La seconda metà del 1947 e la pri­ma metà del 1948 possono essere con­siderate come il terzo anno del dopo­guerra, prendendo come base per il computo del tempo l’anno finanziario anziché quello astronomico. Le carat­teristiche economiche e politiche di tale periodo sono oltremodo istruttive giacché nel corso dei dodici mesi in oggetto si sono registrati avvenimenti di notevole importanza per l'andamento della cosa pubblica in Italia.

 

Si impone anzitutto una constatazio­ne: di tutti i vaniloqui e progetti di ri­forme pullulati nell'immediato dopoguerra, nulla è rimasto in piedi tre an­ni dopo il conflitto. La conclusione della guerra e la ca­duta del fascismo, con l'imponente partecipazione delle masse alla vita politica, avevano fatto nascere, se non il biso­gno soggettivo e cosciente, la necessità di preventivare e promettere modifica­zioni fondamentali della struttura eco­nomica e politica italiana. I partiti di sinistra allora predominanti erano stati larghi di assicurazioni in proposito. Si veda ad esempio quanto è stato scritto, detto e agitato nel senso della istituzione dei Consigli di Gestione. La creazione di questi consigli, voluta e difesa dai socialcomunisti, costituì da un lato una valvola di sfogo contro eventuali iniziative indipendenti delle masse,  dall'altro  lato  un  effettivo contributo ai datori di lavoro per il superamento  del momento critico e il conseguimento della ripresa della produzione. Ma con ciò essi hanno esaurito tutto il loro compito di “trasformazione sociale”.

 

 

Questa realtà è stata apertamente riconosciuta e sotto­lineata dagli esponenti del capitalismo: si vedano in proposito le dichiarazioni del  Direttore Generale della Breda, Mauro, al Primo Congresso Nazionale dell'Industria.

 

 

Il passare del tempo, mentre ha chia­rito la reale funzione dei Consigli di Gestione, presentati come un atto rivoluzionario e in realtà utilizzati per la collaborazione col capitalismo, ha fatto giustizia anche del conseguente postu­lato relativo alla partecipazione agli utili.

 

 

La partecipazione agli utili, tesi pro­pria non tanto del riformismo sociali­sta quanto del corporativismo cattolico, fu anch'essa un'offa gettata alle masse dai nazional-comunisti, sempre pronti a spolverare le tesi più idiote per pro­pinarle quali soporiferi ai proletari: e il gran parlare che se ne fece nel mo­mento in cui l'industria non presenta­va utili di sorta, è stato largamente compensato dal silenzio sopravvenuto non appena i profitti cominciarono a riapparire.

 

 

Insieme a questi due leit-motiv, nel­l'immediato dopoguerra si amò indugia­re sui programmi di nazionalizzazione dell’industria. Il desiderio di potere pubblico dei deputati di sinistra con­tribuiva indubbiamente a farli sognare posti di Ministro o di Commissario Go­vernativo di fabbrica in un'economia completamente guidata dallo Stato, in­dipendentemente dal fatto che questa economia non solo non sarebbe stata meno feroce di quella privata nello sfruttamento della forza lavoro, ma si sarebbe persino valsa dell'apparato re­pressivo di pubblica sicurezza per inse­gnare agli operai che, dati i vantaggi della nazionalizzazione, la protesta sul lavoro e le lotte di fabbrica diventavano delitti di lesa maestà.

 

 

Qualcuno potrebbe deplorare che ta­le programma di accentramento totalitario non  sia stato portato completamente a termine, in quanto i “destri” di oggi, eredi e divoratori della pappa dei “sinistri” di ieri, avrebbero fatto ancor più efficacemente sentire a que­sti ultimi il peso della macchina dello Stato da essi con tanto impegno rico­struita.

 

 

Ma il fatto è che, se non si è proce­duto oltre sul terreno delle nazionalizzazioni, lo si deve al carattere già largamente  statizzato  dell'economia italiana. Come è noto, quest'ultima presenta, dopo la Russia, la più alta percentuale di cointeressenza gover­nativa alla gestione dell’attività in­dustriale e finanziaria, e fra la cointe­ressenza diretta e quella indiretta (regolamentazione degli scambi inter­nazionali, dei prezzi, delle assegnazioni ecc.) si può afferrare che ben pochi sono ormai gli esercizi che riescano a sfuggire al controllo dello Stato.

 

 

L'economia italiana è per quasi due terzi regolata dallo Stato e per un terzo ha carattere monopolistico privato. In essa perciò la concorrenza e la crea­zione nel tradizionale senso liberista di una normale attività di produzione e di smercio, hanno un raggio estrema­mente ridotto. Questa situazione ha cominciato a crearsi fin dai primor­di dell'industria in Italia in seguito soprattutto all'istituzione di forti dazi protettivi,  si  è  sviluppata  con  le varie guerre, ed è stata portata a de­finitivo compimento sotto il regime fa­scista. Pertanto, nulla di tutto ciò è stato messo in discussione dalle forze che hanno trionfato nel dopoguerra, essendo la critica socialcomunista ispi­rata, come abbiamo visto, non al concetto della demolizione del monopolio, ma a quello della sua integrale gestione da parte dello Stato. 

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La situazione di monopolio di gran parte  dell'industria  e dell'agricoltu­ra è l'elemento che più ha contribuito alla lievitazione di tutti i prez­zi e di tutti i costi delle produzioni nazionali. Quasi in nessun caso in Ita­lia si fanno conti economici, ma ovun­que si applicano, oltre ad elevati tassi di profitto, aggiunte sui prezzi che ori­ginano vere e proprie rendite a favore dei produttori.

 

 

La dimostrazione più evidente della intensità dello sfruttamento capitalistico in Italia e del flusso di rendita garan­tito dal monopolio è data dall'altezza del tasso di interesse nazionale, che è ad un livello almeno doppio di quello praticato sui mercati internazionali, non diciamo da parte di paesi molto avan­zati come gli Stati Uniti, ma anche di paesi più vicini a noi come la Francia.

 

 

Pagare un alto tasso di interesse, giustificato con l'alto costo dell'attività bancaria (alti profitti del capitale finan­ziario), è pertanto possibile solo se in Italia i capitali investiti danno un ren­dimento elevatissimo e solo se lo sfrut­tamento del lavoro vi è intenso.  L'affer­mazione fatta da una delle principali autorità dell'ECA in Italia, Dayton, che l'industria italiana non potrà mai inse­rirsi in quella internazionale finché sarà costretta a pagare un tasso di interesse del denaro preso a prestito del 9 per cento, va dunque corretta nel senso che l'industria italiana non si inserirà mai in quella internazionale finché i suoi profitti saranno tanto alti.

 

 

Lo sfruttamento del lavoro italiano avviene ben più attraverso l’estorsione del plus-valore assoluto (riduzione del valore reale dei salari) che attraverso l'intensificazione del processo produtti­vo e della meccanizzazione (plus-valore relativo), risultato questo che è la conseguenza più immediata della posizione di monopolio. La tesi della ridotta produttività del lavoro, così spesso avanzata dalla Confindustria a giustificazio­ne della necessità di ridurre i salari, è una prova indiretta dell'arretratezza del capitalismo italiano sul piano industriale. Infatti, checché si dica, la bassa produttività del lavoro è in dipendenza non già delle blaterazioni nazional-comu­niste sulla “non-collaborazione”, ma essenzialmente dell'alto grado di anzia­nità degli impianti italiani, della man­cata introduzione di nuovi ritrovati tecnici e produttivi, dell'assenza della razionalizzazione del lavoro, delle condizioni di inefficienza fisica e di igno­ranza di gran parte del proletariato e infine, in misura tutt'altro che minima, dello stato di incapacità e insufficienza del ceto direttivo e tecnico degli indu­striali.

 

 

Contrariamente ai loro concorrenti esteri, i quali già da lungo tempo han­no applicato i suaccennati provvedi­menti scientifici e produttivi (contro mille dollari di investimento medio per operaio in Italia, ve ne sono cinque negli Stati Uniti, ove pertanto il capi­tale investito è sfruttato molto più in­tensamente che  da noi) e si sono dati a valorizzare i quadri professionali e tecnici con scuole, esercitazioni, applica­zioni speciali, spese straordinarie ecc., i tecnici e dirigenti nostri, oltre a non disporre di un'adeguata attrezzatura, sono, sia al centro che nei reparti dei grandi complessi produttivi, la più stra­na accozzaglia di improvvisatori, al­trettanto presuntuosi quanto incapaci di adeguarsi al poderoso ritmo della vi­ta industriale moderna e alle sue esi­genze scientifiche.

 

 

Un'indagine sia pur superficiale sui metodi di lavoro anche di grandi fab­briche può dimostrare tutte le stasi, le interruzioni, gli sperperi, gli accavalla­menti, che nascono in conseguenza del­le lacune della direzione tecnica, per non parlare degli errori della direzione vera e propria.

 

 

Deficienza tecnica, scarsità di mac­chinari, anzianità di quelli esistenti, miseria del proletariato: tutto ciò com­porta naturalmente una bassa produt­tività del lavoro e un grave handicap per la produzione italiana sia sul mercato interno che su quello estero.

 

 

Alla situazione di inferiorità del capi­talismo italiano si aggiunge il peso del­l'apparato statale che dilapida 1.500 miliardi all'anno. Questo mostruoso vo­lume di spese della struttura governa­tiva sottrae alla produzione corrente gran parte delle risorse e viene a gra­vare essenzialmente sui consumi, cioè sulle spese delle grandi masse, anziché sui profitti e sovrapprofitti, come pur av­viene nella super-capitalistica America o in Inghilterra.

 

 

Il fatto che, pur con tutte queste condizioni negative sia nell’ambito pro­duttivo che nell'ambito fiscale, il capi­talismo italiano riesca a pagare alti tassi di interesse, testimonia dell'inten­sità dello sfruttamento del lavoro. Si verifica cioè che il nostro capitalismo, quasi mai angariato dalla preoccupazio­ne della concorrenza interna e affatto indisturbato dalle lotte sindacali, che se anche numerose e a ripetizione so­no pur sempre caratterizzate da fini esclusivi di rivalità politica, trova più conveniente valersi della mano d'opera a buon mercato di cui dispone e cercar di estorcerne il massimo plus-valore as­soluto, anziché porsi sul terreno dello sviluppo  tecnico,  dell'aumento della produttività, dell'espansione del merca­to, che sono le preoccupazioni domi­nanti dei paesi ad alto costo della ma­no d'opera, come gli Stati Uniti.

 

 

Il fenomeno, riconosciuto a suo tem­po da Ricardo, che gli aumenti di sa­lario riducono i prezzi dei prodotti ove il capitale fisso predomina su quello variabile in quanto abbassano il saggio di interesse ed il suo volume comples­sivo sul totale del capitale, si verifica in Italia in senso inverso: ogni riduzione reale dei salari aumenta il saggio del profitto e lo moltiplica per il totale del capitale. 

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Da un lato, tuttavia, gli alti prezzi dei  prodotti procurano al nostri capitalisti una duplice angoscia: per un verso riducono le possibilità di esportazione sui mercati internazionali su cui si esercita la concorrenza di altri paesi; per un altro, rendono attuale il pericolo della penetrazione dei prodotti esteri sul mercato nazionale in virtù dei prezzi minori.

 

 

È vero che la materna chioccia dello Stato si è sempre adoperata per diminuire questi rischi, o istituendo premi diretti e indiretti agli esporta­tori o proibendo le importazioni, ma, col vento che spira in campo interna­zionale e con le unioni doganali volute da Marshall - a parte il fatto che, per esportare bisogna importare - le pre­occupazioni crescono invece di dimi­nuire.

 

 

È doveroso constatare che nei due anni immediatamente successivi alla guerra, gli industriali italiani hanno e­sportato per quantitativi notevoli. Il fatto è che allora la congiuntura era favorevole, il bisogno internazionale di beni era estremo, e in Italia era in corso una forte inflazione. L'inflazione interna permetteva di scaricare sul resto del paese i costi della svalutazione e di gareggiare coi prezzi dei prodotti esteri in quanto si guadagnava sul cam­bio; e l’attività produttiva ne era stimolata.  Insieme alle più favorevoli pos­sibilità  di esportazione si aveva un'ul­teriore attività sul mercato interno dove la precarietà dei segni moneta­ri spingeva gli industriali e i produtto­ri ad accelerare il processo di investi­mento e di capitalizzazione, conseguen­do così anche un incremento della occupazione operaia. Vero è che in ulti­ma analisi il proletariato ne faceva le spese in seguito alle sempre rinnovate riduzioni dei salari reali, ma capitava anche che le masse si muovessero riuscendo di tanto  in tanto a strappare adeguamenti salariali.  Si era  cioè in pieno sviluppo dell'attività produttiva per mezzo dell'inflazione, fenomeno preconizzato dal Keynes nei casi in cui esistano strati di disoccupati e già spe­rimentato dalla Germania nel dopo­guerra 1914-18.

 

 

Sennonché, lo sviluppo della produ­zione e degli investimenti e l'aumento della circolazione monetaria comporta­vano pericoli che sono stati avvertiti a tempo dalla superiore intelligenza direttiva del capitalismo e hanno determi­nato una brusca sterzata con inversione di marcia: la deflazione. L’arresto dell’inflazione, o meglio  di un certo tasso di inflazione, e l'adozione della politica deflazionistica  sono  gli  avvenimenti più importanti dell’ultimo anno economico.

 

 

Perché il capitalismo italiano, che aveva la possibilità di attivare il pro­prio ritmo produttivo in virtù del giuoco monetario, si è a un certo pun­to fermato? Giova notare che la sta­bilizzazione” sbandierata da De Ga­speri e accoliti è un mito, in quanto l'economia attuale non conosce che due moti: o inflazione o deflazione; o mar­cia in avanti o marcia indietro; per cui la condizione di equilibrio o di movi­mento lineare desiderata dal Governo è semmai un'ipostasi cristiana, non una realtà economica.

 

 

Resta pertanto da stabilire come e perché non si sia continuato in Italia sulla via dello sviluppo della produ­zione. La risposta la troviamo nelle prospettive del mercato del capitalismo italiano. 

                                                                          

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Abbiamo visto che, per quanto ri­guarda il settore internazionale, le pro­spettive di esportazione si sono grada­tamente ridotte, man mano che la con­correnza degli altri paesi faceva sentire il peso dei prezzi minori; sappiamo pure che lo sbocco coloniale è stato precluso dall'esito del conflitto, per cui in questo settore non sono rimaste che le platoniche dichiarazioni di affetto di Sforza; dobbiamo infine constatare come anche il mercato interno si trovi enormemente ridotto e impoverito dalle conseguenze della guerra e dalla pirateria dei vari governi.

Le svalutazioni, le riduzioni di sa­lario, la disoccupazione, i danni di guer­ra hanno sostanzialmente impoverito il ceto medio italiano e fatto sì che i proventi della classe operaia siano per la maggior parte impiegati nell'acquisto di generi di prima necessità, soprattutto alimentari. Le prospettive del mer­cato interno sono perciò limitatissime, la quasi totalità della popolazione si divide in prestatori d'opera e datori di lavoro, le relative possibilità d'in­cremento della domanda e di sviluppo della accumulazione si muovono in senso divergente, i ceti extra-capitalistici ca­paci di assorbire la produzione indu­striale essendo ridotti al minimo per numero ed importanza.         

 

 

Insieme alla perdita dei mercati coloniali e alla riduzione delle prospettive di esportazione, la bassa capacità di acquisto del mercato nazionale fa sì che, se il capitalismo italiano continuasse ad aumentare i propri investimenti e la corsa all'accumulazione sotto lo stimolo del moto inflazionistico, correrebbe il ri­schio di essere ad un tratto schiacciato dal volume del proprio complesso, di non trovare più liquidità, di non aver più alcuno sbocco. Se inoltre si tengono presenti le preoccupazioni governative per le difficoltà incontrate dal Tesoro a mantenere il passo fra le entrate e le uscite a prezzi aumentati, si com­prende come le ragioni determinanti del ricorso alla deflazione saranno, dal punto di vista capitalistico, ben fondate, e tutto ciò in barba alla scuola key­nesiana.

 

 

La deflazione è stata naturalmente accompagnata da un aumento della disoccupazione, condotto a termine indi­pendentemente dai sottili  fili di refe tesi come ostacolo dalle organizzazioni sindacali, nuova prova della radicale in­capacità di queste nonché a miglio­rare nemmeno a difendere lo stato sociale del proletariato. La disoccupazione, oltre a creare un gran numero di si­tuazioni personali penosissime, ha col­pito le entrate reali di tutto il proleta­riato, poiché in genere ogni famiglia si è trovata con almeno uno dei suoi membri senza lavoro.

Ma il male non si è fermato qui. Poiché lo stimolo dell'inflazione era pur sempre necessario alla produzione ca­pitalista, si è ricorso all'espediente di lasciar aumentare i prezzi dei principali generi di consumo, cioè di tutti gli articoli consumati dai proletari, provo­cando così una crescente riduzione dei salari reali e un incentivo a produrre in determinati settori; e di mantenere invece la tendenza al ribasso per gli articoli che rientrano nelle necessità della produzione capitalista. Contem­poraneamente, sono stati aboliti i prezzi politici e aumentati i costi di tutti i servizi pubblici di fondamentale importanza: gas, energia elettrica, affitti, tariffe postali, tranviarie, ferroviarie ecc.

 

 

Ancor più significativa può essere l'analisi delle tabelle prezzi da cui si constatano i vari gradi di aumento dei relativi articoli. Al mese di agosto 1948 si avevano - relativamente ai prezzi al­l'ingrosso, si badi bene - aumenti sulla base 1938 dalle 25 alle 50 volte per i seguenti articoli: alluminio, autocarri, tessuti misti, alcool, petrolio, cotone, conduttori elettrici, benzina, pneumati­ci, soda, olio industriale; aumenti dalle 50 alle 65 volte per i seguenti prodotti: cemento, mattoni, carta, perfosfati, co­ke, latte, automobili, filati di canapa e cotone, solfato, grano, ferro, legname; aumenti dalle 65 alle 150 volte per gli articoli: burro, rayon, farina, strutto, lardo, pasta, olio d'oliva, rame, tessuti di lana, carne, frutta.

Come si vede, i prodotti interessanti l’attività industriale sono aumentati so­lo della metà rispetto ai prodotti di immediato consumo, e queste recipro­che relazioni tendono sempre più a svilupparsi in  senso divergente, in quanto i prezzi dei primi articoli con­tinuano a diminuire mentre i prezzi dei secondi continuano ad aumentare.

Oltre alla situazione esterna negativa e alla caduta delle retribuzioni reali, non si è mancato di procedere anche direttamente contro i salari elaborando il macchinoso piano Fanfani, che non si è nemmeno osato presentare come un provvedimento inteso a procurare la casa a chi non l'ha, ma come un tenta­tivo di ridurre la disoccupazione. In realtà, il motivo animatore del piano Fanfani va cercato nella necessità di risanare le finanze dell'INA, istituto che, non pago di quanto ha divorato nel passato, ha oggi più fame di pria. 

                                                                                              

                                                                                               * **  

 

Questi avvenimenti, se stanno a dimostrare che il capitalismo nazionale, salvato nel momento più critico dal disinteressato aiuto dei socialcomunisti, sta provvedendo alla propria convale­scenza con le energie succhiate alle masse, non sono però sufficienti a dimostrare la floridezza. Come accade che a certi bambini le cure facciano male, così i ricostituenti propinati all'Italia dal “buon cuore” internazionale mi­nacciano di strozzarla.

 

 

È il caso dell'entrata in vigore del piano Marshall - altro avvenimento fondamentale di quest'anno, che, pre­disposto per la rimessa in piedi delle borghesie europee, si sta trasformando per le stesse in un vero e proprio spauracchio. L'afflusso di beni e di energie  dall'America avviene in misura persino eccessiva rispetto alle limitate capacità non di produzione, ma di smercio dei paesi europei, primo fra questi l'Ita­lia, che disperatamente respinge car­bone, petrolio e altri generi offerti. Lo dimostra il fatto che, mentre nel trime­stre aprile-giugno 1948 l'ECA assegnava all'Italia beni per 165 milioni di dol­lari fra aiuti e prestiti, ne sono stati utilizzati solo 106 milioni, e il ministro Merzagora dichiarava a Zurigo che l'I­talia faceva il possibile per ridurre gli aiuti americani. Dopo di che, c'è da do­mandarsi perché i nazional-comunisti sia­no tanto adirati contro il gabinetto De Gasperi.

 

 

Ad ogni modo, i controlli e gli inter­venti che il piano Marshall comporta, con l'imposizione di un'unificazione eco­nomica europea di cui uno dei primi passi è costituito dall'Unione doganale con la Francia, sono più che sufficienti a preoccupare governo e borghesia ita­liana. L'ostacolo agli scambi commerciali europei causato dall'affluire sul conti­nente di prodotti americani che, soddi­sfacendo i bisogni fondamentali dei re­lativi paesi, li ha resi tutti venditori e per nulla compratori, è un altro ele­mento di perplessità per le classi diri­genti.

Questo scontento, questa opposizione non si possono manifestare apertamente per chiarissime ragioni di ordine politi­co, per la necessità di muoversi nell'or­dine e nello schema del conflitto in pre­parazione. È perciò che, sia pure a denti stretti, la rachitica borghesia ita­liana ingoia i rospi delle superiori esi­genze del capitalismo internazionale e sfoga il suo livore sul proletariato ita­liano incatenato e rimbambito dai partiti di massa.

 

 

Verso questi ultimi, la gratitudine della borghesia nostrana per l'aiuto e il contributo offerto alla sua causa è sta­ta però di brevissima durata. D'altra parte, Graziani ha affermato al suo processo che gli impianti industriali sono stati salvati per opera sua e di Musso­lini, per cui anche la storia dei parti­giani benemeriti dell’industria...

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