di classe e formano una frazione importante delle organizzazioni rivoluzionarie. Poi ci sono gli operai tessili, quelli dell’industria chimica, gli edili, dell’industria del vetro, i litografi, i lavoratori del legno ecc. Il movimento è anche molto forte tra i lavoratori dei trasporti, sia nelle aziende statali che in quelle private: ferrovieri, conducenti di tram, portuali, marittimi, come pure tra gli operai delle industrie statali (arsenali, manifatture del tabacco, officine del gas e di elettricità). Menzioniamo anche il movimento degli impiegati, sia in aziende pubbliche che private, meno importanti dal punto di vista della lotta di classe, e tuttavia considerevoli.

I centri industriali più importanti sono, in ordine di importanza : Milano, Torino, Genova, Trieste e Napoli. Inoltre ci sono regioni industriali estremamente importanti, ma che non hanno centri urbani, in Piemonte (Novara), Lombardia, Veneto (Vicenza), Liguria, Toscana ecc. Le altre città più importanti, come Bologna e Firenze, sono i centri di regioni agricole, con un movimento operaio molto sviluppato. Altre sono porti o centri commerciali molto importanti. La popolazione di Roma ha tutti i caratteri specifici della popolazione di una capitale e comporta un movimento rivoluzionario, benché a Roma non esista grande industria.

In Sicilia l’industria dello zolfo occupa un proletariato numeroso, ancora sottomesso ad uno sfruttamento di tipo quasi schiavistico.

Le classi medie mostrano l’immagine più torbida (ambigua?) che si possa immaginare. Una parte degli intellettuali aderisce al movimento reazionario; gli altri, come anche gli insegnanti, simpatizzano col proletariato. I piccoli artigiani sono completamente dalla parte della borghesia.

Benché, in generale, gli italiani, e soprattutto quelli del Mezzogiorno, abbiano uno scarsissimo senso dell’organizzazione, tutte le classi della società tendono oggi a formare delle organizzazioni per la difesa dei propri interessi. A ciò furono obbligate dal peggioramento generale della situazione dopo la guerra. La guerra fu, per l’economia italiana, un periodo di prosperità. Nonostante l’importanza del debito, la situazione finanziaria era buona, la circolazione fiduciaria e la situazione delle banche erano normali.

La guerra ha trasformato tutto ciò da capo a piedi. I bilanci hanno dei debiti enormi, il debito pubblico è aumentato considerevolmente, il corso dei cambi è molto fortemente abbassato, un gran numero di agenzie finanziarie è fallito, altre si trovano in una situazione disperata; l’industria soffre di una crisi acuta e a causa del deprezzamento dei suoi capitali. Lo stesso avviene nell’agricoltura, nonostante un periodo di prosperità apparente presso alcuni strati di proprietari fondiari.

La situazione della classe operaia, a seguito della svalutazione della lira, dell’alto costo della vita e della disoccupazione, è per lo più insopportabile. Lo stesso è per i piccoli contadini, e, in certa misura, per i piccoli commercianti e gli strati inferiori della borghesia.

Per uscire dalla crisi, le classi dominanti hanno rapidamente trovato la solidarietà; hanno costituito grandi gruppi di interesse, parte pubblicamente, nelle Unioni industriali e agrarie, parte segretamente, mediante manovre di borsa legate a manovre politiche, per poter conservare nelle proprie mani il potere governativo.

Il movimento sindacale raggiunse il suo apogeo nel 1919 e 1920, sia per numero di membri che per numero di scioperi e per l’importanza dei risultati ottenuti. Ora è in diminuzione a partire dalla fine del 1920, sia per la chiusura di un gran numero di fabbriche che per l’offensiva della reazione.

Quasi tutte le organizzazioni sindacali sono in rapporto con un partito politico, che esercita su di esse una grandissima influenza. È per questa ragione che ci sarà possibile studiare al tempo stesso la lotta politica e la lotta sindacale.

Il Parlamento italiano si appoggia, per così dire tradizionalmente, su una coalizione dei partiti costituzionali. La linea di demarcazione tra destra e sinistra passa tra i liberali di destra e i democratici liberali. Tra questi due partiti si trova oggi il Partito popolare cattolico, prodotto del movimento cattolico. Il movimento cattolico, benché tradizionalmente collegato ai partiti di destra, in conseguenza dell’anticlericalismo dei partiti di sinistra, ha dato origine a questo partito che, per la sua organizzazione, il suo programma, la sua attività, il suo ardire nel lavoro sindacale in seno al proletariato agricolo e ai contadini1 è oggi più a sinistra della democrazia borghese. Ma è, in fondo un partito costituzionale e governativo. La sua destra, composta da agrari, così come la sua sinistra, composta da “sindacalisti cattolici”, sono dominate dal centro, diretto da un uomo che possiede capacità politiche e amministrative poco ordinarie, l’ecclesiastico Sturzo.

Il “partito radicale” che per qualche tempo fu il partito di tutta la democrazia borghese, si presenta attualmente come partito della “democrazia sociale”; tuttavia, non può innalzarsi al di sopra delle manovre puramente parlamentari. Bisogna insistere su ciò, che in Italia le crisi di governo non si sviluppano a causa di movimenti di classe, ma piuttosto attraverso compromessi tra gruppi e individualità isolate. Al Parlamento, la destra e la sinistra borghesi, che non sono sottomesse alla disciplina di un partito popolare cattolico o di un partito fascista, costituiscono un terreno perfetto per tali manovre. Lì si trovano uomini che subentrano al governo Giolitti che, dopo la guerra, si dava volentieri arie di uomo di sinistra e amoreggiava con i partiti operai, è già l’uomo della destra e dei fascisti. Nitti che, ancora recentissimamente, cercava i favori della destra, è oggi uomo del partito popolare e perfino dei riformisti del partito socialista. Il numero dei loro partigiani dipende dalla loro possibilità di distribuire posti di ministri o sotto-segretari di Stato. Uno strato intermedio si raggruppa attorno a Bonomi, a Facta, e perfino ad Orlando. De Nicola è un po’ più a sinistra di questi ultimi.

I social-riformisti esclusi dal Partito socialista nel 1912 si collocarono, in conseguenza alla loro adesione alla guerra, tra le file dei partiti borghesi. La loro attività è esclusivamente parlamentare e tende ad ottenere portafogli ministeriali.

Tra i partiti anticostituzionali, dobbiamo menzionare il Partito repubblicano, diviso in due frazioni, nonostante la sua debolezza numerica. La destra vuole collaborare con i partiti borghesi, la sinistra si orienta verso i partiti operai.

Tra i “partiti” antiparlamentari, menzioniamo i sindacalisti e gli anarchici. Gli uni e gli altri, fin da prima della guerra, erano al di fuori del partito socialista.

Il Partito socialista possiede in Parlamento una frazione importante, esercita una grande influenza sulle masse operaie, sia nelle città che nelle campagne. I suoi partigiani, organizzati nella Confederazione generale del Lavoro, costituiscono la maggioranza.

Per quanto concerne il Partito comunista, esso esercita la sua influenza su forti minoranze della Confederazione Generale del Lavoro e nella Federazione dei Ferrovieri. Esso lotta per l’unità sindacale in stretto accordo con i partigiani dell’Internazionale Comunista in seno all’Unione Sindacale, che costituiscono, in realtà, la maggioranza dell’Unione, benché gli anarchici siano riusciti a falsare i risultati dell’ultimo Congresso.

La politica dei partiti di sinistra dipende attualmente dalla posizione che prenderanno di fronte all’offensiva capitalista. Questa ha fatto arretrare considerevolmente il movimento rivoluzionario dopo la fine del 1920, innanzi tutto perché questo movimento non fu all’altezza del suo compito storico, e anche a causa dell’atteggiamento equivoco del partito socialista, rivoluzionario a parole, riformista in realtà.

L’offensiva borghese si allaccia alla crisi economica che consente agli imprenditori di attaccare le posizioni conquistate dal proletariato, mediante serrate e diminuzioni salariali. Dal punto di vista politico, questa politica si collega col rafforzamento dell’apparato statale e ad un nuovo movimento, il cui particolare carattere desta tanto interesse, il fascismo.

Il fascismo è la riconosciuta organizzazione della borghesia contro il proletariato. Senza essersi impadronita dei poteri pubblici, la classe operaia italiana aveva acquistato una tale influenza, da poter rendere impossibile qualsiasi tentativo di realizzare un programma “nazionale”, vale a dire la ricostruzione economica su base capitalistica. La sopravvivenza dell’ideologia patriottica di guerra, ancora molto forte nel ceto medio, e la necessità di una controffensiva da parte della borghesia diedero origine al movimento fascista, la cui origine risale ai fasci di combattimento creati durante la guerra per lottare contro il disfattismo entro la classe operaia.

L’azione dello Stato italiano e del fascismo contro il movimento rivoluzionario non deve essere interpretata come l’azione dell’estrema destra, tendente a distruggere le forme democratiche e liberali. Il governo conduce la sua attività repressiva per mezzo della polizia, i cui effettivi sono stati molto aumentati nel corso degli ultimi anni, per mezzo della giustizia, le cui condanne si abbattono sulla classe operaia, e per mezzo di tutto l’apparato statale. Al tempo stesso, esso conserva l’apparenza della libertà e della democrazia. Questa commedia è resa possibile dal fascismo che non è, a dire il vero, una organizzazione legale ed ufficiale della borghesia, ma che sarebbe mille volte più debole se non fosse sostenuto da tutto l’apparato statale. Questo sostegno si manifesta segretamente nella preparazione delle imprese fasciste e nel corso di queste stesse imprese; essa non si manifesta pubblicamente e brutalmente, se non quando gli operai si sentono in dovere di difendersi. Il fascismo copre la propria attività a mezzo di un programma politico che non è un programma di cieco conservatorismo. Esso ha riconosciuto l’importanza del movimento sindacale e ha costituito una organizzazione sindacale propria, a dire il vero basata sulla violenza e la menzogna, ma tuttavia assai forte, soprattutto tra i lavoratori agricoli.

Questo quadro, tracciato rapidamente, dimostra che le classi dirigenti, in Italia, sono in possesso di un apparato che garantisce loro la conservazione del potere.

Qual è in questa situazione la politica che i partiti operai propongono alla classe operaia? Il Partito comunista, nonostante la sua giovinezza e le numerose difficoltà che incontra, dirige la preparazione materiale e ideologica del proletariato alla lotta, in vista della quale dovette separarsi dal Partito socialista, incapace di realizzare questo compito.

Ma il nostro Partito non è che una minoranza, e si rende perfettamente conto che, da solo, gli è impossibile rovesciare il regime attuale, finché la maggioranza della classe operaia rimarrà sotto l’influenza degli altri partiti e, in particolare, del Partito socialista. Sotto la parola d’ordine del fronte unico, il nostro Partito difende da molto tempo l’azione unitaria dell’intero proletariato per la difesa delle proprie posizioni minacciate – tanto sul terreno economico che su quello politico – dall’offensiva borghese. Il fronte unico è in via di realizzazione in Italia: il fronte unico dei sindacati è già costituito, col nome di “Alleanza del Lavoro”. Il nostro compito consiste nello stimolare questa azione e nel rafforzare in seno all’Alleanza l’influenza dei comunisti alle spese di quella degli opportunisti. Le azioni sparse contro il fascismo e contro le altre forme dell’offensiva capitalistica sono assolutamente insufficienti. Esse devono essere sostituite dalla lotta unificata su tutto il fronte proletario.

I recenti avvenimenti indicano un risveglio del proletariato. Da qualche mese gli scioperi – a dire il vero, difensivi – e le lotte sindacali ricominciano. Il Partito comunista e le sue sezioni sono ovunque alla testa della lotta.

I sindacalisti e gli anarchici sono, anch’essi, disposti alla lotta, ma le loro concezioni rivoluzionarie superficiali li rendono incapaci per una lotta cosciente e duratura, mentre i socialisti restano persi nelle contraddizioni che li rendono incapaci per qualsiasi lavoro serio di preparazione rivoluzionaria. I riformisti si rendono conto che le masse attendono da loro una azione che darebbe sollievo alla loro situazione intollerabile. Per principio opposti alla lotta, i riformisti propongono una coalizione con gli elementi della borghesia suscettibili, secondo loro, a ristabilire l’autorità delle leggi contro i fascisti. I massimalisti (partigiani di Serrati) sono contrari a questo punto di vista, ma tuttavia non osano decidersi alla lotta.

L’azione unitaria del proletariato italiano si impone; essa è possibile. Anche se essa non può procurarci immediatamente una vittoria decisiva, essa ci farà fare un grande passo in avanti sulla via di una ripresa dell’offensiva da parte del proletariato, in previsione della battaglia decisiva. Il compito del Partito comunista è quello di condurre il proletariato alla vittoria, ricostituendo l’unità del suo fronte di combattimento. Al momento attuale, il proletariato italiano lotta su due fronti: contro la reazione borghese e contro il tradimento socialdemocratico. Nonostante le sconfitte passeggere, esso riporterà alla fine la vittoria sui suoi due nemici.

(La Correspondance Internationale, n. 4, 2 febbraio 1923 Annuaire du Travail, Paris, Librairie de l’Humanité, 1923, pp. 608-12)

 

1 Sarebbe un grave errore credere che il partito popolare cattolico sia più forte nel Sud che nel Nord; al contrario, esso è più forte in Veneto, Lombardia e Centro Italia.

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