IERI 

Le imprese coloniali dell’Italia borghese, giunta in questo campo buona ultima tra i poteri capitalistici, hanno sempre avuto violenti riflessi nella politica interna del paese e sollevato contrasti fra i partiti, fatto che in altri stati di più possente industrialismo produttivo non si è così nettamente verificato. Ma non è l’analisi economica e sociale dell’imperialismo moderno che vogliamo qui seguire.

 

Le prime armi degli oltremaristi italiani furono fatte verso il 1880 con concessioni di basi nel Mar Rosso da parte di altre po­tenze, e i primi fatti militari con sapor di forte agrume si eb­bero nel 1886-87 fin quando si vide a Dogali e altrove che gli abis­sini erano bellicosi e modernamente forniti da industrie europee, e quindi per aver colonie ci volevano spedizioni armate e tributi di soldi e di sangue.

 

Il nome di Crispi primeggia tra i precursori di tali imprese ed è legato alla prima guerra contro il Negus abissino col grave rovescio di Adua. Mentre le borghesie estere si compiacevano dei disastro e i magazines illustrati di Londra e Parigi mostravano in larghe pagine a colori gli ascari in fuga, invano trattenuti coll'arma in pugno sull’Amba Alagi dagli ufficiali italiani, le correnti di sinistra della politica interna insorsero violentemente contro Crispi e le velleità di Umberto di incoronarsi im­peratore, e chiesero senza riserve l’abbandono dell’Eritrea. “Via dall’Africa” fu da allora la parola di battaglia, ma è da notare che non fu data solo dai partiti operai e dai socialisti.

 

Repubblicani radicali e democratici di sinistra parteciparono alla lotta, ed essa culminò fuori del parlamento con le giornate di sommossa del 1898, con le repressioni di Pelloux e lo stato d’assedio, coi processi politici a socialisti e democratici, men­tre coi Turati e i Cavaliotti era perfino il noto prete don Albertario, e infine con la caduta dei ministeri di destra e la nuova politica sinistreggiante della monarchia sabauda, soprat­tutto dopo che nel 1900 Umberto cadde a Monza sotto le revolverate di Bresci che si dissero partite dai campi sanguinosi di Adua. Con Giolitti nel 1911 nacquero le pretese coloniali africane, mentre un nuovo partito ne faceva la sua aperta bandiera, quello nazionalista, direttamente legato all’industria pesante. Battuta la Turchia nella guerra balcanica fu facile attaccarla e sbarcare a Tripoli, ma anche qui l’impresa si rivelò dura e costosa, e alcuni battaglioni di bersaglieri furono massacrati dagli arabi, sempre ben forniti di armi europee di paesi alleati o amoreggianti con l’abile diplomazia italica, a Sciarasciat. Preso consiglio ai maggiori fratelli imperialisti, il libero, parlamentare e “prefascista” regime di Roma levò famose forche in Piazza del Pane a Tripoli, con­siderando gli arabi che si opponevano all’occupazione come ribelli “irregolari” e quindi traditori. La tecnica del suggerimento era sopraffina: il combattente mussulmano crede che l’anima del morto in battaglia esce dalla ferita e viene direttamente accolta da Allah, e quindi combatte con fanatismo: se l’anima è costretta ad uscire per altra via Allah la considera sgradevole e la rifiuta; di qui l’intelligente procedimento del cappio alla gola.

 

Lasciamo andare: Togliatti dopo lunghe ricerche è arrivato alla equazione: democrazia = guerra; arriverà all’altra: democrazia = forca, che da un centinaio di anni si procura di dimostrare ai sa­pienti del genere. Un discreto studentato. In Italia una nuova e più potente opposizione si levò contro la politica giolittiana e nazionalista d’Africa. Il partito socialista vi si gettò compatto, colla defezione del solo celebre specialista di antipapismo Podrecca, e di alcuni indipendenti come Labriola, affannati a dimostrare la tesi marxista dei capitalismo che co­lonizzando il mondo diffonde le premesse del socialismo operaio. Ma anche in tale occasione va notato che oltre alla netta opposi­zione di classe proletaria - si cominciò allora dai più a sentire di Mussolini, imprigionato per gli articoli antitripoleschi nella Lotta di Classe di Forlì - vi furono vive resistenze nei partiti democratici, repubblicani intransigenti e radicali; fierissimo oppositore anche per motivi tecnici fu il ringhioso economista si­ciliano Napoleone Colajanni, e con lui tanti altri non infeudati a Giolitti o avversi all’influenza dei sidero-nazionalisti (padri spirituali del fascismo di poi).

 

Venne la guerra europea (ogni volta che all’Italietta vengono fre­gole africane brontolano i tuoni della tempesta generale) e durante e dopo di essa il mantenere le posizioni conquistate in Africa richiese sacrifizii ingenti di uomini e di mezzi; gli italiani, negli anni di guerra europea, erano ridotti quasi alla costa settentrio­nale dalle offensive senussite. I socialisti non cessarono mai, nella avversione alla guerra delle nazioni, di combattere e deridere anche le pretese imperiali dell’Italia borghese e porre in rilievo che tra l’altro esse portavano alla classe operaia, anche con­tingentemente, maggiore miseria.

 

Non occorre ricordare che invece uno dei punti centrali della politica del fascismo, che si affermò non solo contro i partiti operai ma anche a danno di tutta la “democrazia” italiana, fu il colonialismo in grandissimo stile. Tale politica culminò nella conquista dell’impero abissino colla vittoriosa campagna 1935—36. La democrazia internazionale ed italiana strillò e sanzionò fie­ramente, e tutti gli antifascisti italiani di ogni sfumatura hanno il dovere di considerarsi firmatari di una cambiale al profugo Ailè Selassiè sulla linea del Via dall’Africa classico. La veri­tà è che al tempo della gran pagliacciata dei colli fatali, e non prevedendosi le successive potenti botte, nove italiani e mezzo su dieci plaudivano al duce fondatore dell’impero, poi nove e tre quarti lo hanno fieramente negato, e oggi nove e un quarto rimpiangono se non il duce, la situazione di quel tempo, ciò soprattutto se ci riferiamo all’ineffabile ceto medio, in cui si vanno a lanciare le nuove grandi campagne per la Libertà dei Popoli. 

 

OGGI 

 

Tirando, come unica risorsa per far fuori Mussolini ed aprire una successione al potere ai digiunatori del ventennio, a far perdere la guerra 1940, era chiaro che nel prezzo pagato andavano le colonie. Pienamente logico il sostenere, sulla tradizione del partito socialista, e della democrazia avanzata persino, che que­sto per il proletariato italiano era un altro “ottimo affare”. Non meno coerente per il comunismo sovietico il sostenere la ri­nunzia alle colonie, essendo parte integrante del suo programma politico la lotta per liberare i popoli di colore dagli oppresso­ri europei. Non ora mettiamo marxisticamente a fuoco tutto questo, ma seguitiamo a vedere le consegne politiche degli altri. “Ohimè, Agnel, come ti muti!”. Anche un antifascista non avverso al colo­nialismo doveva capire che quando si perde in pieno la guerra imperialistica, il cui contenuto è la contesa dei mercati di oltremare, le colonie vanno a farsi friggere. La Germania disse nel 1914, ciò che ripetè con l’Italia e il Giappone nel 1939: che in relazione alle sue possibilità produttive, alla sua popolazione e alla spartizione in atto dei continenti arretrati vi era un for­tissimo scompenso. Tesi, signori fortissimi in concretismo sacrosantamente esatta. Per risposta, dopo averla battuta, le tolsero ogni colonia. Quindi chi non era del tutto fesso doveva sapere che la politica del chiedere eserciti stranieri contro la milizia fascista, considerata politicamente anch’essa come un esercito straniero e peggio, comportava il baratto delle colonie italiane.

 

Lo spettacolo che offre oggi l’opportunismo dei partiti italiani anti e postfascisti è anche per questo problema veramente suggestivo. Tutti vogliono le colonie. In effetti tutti se ne strafrega­no, perché si tratta di gruppi intriganti che altro non sanno vole­re oltre la propria influenza e successo e la protezione dei padroni esteri più forti di loro cui sono asserviti. Sono del tutto incapaci a impostare in via amministrativa o “tecnica” come tutti gli altri anche questo problema: dei vantaggi eventuali per lo stato italiano nella gestione delle colonie d’’Africa - problema che si risolve, ponendolo correttamente, nel senso che lo stato italiano è esso una altrui colonia e qualunque vantaggio per esso o in ri­flesso per le classi sociali interne non esce dal quadro del controllo estero, abbia o non le colonie. Non è la formula giuridica che conta, ma il maneggio della chiave delle forze sia militari che commerciali.

 

Ciò che interessa ai gruppi dei politicanti nostri ai fini del ser­vigio cui sono addetti è il poter demagogicamente riversare sugli avversari in colpa, la responsabilità, l’insuccesso della perdita delle colonie, laddove come abbiamo detto è ben chiaro che - se di colpa si tratta - questa era una responsabilità già scontata e pa­rallela per essi tutti. Come è ben chiaro che se fanno a gara nell’essere tutti sulla tradizione della democrazia italiana dovrebbero tutti dirsi antiafricani.

 

Piena invece la bocca di questa vuota astrattezza che è l’Italia o il Popolo Italiano, credendo, dopo tante male parole dette al nazionalismo direttamente svolto nel fascismo, che nel gran pubblico vi sia ancora oggi una diretta sensibilità tricolore generica, si preoccupano di poter lavorare contro la popolarità del gruppo stra­niero avverso dimostrando che ha toltole colonie al nostro paese.

 

La stessa commedia si è fatta per le navi da guerra spartite tra i vincitori nel trattato di pace. La storia conta poco per tutti co­storo. Il vinto vorrebbe farsi lasciare le armi come premio di aver dimostrato di saper tradire e cambiare bandiera. Ma è proprio in questo caso che al vincitore importa non farsene un alleato arma­to.

 

Per toglierci di dosso Lui dobbiamo pagare un lungo conto, dato che era un così sentito bisogno: nel conto ci stanno bene lo dreadnoughts da 35 mila tonnellate come   nuove, così deve ragio­nare l’italiano nazionale e quindi borghese: i lavoratori bene inteso devono fregarsene di Lui e di Loro.  Il tipo forse più indigeribile di tutto l’antifascismo, conte con qualche palla falsa e dragomanno in berretto frigio, lo Sforza, è pronto a provare che la colpa della mancata restituzio­ne all’Italia delle Colonia ricade sui russi. Nella sua alta competenza ribatte la richiesta di cessione dell’Eritrea all’Etiopia col rilievo etnografico che gli eritrei sono “di razza diversa” dagli amarici. La scienza ha in fatto accertato nette coincidenze dei dialetti di Cheren e dell’Asmara con quelli di Frascati e di Torre Pellice, o quindi per il diritto delle genti conviene agli eritrei essere italiani e non etiopi... Gli stalinisti poi, invece di dire che dandoci le colonie farebbero l’en­nesimo rinnegamento di proclamati principi, di altro non si preoccupano che di stabilire che sono gli inglesi e gli americani a rifiutarcele.

 

I giornalisti comunisti italiani non trovano di meglio che illu­strare che la Russia si oppone alla spartizione delle nostre colonie. Già, ma è una spartizione che ne lascerebbe una fetta anche all’Italia, sia pure una fetta “prefascista”, quindi a suo tempo conquistata come hanno conquistato le nostre città della costa: colle caramelle.

 

Gromyko è stato più diritto. Anzitutto vuole che tutte le colo­nie siano in dieci anni rese indipendenti, lasciando dunque l’Italia senza alcuna colonia. Ma in sostanza dice che in Libia e Cirenaica, prefasciste finché volete, ci staranno ottime basi mili­tari atlantiche e quindi anche russe. A questi fini egli sa bene che avendole un’Italia armata dagli atlantici, la Russia è fregata. Giustamente si oppone. La demagogia la lascia ai servitorelli. Allah sia ringraziato.

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