PREMESSA

 

Da quando abbiamo ripreso a lavorare intorno a questo volume, gli storici «ufficiali» - sottospecie di quei «pensatori della classe dominante», i «suoi ideologi attivi», dei quali Marx ed Engels scrissero nell’Ideologia tedesca che «dell’elaborazione della illusione di questa classe su se stessa fanno il loro mestiere principale» - hanno rettificato il tiro della propria malinconica battaglia di retroguardia contro lo spettro tena­cemente risorgere di una Sinistra comunista. Per contraccolpo, il piano originario del nostro volume si è notevolmente allargato.

Solo apparentemente storiografica, la controffensiva data dal giorno in cui, non potendo più ignorare l'esistenza della Sinistra, o limitarsi a coprirla di ingiurie, per cancellare l'onta della parte dominante da essa sostenuta nella formazione prima e nella direzione poi del Partito Comu­nista d'Italia, l'opportunismo in veste accademica si è dovuto assumere l'ingrata missione di espungerla dal filone marxista; ed è una controffen­siva che, come tutte le gloriose campagne di una simile «intellighentzia», si svolge su tanti fronti quante sono le facce dell’opportunismo nella felice era «destalinizzatrice» della controrivoluzione staliniana.

Abbandonate le maniere grossolanamente plebee dell’era precedente, ingentilitisi come vuole il bon ton della concorrenza pacifica, del com­mercio a mutuo vantaggio e delle vie parlamentari e nazionali al socialismo, gli storici delle Botteghe Oscure (pontefice massimo Paolo Spriano, assistenti al soglio la coppia Lepre-Levrero) si sono buttati a fabbricare un «leninismo» poggiante sulle due colonne false e bugiarde dell’inven­zione dei soviet (e loro virtù taumaturgiche) e dell’empirismo e perfino machiavellismo tattico - giro di mano grazie al quale è uno scherzo da ragazzi stabilire la discendenza diretta da Lenin (previa identificazione dei soviet con... i consigli di fabbrica, o con altri prodotti della inesauribile «creatività» delle masse) dell’ordinovismo di Gramsci da un lato, del «partito nuovo» di Togliatti dall’altro. Può sembrare, ma non è, un paradosso che dell’elegante operazione di chirurgia plastica, di cui è solo una variante la condanna della Sinistra al girone di un massimalismo estremo (alla maniera di Ferri), si nutra la stessa storiografia minore trotskista, a sua volta impegnata a costruire una nuovissima genealogia Lenin-Gramsci-Corvisieri, con esclusione di Palmiro (ci scusiamo dei nomi di persona: per questi cosiddetti marxisti, si sa, la storia è il teatro non di forze anonime e collettive, le classi, ma di dinastie «intel­lettuali», gli individui). Nell’un caso e nell’altro, la Sinistra, rea di «ossessione particolaristica» (ruolo primario del partito di classe, anti­democratismo di principio), esce disonorata dalla scena, episodio fortuito e vagamente folcloristico nel movimento rivoluzionario marxista: la platea, soddisfatta, tira il fiato!

Per un pizzico di eterodossia storiografica, nella grande liberalità della controrivoluzione stalino-destalinizzatrice, c'è sempre posto. Dopo i censori, gli innamorati delusi: vi appartengono coloro che fanno alla Sinistra la grazia di giudicarla l’unica «corrente» degna del nome di marxista nell’Italia del primo dopoguerra, e insieme il rimprovero di aver respinto con la sua cocciuta «ipoteca astensionista» un fantomatico stuolo di comunisti in fieri, così ritardando la scissione di Livorno (pontefice solitario, Luigi Cortesi; tralasciamo coloro che pretendono di richiamarsi direttamente al «bordighismo» e tuttavia cercano nell’armamentario del­la... psicanalisi la chiave della sua mancata rottura col PSI a Bologna e con l'IC alle prime avvisaglie della sua parabola degenerativa); vi appartengono coloro, ammiratori e ammiratrici... con riserva, che scoprono un «mar­xismo occidentale» in cui incasellare la Sinistra, appaiandola alla rinfusa con quegli stessi tribunisti olandesi, consiglisti tedeschi, spontaneisti­-operaisti latini e anglosassoni, contro i quali la prima si batté, è fin troppo noto, costantemente - mistificazione che serve agli uni per abbat­tere dal suo piedestallo il «marxismo orientale» e barbaramente «asia­tico» dei bolscevichi, e serve agli altri per ribadire la condanna in seconda istanza di noi, con i suddetti compari (escluso, ben s'intende, l'«Ordine Nuovo»), in quanto rei di... antibolscevismo!

Così, finti ortodossi e presunti eterodossi non solo deformano la storia per volgari interessi di bottega, ma lavorano a sfigurare, non po­tendolo demolire, l'unitario ed invariante blocco di granito del marxismo, come teoria e come prassi.

Dalle miserie di queste ricostruzioni ad usum delphini, nate sul tronco della più rovinosa disfatta del movimento operaio internazionale in un secolo e mezzo di storia e, come vuole il padrone, tagliate su misura per rendere più difficile l'uscirne, noi siamo tanto immodesti da ritenerci i soli, in questa come in ogni altra manifestazione di milizia politica, a sollevarci.

Non presentiamo ghiotte «scoperte», geniali «innovazioni», audaci «esegesi»; riprendiamo il filo rosso del 1848, del 1850, del 1864, del 1871 (tanto per ricordare alcune tappe capitali), che era stato rian­nodato a Pietrogrado e a Mosca, dopo la violenta rottura delle unions sacrées, con l'inflessibile rigore, il dichiarato dogmatismo, l'orgogliosa intransigenza degli anni dell’Iskra e del Che fare? come degli anni di guerra fra gli Stati, di assalto al potere, di guerra civile con il rigore, il dogmatismo, l'intransigenza che avremmo voluto fossero applicati all’en­nesima potenza (in ciò il nostro unico disaccordo con il «bolscevismo, pianta di ogni clima») nell’Occidente marcio di democrazia parlamentare, intriso di pacifismo sociale, malato di federalismo e autonomismo. Su quel filo - come prova la documentazione qui raccolta - la Sinistra, sola in Occidente, marciò con l'Internazionale risorta sulla granitica base di Stato e rivoluzione, Il rinnegato Kautsky, Terrorismo e comunismo; su quel filo non si allinearono mai, né l'avrebbero potuto senza il concorso di circostanze eccezionali, malgrado gli sforzi sovrumani dei prota­gonisti dell’Ottobre, i suddetti rappresentanti di uno pseudomarxismo occidentale - non solo riformisti dichiarati, dunque, o massimalisti o indipendenti, ma consiglisti, operaisti, ordinovisti, spontaneisti, insomma immediatisti (1) - la cui terribile «inerzia storica» tagliò anzi la strada alla rivoluzione in Europa impedendo nello stesso tempo alla fulgida rivoluzione doppia di Russia di concludere il suo ciclo, come solo poteva concluderlo, mondialmente, e al suo stato maggiore di rimanere pari a se stesso fino allo stremo dette forze. Quel filo rosso (rivendicato dai bolsce­vichi e da noi come superiore a qualunque accidentalità di tempo e di spazio, e impegnativo per ogni comunista sotto qualunque cielo e in qualunque giorno od anno) noi non potemmo impedire che si smarrisse, così come ai bolscevichi non riuscì di tenerlo fino all’ultimo in pugno; ma non accettammo e non accettiamo di considerarlo spezzato per sempre. La storia militante del movimento operaio è fatta di alti e bassi, di epopee e di tragedie: e, di queste, l'anno dall’agosto 1919 all’agosto 1920 è un rovente condensato. Ne rievochiamo con pazienza pari all’emozione le fasi alterne, non per scrupolo storiografico o per lusso accademico, ma per esigenze di lotta, procurando di trarne un insegnamento - lo stesso che allora avevamo anticipato attraverso la diagnosi delle forze agenti su scala mondiale e del loro necessario schieramento - invece di inchinarsi alla sovrana maestà del «così è stato - così doveva essere - così sarà».

Ne è uscita la trama - che non pretendiamo completa né perfetta, e che non porta firme di autori, come si conviene ai rappresentanti di una classe che non ha diritti e meno che mai proprietà da rivendicare - di una storia vera, quindi anticonvenzionale, del movimento comunista, intrecciato alle vicende di un movimento operaio capace di scrivere pagine gloriose, in giorni di autentica grandezza: al ricordo della splendida gene­razione di militanti rivoluzionari di allora la dedichiamo, perché risorga, come non può mancar di risorgere, nell’intatto possesso delle sue armi di battaglia e, finalmente, di vittoria.

 

(1) Abbiamo quindi concesso uno spazio molto maggiore che nel I volume alla voce di questi «avversari» nostri come dei bolscevichi, e dedicato un intero capitolo all’ordinovismo.

 

 

NOTA ESPLICATIVA.

 

Per maggior facilità di lettura, confronto e chiarimento, abbiamo inserito la documentazione nel corso stesso del racconto o in appendici al termine dei capitoli, con precisi richiami dall’uno alle altre, dando particolare rilievo ai testi del 1919-20 che svolgono argomenti appena sfiorati o non ancora approfonditi nel precedente volume, e corredandoli di ampi scritti o tesi rigorosamente paralleli della III Inter­nazionale. Gli ultimi due capitoli, dedicati al movimento comunista mondiale e al II Congresso di Mosca, formano un blocco solo: voglia il lettore non frettoloso considerarli come un tutto unico.

 

 

I

 

RICHIAMANDO IL PASSATO E ANTICIPANDO IL FUTURO

 

 

I volumi I e I bis della Storia della Sinistra precedono questo II volume di otto e rispettivamente sei anni. È quindi necessario riprendere il filo dell’esposizione allora interrotta, traendone il bilancio e insieme lanciando uno sguardo al di là dei confini cronologici ai quali per ora ci fermiamo: l'indomani del II congresso dell’Internazionale comunista.

Partendo dalle origini del movimento proletario internazionale e le vicende della sua diffusione in Italia, si è visto delinearsi dal 1880 circa, e prendere corpo dal 1910, una corrente di sinistra rivoluzionaria che, nel periodo immediatamente precedente la guerra mondiale 1914-1918, poggiò su basi teoriche sicure e svolse in un'incessante battaglia pratica la lotta contro il duplice revisionismo riformista e «sindacalista», rimettendo ordine in concetti fondamentali come il rapporto fra partito e organizzazioni economiche, programma massimo e rivendicazioni mi­nime, centro dirigente del partito e organismi periferici, socialismo e cultura, socialismo e religione (e, a fortiori, chiese costituite), socialismo e massoneria, o come le questioni scottanti dei blocchi elettorali, dei limiti dell’azione parlamentare, dell’atteggiamento del partito di fronte all’irredentismo.

Lo scoppio della guerra non solo non incise sulla combattività di questa estrema sinistra, ma la rinvigorì e diede alla sua polemica un carattere di lucida e tuttavia appassionata urgenza. Le citazioni conte­nute nella parte espositiva e ancor più i testi riprodotti nella parte documentaria dei due volumi citati provano come, di fronte all’onesto ma tentennante e in ogni caso teoricamente insufficiente «neutralismo» della direzione del PSI e ai paurosi sbandamenti di una destra insofferente di ogni disciplina alle direttive centrali, la Sinistra difese sulla stampa «adulta» e giovanile, e in frequenti riunioni di partito, le medesime tesi che la sinistra internazionale di Zimmerwald e Kienthal sostenne nella stessa fase storica.

Si deve alla continuità di questa battaglia teorica e pratica se, al primo annunzio della rivoluzione russa e della presa bolscevica del potere, la corrente di sinistra in Italia poté salutarle non per adesione retorica e slancio di entusiasmi effimeri alla Serrati-Lazzari, ma per totale convergenza di posizioni teoriche e di atteggiamenti tattici, e riconoscerne confermati, non modificati, non aggiornati o, peggio, smen­titi (come pretese Gramsci!), i cardini della dottrina marxista in ordine alla conquista violenta del potere e alla distruzione dell’apparato statale capitalistico, all’instaurazione della dittatura di classe e al suo esercizio ad opera dell’unico partito comunista, al terrore rosso come suo prolun­gamento necessario, e al carattere non nazionale o locale, ma mondiale della fase storica aperta dal grandioso evento. Si deve ad essa se, fin dai primi giorni di «pace», la Sinistra poté, sia nella stampa centrale e in riunioni nazionali di partito, sia attraverso il settimanale «Il Soviet», lanciare una rovente offensiva tanto contro la destra francamente gradua­lista e democratica, quanto contro l'equivoco «centro» massimalista, roboante nella sua fraseologia rivoluzionaria ma legato da solidi fili al riformismo dietro lo schermo menzognero di un sovversivismo inconclu­dente (ben espresso da parole d'ordine fatue e disorientatrici come quella dello «sciopero espropriatore» e dalla pretesa di costituire «a freddo» i soviet redigendone lo... statuto), e quindi poté tessere intorno alla sua opera martellante di riaffermazione delle basi teoriche del mar­xismo rivoluzionario e della sua visione del trapasso dal potere capitali­stico a quello proletario, e di rivendicazione della dottrina e del pro­gramma della III Internazionale su di esse fondata, la prima rete nazio­nale di quello che sarà il Partito Comunista d'Italia.

In tale quadro si è messo in evidenza come nulla accomunasse le tesi della frazione che (soprattutto per distinguersi dalla frazione, auto proclamatasi «comunista», dei massimalisti) si chiamò astensionista alle correnti posizioni anarco-sindacaliste, contro le quali (e contro la pericolosa illusione di poter costituire con esse un fronte di «unità proletaria») sì era al contrario battuta con un rigore ed una fermezza che non ebbe riscontro in nessun partito o gruppo in Europa o fuori, mentre fin dall’inizio aveva levato l'allarme sulle fantasticherie del gruppo dell’«Ordine Nuovo» circa la possibilità di costruire la società nuova, pietra su pietra, nell’ambito della vecchia - o peggio, entro il perimetro della fabbrica - eludendo il problema centrale del potere e, prima ancora, del partito politico.

Di fronte ad una situazione internazionale e nazionale che vedeva le masse proletarie scendere sul terreno della lotta aperta contro l'avver­sario di classe onusto degli allori dell’immane carnaio bellico, e il partito socialista rincorrere il fantasma di successi elettorali sacrificando ad essi la preparazione rivoluzionaria del proletariato ad una presa del potere che la corrente de «Il Soviet» non credeva vicina, ma sapeva non sarebbe mai stata possibile perdurando l'equivoco di un partito rivolu­zionario a parole e legalitario nei fatti, la Sinistra comunista additò nella tattica dell’astensionismo elettorale - su basi non solo diverse ma op­poste a quelle proprie dell’ideologia anarchica o sindacalista - il più efficace catalizzatore del processo di separazione sia dai riformisti che dai falsi rivoluzionari massimalisti, e di superamento dell’equivoco paraliz­zante di una «unità» posticcia e fallace. Era, si disse, la «cartina di tornasole» per un processo organico di selezione dei partiti comunisti dal vecchio tronco della socialdemocrazia prebellica; in questo senso, un mezzo strumentale sussidiario rispetto alle fondamentali discriminanti tracciate dai bolscevichi in pagine memorabili così come nell’incendio della guerra civile. Ma era anche un ponte gettato verso il riconoscimento, che speravamo possibile, della necessità di adottare nell’Occidente capita­listico una tattica e un metodo di lotta ai quali il perdurare di illusioni e consuetudini democratiche e parlamentari profondamente radicate impo­neva di ricorrere ai fini di una spietata rottura con ogni revisionismo e socialdemocratismo aperto o mascherato. Non era, comunque, l'astensioni­smo a definirci: era la totale convergenza nei principi coi bolscevichi - per i quali del resto, in dichiarazioni inequivocabili degli stessi anni e in primo luogo del 1919, la questione dell’utilizzo a scopi rivoluzio­nari della tribuna parlamentare e del meccanismo elettorale, o viceversa del loro ripudio, passava in ultima linea (né poteva essere decisa una volta per tutte) di fronte ai cardini della comune dottrina: partito, insur­rezione, dittatura, terrore rosso.

Il seguito della narrazione e dell’annessa documentazione, mostrerà come nell’anno e mezzo che precedette Livorno tutte queste posizioni centrali, difese nella loro globalità solo dalla nostra corrente, vennero sempre più chiaramente definendosi, e come i fatti stessi posero noi - contro tutti i falsi devoti a Mosca - sul cammino della costituzione del Partito Comunista d'Italia, sezione - e non altro che sezione - della III Internazionale. Mostrerà però anche come internazionalmente la «grande occasione» della crisi postbellica andò perduta, non tanto nel senso che si era previsto l'incendio rivoluzionario mondiale e questo non venne, quanto nel senso che non si seppe evitare che al prevalere delle forze conservatrici di classe nel poderoso scontro si associasse la totale degenerazione della classe rivoluzionaria come dottrina e come organizzazione, e, percorsa l'intera china, si precipitasse fino in fondo nel baratro della controrivoluzione staliniana e poststaliniana, con una classe che ha perduto il suo orizzonte e stenta dolorosamente a ritrovarlo, e con partiti che pretendono di dirigerla ma, soprattutto dove sono rima­sti pletorici, servono l'ideologia e la forza di classe nemica.

E poiché il senso della lunga battaglia della Sinistra dal 1919 al 1926 fu tutto nello sforzo d'impedire che, per quanto stava in noi - cioè nel partito, «coscienza» e «organo» della classe - questo sbocco rovinoso fosse riservato ai generosi proletari d'Europa e del mondo, è necessario risalire alle origini del bivio che si aprì dinanzi a quello che nel 1919-1920 appariva ed era un blocco unico, e che lo vide a poco a poco schierarsi in direzioni prima diverse, quindi opposte.

 

* * *

 

Finita col 1918 la prima guerra mondiale, nei fulgidi anni 1919-20 il terrore del grandioso verbo rivoluzionario fece tremare il mondo borghese.

Negli anni 1914, 1915, 1916 e parte del 1917, la corrente pubblica opinione, formata allora come oggi dalla pubblicità delle gazzette, poi arricchitasi di ulteriori mezzi di fabbricazione a basso costo della Beozia popolare, non si fermava tanto sul risultato che la filantropica civiltà capitalistica avesse generato il massacro generale, quanto sul fatto che lo spettro levatosi dal 1848 su tale miserabile civiltà e cultura - il socia­lismo rivoluzionario, che aveva affidato la palingenesi alla classe dei senza patria - nelle brevi ore dell’agosto 1914 si fosse afflosciato naufragando nel conformismo sciovinista.

Ma dalla fine del '17 l'inatteso incendiarsi di una nuova striscia di polvere partita dall’Ottobre di Pietrogrado e di Mosca aveva risollevato più tremendo il fantasma che turbava i sonni dei privilegiati, dei conformisti, dei possidenti. Dopo un periodo di confusione, per capi politici e mestatori gazzettieri, nello sforzo di comprendere la tragedia della storia che aveva per teatro la Russia, e dopo il vano lancio delle spiegazioni più insulse e deformi che misuravano degnamente il grado d'intelligenza e di sapienza della classe dominante, una luce abbagliante si era riaccesa e faceva tremare le vene e i polsi dei conservatori. Il loro terrore era che alla guerra generale degli stati, che aveva fatto la sua travolgente apparizione spegnendo le fiamme della lotta tra le classi, succedesse come nuova fase storica non la pace fra gli stati, ma un nuovo incendio di guerra di classe, di guerra civile, che dalla Russia si rovesciasse sull’Europa ed oltre.

Tutti i fatti di quell’epoca ardente contenevano questo monito, e vana riusciva la prassi secolare della falsificazione ufficiale delle notizie. I fatti, innegabili quanto ineluttabili, portavano con sé la forza del vati­cinio, fiamma inestinguibile di tutte le rivoluzioni avanzanti. E, per la prima volta nella storia del genere umano, il vaticinio non veniva da un profeta ispirato, ma dalla dottrina completa e luminosa di un movi­mento storico, che in alto si sognava di aver sepolto, e per sempre. Ardua, difficile ed elevata, la teoria del partito rivoluzionario era nell’epoca d'oro in cui - non per virtù di una banda di profeti in seconda o di sottoprofeti - appare come luce spontanea nella testa «delle masse», ossia di quelli che non sanno, non hanno scuola, non hanno cultura, c per questa loro felice condizione non sono appestati dai fumi di civiltà corrotte e in decomposizione (1).

Il movimento comunista internazionale fu in quella fase al suo vertice. Vittoria nella battaglia insurrezionale in Russia contro tutta la gamma dei partiti piccolo-borghesi, avversari classici, e socialdemocratici, traditori classici; poi vittorie militari contro le orde bianche controrivo­luzionarie mantenute prima dai tedeschi - sventrati con la supermanovra rivoluzionaria di Brest-Litovsk -, poi dagli alleati dell’Intesa. E, nello stesso tempo, riaffermazione e levata in alto della dottrina del partito proletario mondiale, che era servita di vitale ossigeno alla formazione del partito bolscevico e che lo stesso aveva rivendicata nella sua lucente interezza contro le ignominie dei revisionisti e dei patrioti leccapiedi del 1914.

Quanto grandi, in quel tempo e in tutto il mondo, la sicurezza e la convinzione di milioni di proletari, nella infallibilità della nostra bussola teorica! Mentre la borghesia aveva visto dilacerati i suoi imbelli ideali e vagolava biascicando con i vari sacrestaneschi Wilson un riordinamento del suo mondo, illimitato era il nostro disprezzo, nel rifulgere delle nostre tesi, per tutto il suo bagaglio di ideologie politiche fatiscenti, per le sue filosofie già disperse dal marxismo, per la sua scienza accademica falsa e corrotta, per la sua tecnologia ciarlatana e truffatrice del lavoro e del consumo, e soprattutto per la infame ipocrisia dei suoi pacifismi e filan­tropismi puritani!

La massa proletaria ignorante si levava a guardare con disprezzo tutta la sapienza della borghesia e le sue pose intellettuali. A distanza da quel tempo splendido, ma facendo tesoro di quelle lezioni della storia, abbiamo potuto rivendicare la tesi che la punta avanzata della conoscenza della specie è data dalla teoria della lotta sociale come la scopre il partito della classe rivoluzionaria; e qui è il primo incontro dell’uomo con la verità. Allora, nella nostra azione di comunisti di tutto il mondo, era l'intuizione di questa formulazione del problema della conoscenza, contenuta in una delle soluzioni di millenari enigmi date un secolo addietro dal marxismo.

Questo il senso - opposto a quello del viscido corteggiamento odierno di masse non rivoluzionarie, non di senza riserva, non di senza dio e senza patria, ma di piccoli borghesi e piccoli padroni, filistei dal gruzzoletto nella calza di lana e dall’intrallazzo di piccolo cabotaggio, intellettuali pronti a legare il carro dove il padrone vuole in cambio di una manciata di biada e dì piogge di onori -, questo il senso della teoria che trova le masse, e delle masse che fanno con la loro lotta pratica nascere la teoria nuova, originale, prima nella storia.

Alla data da cui prende l'avvio questo volume, in Russia era in corso la fase conclusiva della guerra civile che, sotto la inflessibile guida politica e militare di Lenin e Trotsky, con l'integrale mobilitazione di un partito pronto ad ogni sacrificio e persino olocausto, di un prole­tariato capace di ogni abnegazione, e di tutte le pur modeste risorse ma­teriali disponibili, doveva non solo definitivamente ributtare gli orgogliosi corpi dì spedizione anglo-franco-nipponici, ma riconquistare l'Ucraina e liberare da un memorabile assedio Pietrogrado, culla dell’Ottobre bol­scevico. Nel fuoco di quella ciclopica battaglia erano nate (novembre 1918) le pagine sferzanti de Il rinnegato Kautsky e la rivoluzione proletaria, era salito il grido dei manifesti e delle tesi programmatiche del congresso costitutivo dell’Internazionale comunista (marzo 1919), e ben presto se ne sprigioneranno come faville da un'incudine i capitoli di Terrorismo e comunismo (maggio 1920).

Malgrado i terribili rovesci tedesco e ungherese in un semestre nell’arco del quale si può dire che non passò giorno senza che nelle vie e nelle piazze di innumerevoli città del Centro Europa i proletari si battessero contro il nemico di classe, il poderoso fermento sociale del dopoguerra in Occidente non accennava a placarsi. Non ne erano im­muni i «vincitori» del conflitto imperialistico: in Italia, vittoriosa e vinta, le violente agitazioni per il caro vita si erano appena chiuse (2) solo per cedere il passo ad una fulgida annata di purtroppo mal dirette - o non dirette affatto - lotte economiche; in Inghilterra, gli scioperi toccavano cifre record interessando due milioni e mezzo di operai di industria e provocando la «perdita» di 34 milioni di giornate lavorative (non si tratta, beninteso, di scioperi «articolati», «al contagocce», «a scacchiera»!); negli Stati Uniti si stava per accendere la gigantesca fiammata da cui, fino al gennaio 1920, sarà investita l'industria siderur­gica, mentre nella stessa Francia, svenata e tuttavia ebbra di vittoria, andavano maturando le condizioni dalle quali nel 1920 si sprigionerà la scintilla del grande sciopero ferroviario. E non ne erano immuni i «neutrali» pasciutisi... imparzialmente (cioè vendendo, armi ai due blocchi belligeranti) al cinico banchetto del massacro: la Spagna in primo luogo, la stessa Svizzera e gli stati scandinavi in secondo.

Il proletariato si batteva con stupenda generosità, e se in Italia, come poi in Francia, il vecchio apparato statale democratico mostrava di saper reggere all’urto mobilitando l'intero arco dei suoi strumenti legali di attacco e di difesa e, ove non bastasse, creandone di nuovi coi relitti sbandati e riottosi delle armate di guerra, nel principale teatro degli scontri di classe, nel Centro Europa e segnatamente in Germania, la borghesia, impotente a superare la crisi, aveva dovuto affidare la turpe bisogna di imbrigliare e poi massacrare gli operai agli stessi uomini della socialdemocrazia che nel 1914 li avevano trascinati al macello, affidando loro il compito di salvare per la seconda volta il regno del capitale in veste di sbirri e di boia, come nel gennaio e nel marzo a Berlino, o di «compartecipanti al potere» come nelle repubbliche sovietiche di Buda­pest e Monaco, pronti nel momento decisivo ad aprire le porte alle feroci bande del terrorismo bianco là, alle legioni della ricostituenda Reichswehr comandate centralmente da un Ebert e localmente da un Hoffmann qui.

L'emorragia era stata, nel primo semestre del 1919, spaventosa (oggi, retrospettivamente, possiamo misurarne tutta l'ampiezza); essa aveva falciato il fiore dell’avanguardia rivoluzionaria europea. Ma tale era la violenza del terremoto dal quale era scosso il sottosuolo della società borghese, che sempre nuove leve proletarie ne balzavano fuori a colmare i terribili vuoti. La vera tragedia, più ancora dell’olocausto, era che la spietata lezione tardasse ad essere appresa. «La volontà delle masse lavoratrici di tutto il mondo civile, messe direttamente in moto dal corso degli eventi, è oggi infinitamente più rivoluzionaria della loro coscienza, sulla quale pesano ancora i pregiudizi del parlamentarismo e del socialismo dei conciliatori», scriverà Trotsky nel maggio 1920; tre anni prima, riferendosi al terribile peso di questa inerzia storica, Lenin aveva detto che in Occidente sarebbe stato infinitamente più difficile che in Russia conquistare il potere laddove, in forza di una dotazione enormemente superiore di forze produttive, sarebbe stato in­comparabilmente più facile conservarlo. Non era soltanto il persistere di tradizioni democratiche e sbracatamente parlamentari (si pensi alla Francia e al suo partito socialista, fresco per giunta di «union sacrée»), quello che frenava il processo di acquisizione in senso positivo del bilancio bellico e post-bellico, e la sua messa a frutto per un riarmo teorico e pratico completo del movimento operaio: era lo spesso diaframma inter­posto fra «volontà» e «coscienza», fra slancio istintivo delle masse e costituzione in partito rivoluzionario, dal «centrismo» - nemico nu­mero uno per Lenin in tempo di guerra come in tempo di pace. «Dopo il crollo del social-patriottismo ufficiale, il più importante fattore politico sul quale poggia l'equilibrio della società capitalistica è il kautskismo internazionale», continuava Trotsky riecheggiando mille dichiarazioni ana­loghe di Lenin e dell’Esecutivo dell’Internazionale comunista. Sarebbe stata condotta a fondo, veramente a fondo, la lotta contro «le menzogne e i pregiudizi del socialismo dei conciliatori», retroguardia e copertura della socialdemocrazia gerente del potere statale e degli interessi bor­ghesi?

Per la Sinistra, la scena mondiale, particolarmente nel Centro Euro­pa, non ammetteva facili ottimismi. Essa, come Lenin e i bolscevichi, aveva individuato la causa prima delle sanguinose sconfitte di Berlino, Monaco e Budapest, nella «fisima dell’unità proletaria», nell’«errore di aver creduto nella conversione a sinistra dei maggioritari» (3), e, ai suoi occhi, l'aspetto più grave della drammatica vicenda sarà sempre più che il centrismo degli indipendenti, rifattosi una verginità menzognera per aver cessato di condividere il potere con la destra socialdemocratica dopo averla aiutata a superare il grave scoglio del trapasso dall’impero di Guglielmo II alla repubblica di Ebert, e a svuotare i consigli operai della loro carica rivoluzionaria e del loro peso reale istituzionalizzandoli come ingranaggi della costituzione weimariana, non solo si ammantasse di fraseologia estremista accettando la forza (purché non fosse... violenta), la dittatura (purché fosse... democratica), il terrore (purché non fosse... pubblicamente proclamato), l'internazionalismo (purché si conciliasse... col «giusto» rispetto degli interessi e delle «particolarità» nazionali), ma, col peso bruto della sua organizzazione capillare e del suo seguito di operai confusamente attratti da un'esibizione di potenza materiale e di «ortodossia» ideologica, influisse sul giovane, gracile e paurosamente decimato Partito Comunista di Germania, rafforzando nei suoi dirigenti braccati quel «timore riverenziale», quell’antico «complesso d'inferio­rità» di fronte alla «grande casa comune», che aveva reso così lento, difficile e tardivo il distacco degli spartachiani dall’USPD, come già pri­ma dall’SPD. Il partito tedesco non riusciva a trarre dall’isolamento in cui la storia l'aveva posto una ragione di /orza; sognava riaccosta­menti, seppur cauti e temporanei, ai falsi cugini; maturava già allora il primo germe di «espedienti tattici» rovinosi destinati a passare di contrabbando nell’ Internazionale degli anni venturi. In Italia, il fascino maliardo dell’«unità», esercitato da un partito che, aderendo all’Internazionale, dopo aver «salvato l'onore» durante la guerra, poteva presentarsi a Mosca e ai proletari con una parvenza di «carte in regola», da un lato privava le masse in movimento di una guida politica sicura perché omogenea, dall’altro ritardava il processo di enu­cleazione di una corrente genuinamente comunista. In Germania, la stessa antica fisima serviva agli indipendenti per paralizzare dall’esterno il partito di Liebknecht, Luxemburg, Jogisches. In Francia era l'arma preferita dei Longuet, lo schermo dietro il quale la SFIO tentava di mutar pelle per non perdere il vizio parlamentare, democratico e rifor­mista. Il «reagente» dell’astensionismo da una parte, la massima rigidità nelle condizioni di ammissione dall’altra per impedire che, attraverso le maglie di condizioni «elastiche», il riformismo «cacciato dalla porta rientrasse dalla finestra», uniti alla rivendicazione di un programma unico imperativo per tutti e non soggetto a discussioni e votazioni, erano per la Sinistra un comandamento dettato dalla confusione, dal ritardo, dalle mille manovre, in mezzo ai quali si svolgeva la maturazione delle condizioni soggettive dell’attacco rivoluzionario - quindi del partito. Essa si basava sul bilancio di lunghe battaglie e di dolorose esperienze qui in Europa.

È certo che i bolscevichi non avvertirono tutta la gravità della situazione né l'urgenza dei moniti che noi levammo - e che, del resto, giunsero loro tardi ed incompleti attraverso i lenti o dubbi canali della corrispondenza legale e clandestina; è certo che credettero assai più facile di quanto non fosse, nella realtà europea, trasportare e allineare sulla via diritta e tagliente dell’Ottobre partiti, frammenti di partiti, masse proletarie occidentali. Ma il punto è che non da loro bensì da noi comunisti di Occidente sarebbe dovuto giungere (e non giunse se non dalla nostra voce facilmente sommersa nel coro dei «gran­di» partiti) l'allarme per una tempestiva rettifica di tiro. Non venne soprattutto dalla Germania, dai cui proletari che avevano dato e daranno ancora splendide prove di abnegazione e dedizione, e dal cui partito giovane ma tempratosi in così dure esperienze, tutti aspettavamo fosse tagliato il nodo stretto intorno alla Russia bolscevica e fosse trascinata nel vortice di una rivoluzione di cui si sentivano tumultuare le ondate la classe operaia di tutto il mondo capitalistico, e per riflesso dei paesi coloniali e semicoloniali in impetuoso risveglio. Essi, i bolsce­vichi, avevano additato, nella lezione dei «fatti» di un paese nel quale l'accavallarsi di due rivoluzioni avrebbe teoricamente giustificato una via più contorta e l'adozione di un «modello» tattico e persino strategico meno «puro», quello che Lenin nell’Estremismo definì per tutti l'«essen­ziale dell’inevitabile e non lontano avvenire», ristabilendo con ciò stesso i cardini integrali della dottrina marxista e riconfermando la sua indica­zione di. un'unica via al potere, inizio di profonde trasformazioni nelle strutture economiche e sociali; un'unica via battuta dal partito comunista da solo, man mano liquidando qualunque illusione di strade «comuni ad altri».

Erano questi i tratti generali, necessari e obbligatori della rivoluzione proletaria ribaditi dall’Ottobre rosso. Da noi avrebbe dovuto salire il monito che era vano e quindi controproducente estrapolare, applicandole all’Occidente altamente capitalistico e nella stessa misura immensamente putrido, le «condizioni speciali» e quindi le particolari risorse tattiche dell’arsenale di battaglia e di vittoria dell’Ottobre, che non ne costitui­vano e non ne potevano costituire l'insegnamento universale e perenne. In una situazione come quella della Russia prerivoluzionaria, dove gli istituti democratici stavano appena nascendo ed erano effettivamente per la stessa borghesia in ascesa l'arena di una lotta eversiva; dove i confini tra i partiti accomunati dalla lotta contro lo zarismo erano ancora tenui e oscillanti; dove la «doppia rivoluzione» covante nelle viscere dell’impero ancora feudale ma già permeato di capitalismo irrompente dall’esterno metteva in moto tutti i ceti e ne modificava quasi di giorno in giorno gli schieramenti; in una situazione simile i bolscevichi avevano potuto esperire le agili, e di volta in volta diverse, manovre di utilizzo o boicottaggio dell’istituto parlamentare, di accostamento o distacco dai menscevichi e perfino da ali socialrivoluzionarie estreme, di lenta edificazio­ne o brusco ripudio di tappe «intermedie», senza mai bruciarsi le ali e per­dere la bussola di una direttiva lungamente maturata nell’opera di restaura­zione della dottrina marxista cui Lenin aveva dedicato il meglio delle sue stupende energie: ad essi era stato possibile distruggere alle proprie spalle i «ponti» via via costruiti, ed emergere infine soli al timone della dittatura proletaria e comunista esaurendo nel giro finale di pochi mesi tutte le chances di combinazioni e manovre, e liquidando poco dopo anche l'ultimo legame col passato - la collaborazione coi socialrivoluzionari di sinistra (e tuttavia, quanto peserà ancora sulle sorti della rivoluzione vittoriosa, fino al 1922, l'eredità di quel partito!). E, anche così, l'agilità della tattica e il «realismo» spregiudicato delle soluzioni contingenti non erano stati che l'aspetto secondario della loro lotta.

Era oggettivamente concepibile la trasposizione di questo schema in un Occidente in cui le frontiere fra le classi e fra i partiti che le rappresentavano in mille sfumature erano ormai rigide e definitive, lo stato democratico aveva alle spalle un secolo di esperienza nel maneggio alterno della mano pesante e del guanto di velluto, l'infezione parlamen­tare aveva avuto il tempo di completare la sua opera devastatrice nelle organizzazioni operaie, e i grandi «successi» pratici, le «conquiste» economiche e «sociali», avevano infine relegato nel museo degli oggetti venerati ma inutili e in fondo guardati con superiorità compiacente - le armi della teoria lasciate arrugginire in nome dell’«azione»? Noi lo negammo e - non per stupido desiderio di «purezza» (che, se mai lo avessimo avuto, ci avrebbe posti in tutt’altro campo), né per mania di «logica astratta», come ci rimproveravano coloro i quali si erano specia­lizzati nella mancanza di ogni logica e più ancora di qualunque dialettica, sacrificandole al culto del «fatto» o, per dirla con Bernstein, del mo­vimento, in qualunque direzione avvenisse; ma per sana esigenza di efficienza pratica e di stabilità e continuità organizzativa - noi ci bat­temmo contro le facili acquisizioni di gruppi, ali e partiti interi, sia pure accolti in seno all’Internazionale nella generosa illusione di plasmarli e disciplinarli mediante un sovrumano sforzo di volontà; contro le ma­novre equivoche e le parole d'ordine mal definite, suscettibili è vero di guadagnarci seguaci occasionali ma sicuramente destinate ad alienarci mili­tanti veri, e a disorientare le celebri, corteggiatissime masse; ci battemmo per una selezione molto più radicale, severa a costo d'essere dolorosa. Era una via lunga e difficile (e, nella stretta dell’assedio convergente del nemico esterno e del nemico interno, i bolscevichi si allusero che una via più breve o facile esistesse), ma non eravamo noi a «sceglierla»: era la storia ad imporcela. O la seguivamo con coraggio, o tutto, alla lunga, sarebbe andato - come andò - perduto: la visione teorica, l'obiettivo finale, la tattica ad essi conforme, la organizzazione che è salda e disciplinata se è saldo il programma ed invariabile e noto a tutti il cammino.

Questo il senso della nostra battaglia nel 1919-1920 per l'astensioni­smo e per le «barriere insormontabili» da opporre a rigurgiti opportu­nistici; in anni più tardi, per un metodo ben delimitato e, se possibile, codificato in norme imperative di azione pratica, tale da assicurarci il massimo di influenza sulle file proletarie compatibile con la situazione oggettiva facendo salva nello stesso tempo la continuità rigorosa delle posizioni programmatiche e della compagine organizzativa del movimento. Questo il senso della nostra successiva battaglia contro i fronti unici politici con frazioni socialiste notoriamente e irrevocabilmente passate al nemico; contro le parole d'ordine disorientatrici del «governo ope­raio» o del «governo operaio e contadino»; contro quella «bolsceviz­zazione» che preludeva - nell’assurda pretesa che la «disciplina» si instauri a colpi di provvedimenti amministrativi invece che attraverso la chiarezza e univocità delle direttive e degli atteggiamenti pratici - al regno tristemente «monolitico» del knut staliniano. Questo il senso delle nostre grida di allarme contro una concezione del percorso storico futuro, e della tattica ad essa conseguente, non rettilinea ma contorta ed indiretta, che finiva per posare la vittoria rivoluzionaria dei ben maturi paesi capitalistici d'Europa al termine di una serie di tappe spurie ed equivoche, di cui la storia ha poi dimostrato che non costitui­vano un vantaggio per la classe rivoluzionaria, ché anzi, nella loro vana attesa e manovra sterile, al danno della rivoluzione mancata si aggiungeva quello della distruzione totale dell’organizzazione rivoluzionaria di classe, del partito comunista.

Non pretendemmo mai che la nostra soluzione, così come la conden­sammo nelle Tesi di Roma e di Lione (4), fosse, punto per punto, l'unica vera; chiedemmo che il problema di una giusta e coerente impo­stazione tattica per i paesi a capitalismo stramaturo fosse posto d'urgenza all’ordine del giorno e che, restituendo ai bolscevichi almeno una parte dei loro grandiosi servigi alla causa del movimento comunista mondiale, le sezioni a più diretto contatto con le dure realtà dell’imperialismo fornissero alla sua soluzione un franco e, occorrendo, spietato apporto. Non fummo ascoltati; e l'Internazionale, che mille neofiti dell’ultima ora conquistati sulla via di Damasco dalla «moda dei soviet», accusavano ogni due mesi di manipolare «alla russa» i partiti di recente (e troppo frettolosamente, persino avventatamente) costituiti, o malamente ingros­sati attraverso fusioni votate a rapida dissoluzione con effetti devastatori sulla compagine organizzativa, cominciò invece a subire da forze spurie e immature una pressione in senso contrario a quello atteso, nel senso del «socialismo dei conciliatorì». Fu l'inizio - da noi previsto e denun­ziato - del crollo.

In sostanza il dissidio allora soltanto affiorato, poi approfonditosi fino all’irrevocabile dissenso, si risolve in opposte posizioni di principio nel gioco di tutto il metodo dialettico marxista.

Ci si diceva che un solido partito, colato in un certo modello, reso a furia di prediche enfatiche «leninista» e «bolscevico», può senza tema esplicare tutte le tattiche, osare qualunque manovra, e a un certo richiamo si riporterà integro e immutato sulle posizioni rivoluzionarie, e lotterà per le conquiste supreme. Sarebbe stato un fatto di volontà, di energia, di eroismo rivoluzionario (ed eravamo noi gli accusati di volontarismo, di eroismo, e così via!) quello di uscire incolumi dalle sedute dei parlamenti borghesi e dalle manovre di corridoio, dal bazzicare con riformisti, pacifisti, piccoli borghesi, dal fare con loro dimostrazioni, agitazioni e combinazioni politiche, perfino elettorali. Ritornati noi coi nostri partiti sul tagliente filo del rigore rivoluzionario, la massa intera ci avrebbe seguiti sul terreno dell’insurrezione, e quei partiti opportunisti sarebbero stati ridotti al silenzio e spazzati via.

Rispondemmo in innumerevoli riunioni internazionali e nella nostra stampa quotidiana, che il partito è a sua volta un effetto delle situazioni storiche e dei fatti sociali; che la sua stessa azione lo influenza e lo deforma; e che in esso si «rovescia» la praxis, conservandogli una costante volontà e scienza programmatica, a un solo patto: che in ogni momento, senza la minima parentesi, alla luce del sole e senza eclisse alcuna, esso difenda la rigorosa incolumità della sua teoria, che si tutela grazie non ad archivi segreti ma ad attitudini e comportamenti visibili a tutti, ad un'organizzazione gelosamente continua, che lo rende e mantiene inconfondibile con ogni altro aggruppamento, e soprattutto coi famigera­tissimi affini.

Confrontando tale prova teorica coi fatti che accadevano attorno a noi in quelle fervide fasi, dicemmo che il baratto dei principi e l'ibri­dismo dei confini avrebbero sortito gli effetti opposti: prevalere dei partiti opportunisti e decadere del partito tra le masse in un primo tempo; degenerazione del partito stesso al livello di quelli opportunisti e controrivoluzionari in un secondo. Si parlò e si parla di pedanteria e dogmatismo. Oggi il quesito si pone come sperimentale e concreto: a chi la storia ha dato ragione?

Si parlò di nostra impazienza, di nostro ottimismo sulla vicinanza della rivoluzione. In qual misura questi siano «errori», più volte si è discusso. Ma, in effetti, noi dicemmo soltanto che il partito non aveva motivo di escogitare espedienti e trucchi nuovi solo perché la rivoluzione sembrava allontanarsi. I testi che pubblicheremo mostrano che fin dal 1920 non noi avevamo dichiarata sicura la vittoria dell’onda rivoluzio­naria nel primo dopoguerra. Noi ci preoccupammo, è certo, del fatto storico, da noi fra i primi giudicato ineluttabile, che nel 1914-1918 la rivoluzione avesse mancato un grande appuntamento con la storia, come per Marx lo aveva mancato nel 1848; e che appunto allora la classe proletaria, affogando nel nazionalismo con la maggioranza dei suoi partiti, avesse perduto la grande partita - catastrofe lunga da riscattare. Ma soprat­tutto ci preoccupammo che, lungi dal guadagnare nuova esperienza e forza futura da un tale rovescio, perdessimo anche il nerbo del partito rivoluzionario e del suo metodo.

È facile ed anche troppo trovare nuovi rivoluzionari quando la rivo­luzione avanza. Il problema è di non perderli, oltre che quantitativa­mente anche qualitativamente, quando la rivoluzione si allontana. È questo che può forse giungere ad evitare la volontà di un partito; ché capovolgere le forze storiche da cui è fatto vivo, non può, per noi marxisti, assolutamente.

Questo si cercò allora di salvare. Ma anche questo, vergognosamente (e non riparabilmente che in tempo lontano), andò perduto.

* * *

Si tratta per noi, in questa come in ogni altra ricostruzione dei fatti, non di accusare, meno che mai di menare vanti di vivi o di morti (sciocchi mezzi nella cui sbornia sta in buona parte l'effetto disfattista che rovinò sulla rivoluzione), ma di preparare, con le lezioni del passato e soprattutto - come si addice a marxisti - con quelle della controri­voluzione, le forze di un avvenire meno deludente. Anche la «storiogra­fia», per noi, è un'arma di battaglia: è il «ponte sul tempo» che solo può dare alle generazioni proletarie successive il filo per non smarrire il cammino e trasformare in vittorie le sconfitte.

La storia come abbiamo inteso svolgerla, non per un medagliere imbe­cille di onorificenze al merito ma per la lezione della dinamica delle lotte proletarie fitte di alti e bassi da tragedia, ha l'unico scopo - sia detto una volta per tutte, prima di riprendere il discorso al punto al quale l'avevamo lasciato - di leggere a distanza di decenni quale sia il rapporto fra gli ardenti dibattiti di 30 anni fa e la sciagurata situa­zione di oggi.

I documenti non sono di firma e di portata personale, ma valgono in quanto argomentarono con previsioni del futuro immediato e lontano, che oggi è possibile riscontrare sui fatti trascorsi.

Solo se si riesce a gettare sul tempo questo ponte efficace si è fatta opera rivoluzionaria. Se tanto non fosse possibile, tutto cadrebbe; ma sarà facile provare, sia pure alla scala della Sinistra comunista «italiana», che un ciclo di questa possibilità si è concluso.

Le macro-carogne e le micro-carogne fanno troppo presto a ralle­grarsi, se sperano di provare che solo il loro metodo, quello di decidere alla giornata mettendo la vela come tira il vento, è attuabile; e a questa miseria abbassano la grande politica, a questo metodo subordinano ogni coerenza con se stessi e ogni carità di partito, il quale si riduce a una struttura di plastica cui si danno tutte le forme e tutti gli usi, fino a quello supremo della tecnologia borghese imperante: farne quattrini.

 

(1) Piaccia o no ai cultori di un socialismo «costruito» coi mattoni della «cultura» e la calce della «scienza», era stata questa la forza genuina dell’Ottobre. Comme­morando Lenin un mese dopo la sua morte, Preobragensky scriveva sulla «Pravda»:

«Il nostro operaio è il giovane barbaro pieno di forza che la civiltà capitalistica non ha ancora corrotto; che non è pervertito dal comfort e dal benessere, briciole cadute dalle mense degli sfruttatori delle colonie; che non si è ancora lasciato piegare al giogo della legalità e dell’ordine borghese [...]. Il nostro operaio ha cominciato a odiare il capitale e a combatterlo prima di riverirlo come organizzatore di un regime economico superiore all’artigianato; ha cominciato a disprezzarlo prima di aver gustato la cultura borghese e di esservisi legato. Non assomiglia né al proletario occidentale educato da due secoli di industria manifatturiera e capita­listica, né ai semiproletari asiatici […]. La nostra classe operaia univa in sé lo slancio rivoluzionario, la spontaneità degli anni verdi, alla disciplina che cementa i milioni di uomini raggruppati dal lavoro intorno alla macchina». (Riprodotto in «Bulletin Communiste», nr. 10 del 7.III.1924)

(2)   Cfr. Storia della Sinistra comunista, vol. I, pagg. 163-169.

(3) Da L'ora critica del movimento comunista ne «Il Soviet» del 25.V.1919, a proposito della Baviera; lo stesso giudizio ricorre per Berlino nell’articolo del 26.I Nella rossa luce del sacrificio (Storia della Sinistra, I, p. 360, e per Budapest in La restaurazione borghese in Ungheria, del 10.VIII (Storia della Sinistra, I bis, p. 87).

 (4) Cfr. il nostro volume: In difesa della continuità del programma comunista, Milano 1970.

 

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