Parte seconda: nel vivo della battaglia (1944-1945)

 

Gli scioperi del marzo 1944 videro il sacrificio degli operai dell‟Italia settentrionale (l‟allora Repubblica Sociale Italiana) in una tragica battaglia, sfruttata dalla borghesia antifascista per indebolire la nemica borghesia nazi-fascista, rafforzare la neonata alleanza con le potenze democratiche e soprattutto ingabbiare e attutire le istintive energie classiste di un proletariato esasperato dalle sofferenze belliche. Ma in quella realtà non tutto andava secondo i desideri borghesi. Seppure minoritaria, la voce dei comunisti rivoluzionari si levava con forza, decisa (nelle mille contraddizioni di una situazione confusa e violentissima e nei mille equivoci alimentati dalla controrivoluzione) a difendere e sviluppare nei limiti del possibile l‟antagonismo e l‟autonomia di classe del proletariato, contro la guerra imperialista e per la rivoluzione comunista, a partire dalla  lotta per la soddisfazione dei bisogni immediati e per la difesa delle condizioni di vita dei lavoratori, dentro e fuori il recinto, sempre angusto, delle fabbriche (pace, pane, salario…).

 

Dai primi scioperi del 1943 a quelli del 1944 (intensificatisi soprattutto a partire dal dicembre del ’43), uno stato costante di agitazione proletaria, causata da condizioni di vita rese sempre più critiche dalla guerra, si manteneva in tutta la Repubblica sociale.

 

La posizione dei nostri compagni fu subito chiara, nella difesa della causa operaia e nella denuncia delle forze nemiche che volevano tradirla e utilizzarla per fini borghesi. La riportiamo integralmente, riproducendo il testo del “manifesto” distribuito fra gli operai in quelle settimane, l’articolo di bilancio di quelle lotte uscito su “Prometeo” il 1° aprile 1944 e una serie di volantini risalenti al 1944-45, volti a indirizzare i proletari in senso classista e rivoluzionario.

 

Il manifesto lanciato dal partito agli operai scioperanti

Di fronte al dilagare dello sciopero di Milano, iniziato il 13 dicembre alla Breda ed estesosi immediatamente alle altre fabbriche (Falk, Marelli, Pirelli, Innocenti, Magnaghi, Caproni, Olap ecc.) il nostro Partito, presente nei suoi quadri, ha lanciato alla massa proletaria, indicando quale è l‟indirizzo che essa deve seguire per uscire dalla tremenda crisi nella quale i lavoratori sono stati gettati dalla guerra voluta dai capitalisti, queste parole:

“Operai milanesi!

Voi avete incrociato le braccia. Soddisfatte o no le vostre richieste di oggi, voi vi muovete fatalmente in un vicolo cieco e sarete, in breve, costretti a incrociare ancora le braccia.

Perché?

Perché i capitalisti e il governo nazifascista, responsabili della guerra, sono incapaci non solo di risolvere la tremenda crisi che ha polverizzato l‟economia nazionale, ma persino di sfamare voi e le vostre famiglie, costringendovi ancora a fabbricare cannoni per la guerra.

Operai!

Un solo mezzo avete per uscire dalla crisi: fare della vostra forza di classe una cosciente forza di guerra, una cosciente forza rivoluzionaria. Solo unendovi compatti contro la guerra, contro il capitalismo, contro gli sfruttatori di ogni colore che si servono delle vostre braccia e delle vostre vite per la loro lotta criminale di dominio, solo spostando la vostra azione dal terreno economico a quello politico, riuscirete a spezzare le catene che ancora vi imprigionano.

Operai!

Al capitalismo colpito a morte dalla sua stessa guerra, contrapponete ora la vostra capacità e la vostra forza di nuova classe dirigente. Contro il fascismo, che vuole la continuazione della guerra tedesca, contro il Fronte Nazionale dei suoi partiti, che vuole la continuazione della guerra democratica, voi organizzatevi sul posto di lavoro, cementando in un fronte unico proletario i vostri comuni interessi, il vostro stesso destino di classe che vi indica come già iniziata la lotta decisiva per la conquista del potere.

Il Partito Comunista Internazionalista è al vostro fianco.

Abbasso la guerra fascista! Abbasso la guerra democratica! Viva la rivoluzione proletaria!

Il Partito Comunista Internazionalista

***

In margine agli scioperi – un esperimento e il suo bilancio

 

Gli operai, che dopo uno sciopero di una compattezza impressionante e di una solidarietà senza precedenti, hanno dovuto riprendere il lavoro a testa china, inappagati nelle loro rivendicazioni, minime e in balìa di una reazione trionfante, si chiedono oggi con un senso di delusione e di rancore a quali criteri e a quali finalità l‟agitazione rispondesse. Avevano non una ma cento ragioni di scioperare, gli operai: ragioni che si riassumevano nella rivendicazione fondamentale che questa guerra terribile finisse, e finissero con lei la fame, la persecuzione poliziesca, il terrore. Il fatto stesso che a due mesi appena da un altro sciopero, la  classe operaia si gettasse con un sol uomo nello sciopero, non dimostrava forse che la ferita apertasi nella compagine borghese il 25 luglio sanguinava ancora, e che al proletariato si ponevano ormai problemi o  di vita o di morte, di definitivo riscatto?

 

Ma la voce sicura dell‟istinto di classe li avvertiva che lo sciopero generale è, soprattutto in regime di guerra, un‟arma troppo delicata perché vi si faccia ricorso senza la possibilità e la volontà di concluderlo a fondo – l‟atto finale dell‟assalto proletario alla roccaforte borghese, non l‟episodio isolato che si esaurisce in  se stesso. Da questa rivolta, per l‟avventatezza e l‟impreparazione tecnica con cui li si è buttati allo sbaraglio, nascerà negli operai una coscienza critica della vera natura delle forze politiche che ancora li dominano? L‟abbattimento momentaneo sarà superato col distacco da ogni coalizione borghese e col passaggio a rigide posizioni di classe?

Dalla risposta a queste domande dipende, in buona parte, il futuro immediato della classe operai italiana. Giacché se alla massa proletaria e dal punto di vista dei suoi interessi permanenti  di  classe, quell‟esperimento era assurdo, esso è perfettamente giustificato dal punto di vista dei partiti e delle formazioni politiche che l‟hanno promosso e diretto. Esso non è, nel quadro della loro politica, arbitrario: è l‟episodio premonitore di un‟offensiva generale, che prelude al cozzo definitivo fra i due grandi fronti borghesi, fascista e democratico. Per gli uni e per gli altri, in mancanza di supreme decisioni militari e di sicure vittorie diplomatiche, il fronte interno passa in primo piano: il nazifascismo punta su questa carta per mobilitare tutte le forze del lavoro al superamento della sua grande crisi, le  potenze  democratiche per gettarlo come massa di manovra contro la caparbia strategia dell‟avversario. La guerra che, nonostante i successi alleati, non esce da  un  eterno  vicolo  cieco,  la  schermaglia  diplomatica  che  si  traduce  in almeno temporanei insuccessi (Turchia, Spagna, Argentina  ecc.)  saranno  vinte  dietro  il  fronte, mobilitando come truppe d‟assalto il gigantesco potenziale di energie che cova nella massa operaia? Gli operai che hanno dimostrato di non volere combattere per la guerra fascista saranno  spinti,  sotto  la  parvenza fallace di una battaglia di classe, a combattere e a farsi dissanguare per la guerra democratica? Il gioco è chiaro: ed è per questo che, mentre il  nazifascismo fa leva sulla  demagogia  della  socializzazione,  le potenze alleate puntano sui  partiti  dell‟opportunismo  operaio,  perché  l‟arma  dello  sciopero  si trasformi da arma di classe del proletariato per il raggiungimento dei suoi compiti nell‟arma  che  una frazione della borghesia rivolge contro l‟altra  per  colpirla  a  morte,  in un‟operazione militare,  insomma, nel quadro della strategia democratica. Da questo punto di  vista  che importa il successo o l‟insuccesso di uno sciopero, nel senso finalista che la classe operaia gli attribuisce come una  posizione  conquistata d‟assalto sulla via che conduce al potere? Lo sciopero non potrà mai essere, per le formazioni politiche borghesi, la stessa cosa che per il proletariato: è una battaglia come quelle che si combattono sui campi di guerra, un necessario bagno di sangue che esaurisce la sua funzione quando ha assolto il compito di minare  la resistenza dell‟avversario, di provocare un‟accentuata reazione e, di rimbalzo, un più vivace spirito di rivolta. Poco interessa la sorte presente o futura dei battaglioni lanciati all‟assalto: meglio, anzi, che il proletariato si dissangui, e benedetta sia la scure fascista che lo colpisce, se gli toglie fin d‟ora la forza di porre sul tappeto il problema scottante del potere.

Non dunque perché sia stata una battaglia perduta lo sciopero lascia nell‟operaio cosciente un senso di amarezza, ma perché è stato diretto e ispirato da criteri borghesi. Il calvario della classe operaia è seminato di battaglie perdute, spesso altrettanto feconde quanto le battaglie vinte. Ma nessuna battaglia si può  considerare persa, finché si combatte sotto la propria bandiera e su un terreno che è nostro veramente. Ora, la situazione italiana, mentre vede dilagare una crisi sociale profonda che la guerra e la reazione nazifascista esasperano e che spinge il proletariato alla lotta con accanimento crescente, è tutt‟ora caratterizzata dall‟effettivo prevalere delle forze politiche borghesi, o gravitanti nell‟orbita borghese. Il proletariato si trova nell‟assurda e tragica situazione di essere nello stesso tempo il vero protagonista della lotta attiva, e la pedina manovrata senza risparmio dalle forze che si muovono sul piano della guerra: di essersi insomma sganciato dal fascismo e di rimanere agganciato, per l‟intermediario dell‟opportunismo socialista e, soprattutto, centrista (2), alla democrazia. In tali condizioni è chiaro che la democrazia borghese tenterà sulla pelle del proletariato non uno ma cento esperimenti del genere, e che questi esperimenti saranno condotti con tanta più spietata decisione e con tanto più facile esito, quanto più la crisi si avvicina –  come indubbiamente si avvicina – al suo punto estremo. E, se in seno al proletariato non avviene una salutare chiarificazione, il suo ruolo continuerà ad essere quello di oggi: di unica forza attiva in una lotta non sua.

La democrazia ha posto, per i suoi fini, il problema dello sciopero generale e dell‟insurrezione armata. E‟ necessario che il proletariato le strappi di mano queste armi, per farne le armi della propria battaglia. La situazione della classe operaia si fa di giorno in giorno più tragica: è giusto e naturale che combatta contro la guerra, che scioperi, che insorga. Ma questa sua lotta sarà feconda alla sola condizione che sia diretta verso obbiettivi di classe e che, nell‟atto di negare la guerra, metta all‟ordine del giorno il problema che la guerra rende per lei di un‟attualità palpitante: il problema della conquista del potere. In una lotta così impostata, che presuppone come sua premessa indispensabile la presenza e la guida fattiva di un partito di classe, ogni agitazione sociale ha il suo compito, e tutte rappresentano la catena delle tappe necessarie, il cui ultimo anello è quello dell‟insurrezione armata.

Nel quadro di questa strategia rivoluzionaria non hanno posto né lo sciopero per lo sciopero, né l‟azione “dimostativa”, né l‟insurrezione scatenata in un momento purchessia “tanto per fare qualcosa”: ha posto soltanto quella forma di lotta che il rapporto delle forze permette e che il momento storico esige. Solo in questa strategia, con tutte le forme attive e passive di resistenza alla guerra e di potenziamento delle forze proletarie che oggi si impongono, anche una battaglia perduta è una battaglia vinta.

L‟unica risposta che la classe operaia possa dare all‟avventura dello sciopero per lo sciopero e alle più ambiziose avventure a cui i fronti borghesi la preparano, non è né la delusione né lo scoraggiamento, ma la precisa volontà di preparare e affermare, nel momento culminante della crisi capitalistica, la conquista rivoluzionaria del potere. Ciò presuppone, come primo atto necessario, il distacco netto e radicale da tutte quelle formazioni politiche sedicenti operaie, che, sotto il manto di una tradizione marxista o in nome di una presunta tattica leniniana, preparano la via a una nuova disfatta proletaria.

La classe lavoratrice ha oggi la sua dura battaglia da combattere su tre fronti: il fronte del fascismo, il fronte della democrazia, il fronte del centrismo. E avrà vinto solo il giorno in cui, su ognuno di questi fronti, il nemico sarà stato irrevocabilmente sconfitto.

 

Note.

1.“Centrista” era il termine con cui i comunisti internazionalisti chiamavano allora gli stalinisti del Partito comunista italiano e degli altri partiti coordinati dal Cominform moscovita,  manovrato  dal  partito  russo  come ufficio

diplomatico per l‟esecuzione delle direttive della politica estera dello stato russo.

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Parte terza: da dove ricominciare (1946-1949)

La classe dominante italiana e il suo stato nazionale

 

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