Parte III

Dalla filosofia della prassi alla prassi della filosofia gramsciana.

“Dati i caratteri del gruppo ordinovista, il suo particolarismo e conccretismo figliati in realtà da posizioni ideologiche idealistiche borghesi, […] deve ritenersi che, a parte le clamorose dichiarazioni di ortodossia, l’adesione teorica […] degli ordinovisti al leninismo non valga molto di più della loro adesione di una volta alle Tesi di Roma”. Progetto di tesi per il III Congresso del PCd’I, presentato dalla Sinistra – Lione 1926. In difesa della continuità del programma comunista, ed. “Il programma comunista”, 1989.

1. Tra passato e futuro

Così come si è fatto più sopra, nell’analisi del pensiero di Gramsci, così ribadiamo che il ripercorrere le tappe della storia delle vittorie e delle sconfitte del movimento operaio non è per noi un vezzo storiografico o un contributo alla «scienza», ma una necessità per il lavoro pratico rivoluzionario, di collegare il presente e il futuro con le lotte passate.

Il marxismo descrive l’intero arco storico dell’umanità come il procedere da un modo di produzione all’altro. Un modo di produzione è definito sulla base dei rapporti che gli individui hanno all’interno del processo produttivo e di scambio, tra di loro e con i mezzi di produzione. Quando le forme di produzione si svilupparono all’interno delle vecchie, si resero necessari nuovi ordinamenti giuridici, etici, religiosi, politici, ideologici ecc., che codificano e registrano l’ormai avvenuto cambiamento nel sottosuolo sociale. La rivoluzione politica seguirà, per sancire il nuovo assetto delle classi sociali.

Un modo di produzione, dunque, si qualifica sulla base dei rapporti di classe così come essi sono generati nel corso reale del processo economico. Esso non è rivedibile, migliorabile, aggiustabile nella propria struttura interna da nessuna forza sociale. Può essere solo distrutto nel momento in cui esso diventa un ostacolo all’ulteriore espansione delle forze produttive. È precisamente per questa ragione che il marxismo viene considerato dal nostro movimento come l’unica e completa descrizione della società borghese: non rivedibile questa, come non migliorabile quello, da nessuno degli innumerevoli candidati al suo aggiornamento che si sono proposti, sempre in funzione antirivoluzionaria, nel corso del secolare processo rivoluzionario.

Gramsci, ne fosse o meno consapevole, si inserisce esattamente all’interno di questo filone di “revisori”. Dagli altri, traditori tout court, forse se ne differenziò in vita perché ebbe il privilegio di vivere in una fase storica ribollente di lotte e fu trascinato, suo malgrado, su posizioni rivoluzionarie. Vedremo, nelle pagine seguenti, come da queste si staccò rapidamente, in coerenza con il proprio dettame filosofico sopra analizzato. Come per necessità storica da gravissimi errori sul piano teorico siano derivate le catastrofi sul piano dell’organizzazione e dell’azione, fino alle peggiori forme di degenerazione che caratterizzano questi ultimi decenni. E infine come, da morto, egli stesso sia stato travolto nel turbine controrivoluzionario di cui fu inconsapevole pedina.

L'intera nostra dottrina è scolpita immutabilmente nel materialismo dialettico. Essa è nata completa 150 anni fa, al fuoco delle prime e gigantesche battaglie che il proletariato seppe muovere contro una borghesia ancora giovane ed attraversata da uno slancio progressivo nella società e nell'economia. Non abbiamo dunque nulla da scoprire o da cambiare oggi, alla luce di presunte novità della storia, rispetto a quanto il marxismo ha stabilito, dalla nascita, sull'intero arco della lotta tra le classi nella società moderna.

Ma la storia del passato è stata, per i comunisti, ricca di lezioni che dobbiamo fissare bene nella nostra mente e nella nostra azione. Il 1848, sulle cui barricate è nato il Manifesto del partito comunista, la bandiera che innalzeremo sulle rovine della società attuale. Il 1871, che ha chiarito come sia finita, da allora e per sempre, l'epoca delle alleanze tra proletariato e borghesia. Il 1917 che, distruggendo il mito della socialdemocrazia europea di una conquista graduale del potere dall'interno della società borghese, ha riportato il movimento operaio sulla strada della rivoluzione e della dittatura che il proletariato esercita da solo, sotto la direzione del proprio partito e su scala internazionale, al di fuori e contro ogni soluzione democratica e parlamentare.

In questa gigantesca opera, che fu possibile nella pratica solo perché guidata da una completa restaurazione del marxismo, i bolscevichi si trovarono però la strada sbarrata ad Ovest da un nemico ben peggiore dei Cavaignac e dei Thiers, dei Kornilov e dei Kolciak, di coloro cioè, che vollero o almeno tentarono di opporsi ai tentativi proletari di “raggiungere il cielo”. Si erse allora, dalle macerie di una guerra mondiale cui tanti «socialisti» avevano dato entusiastico appoggio in nome della «difesa della patria», una pletora di sfumature pseudomarxiste. Spesso, a parole, queste si presentavano rivoluzionarie, impedendo di fatto quel processo di chiarificazione teorica che solo avrebbe potuto garantiere i presupposti per la vittoria. In realtà, esse erano tutte ben radicate nella democrazia parlamentare, nel gradualismo nonviolento, nell'immediatismo e nell'economicismo più vile che, ai primi tentativi seriamente rivoluzionari, non ebbero la minima esitazione a farsi carico della difesa, armata fino ai denti, dell'apparato statale e produttivo capitalistico.

In Germania, in Ungheria, in Italia il proletariato subì una grave sconfitta sul piano militare, proprio mentre ovunque, ma troppo tardi, si cercava di compiere l'indispensabile processo di chiarificazione abbandonando il pantano della II Internazionale con la fondazione dei partiti comunisti. Questa sconfitta internazionale ebbe, come contraccolpo, il graduale ripiegamento della spinta rivoluzionaria in Russia, il suo isolamento e il sacrificio del suo eroico proletariato agli orrori dell'accumulazione capitalistica, tutta condensata nei piani quinquennali staliniani; e certo nessun marxista degno di questo nome avrebbe detto, in quegli anni, che laggiù si stava «costruendo il socialismo».

La sconfitta delle armi fu dolorosa, e avrebbe comunque segnato una battuta d'arresto a livello internazionale per anni. Tuttavia, di gran lunga peggiore nella prospettiva della futura ripresa, fu l'abbandono delle finalità massime in tutti i partiti europei. A ciò si giunse per gradi, attraverso sbandamenti sul piano tattico con la politica dei fronti unici, nella vana speranza di mantenere forzatamente vivo un contatto con la classe che, al contrario, era stato stroncato nel corso delle tragiche sconfitte degli anni 1918-1923. In realtà questo significò un completo cedimento sul piano dei programmi, ciò di cui si farà carico l'autorità di una III Internazionale ormai completamente russificata («socialismo in un solo paese»).

Pochi furono gli occhi che seppero vedere, fin dal 1921, i pericolosi segni di rinculo che percorrevano il movimento internazionale. Tra questi, la Sinistra comunista «italiana», che guidava il Partito dall'anno della sua fondazione (1921), fu la sola a muoversi su una ferma e coerente base marxista, portando la polemica contro le nuove parole d'ordine (della bolscevizzazione, del governo operaio, del fronte unico politico) fino al IV (1922) e al V (1924) Congresso dell'Internazionale.

Ma ormai il processo controrivoluzionario stava prendendo ovunque lo slancio. Sostituito con un colpo di mano il CC del Partito su iniziativa dell'Internazionale nel giugno 1923, la direzione è affidata a Gramsci alla condizione che venga affrettata l'alleanza con quei socialisti «di sinistra» che nel frattempo hanno dato la loro piena adesione (a parole) alle direttive dell'Internazionale. Per quest'ultima si trattava dunque di «ricucire» la scissione di Livorno, che aveva finalmente fatto chiarezza nelle fila del movimento operaio; e ciò, per l'assurdo scopo di recuperare quegli «operai rivoluzionari» che, per equivoco, ancora popolavano le fila socialiste[1]. Già nel 1921 il CC del partito aveva spiegato pazientemente all'Esecutivo dell'Internazionale (Zinoviev) che il rischio era di perdere a sinistra, tra i proletari che simpatizzavano per le posizioni di intransigenza rivoluzionaria del Partito, una parte degli effettivi guadagnati a destra. Ma la gravissima sconfitta del proletariato tedesco nel 1923 rendeva inutile ogni pur fermo richiamo ai nostri principi.

Si introduceva così, nella prassi dell'azione rivoluzionaria, quel gravissimo elemento spurio che, da allora, sarà la «caccia all'iscritto» così come in seguito, nell'Italia «liberata», si darà la caccia al voto, sempre in nome di un presunto rafforzamento del partito. Ma ormai le ombre minacciose dello stalinismo, il peggior prodotto della controrivoluzione internazionale, si stendevano ovunque rovesciando un corso storico di grandi lotte che, dopo oltre 70 anni, rappresenta ancora l'unico e sicuro punto di riferimento per la ripresa rivoluzionaria.

2. Lo stalinismo.

Nella nostra interpretazione della storia del movimento rivoluzionario si descrivono tre fasi degenerative, contro le quali i marxisti hanno sempre vigorosamente lottato.

1. La degenerazione anarchica, che intersecò la storia della I Internazionale. Contro ad essa, sono fondamentali insegnamenti pratici e teorici gli scritti di Marx e di Engels. Sulla base delle esperienze delle rivoluzioni europee del 1848 e della Comune di Parigi (1871) essi dimostrano che una direzione unitaria delle lotte non è solo indispensabile al successo, ma che essa diventa essenziale dopo la presa del potere, per esercitare una dittatura ferrea, in nome del proletariato, contro tutte le classi nemiche.

2. La degenerazione della II Internazionale che, partendo dall'idea che la lotta di classe consista in piccoli miglioramenti economici, eventualmente contrattati attraverso i parlamenti portando il partito operaio al governo o a coalizioni governative con i partiti borghesi, giunse al completo tradimento nell'adesione alla guerra imperialistica del 1914-18. Contro questa degenerazione, che in forme anche peggiori si ripresenterà nel 1939 e poi nel secondo dopoguerra, il punto di riferimento è la restaurazione del marxismo rivoluzionario attuata da Lenin, dal partito bolscevico e dalla Sinistra comunista "italiana" sul piano teorico, dalla rivoluzione russa su quello pratico.

3. La degenerazione che accompagna la fase di accumulazione capitalistica del primo dopoguerra nei paesi industrializzati, la fase di industrializzazione forzata in Russia. Nei paesi occidentali questa degenerazione opportunistica si tradusse innanzi tutto nella politica delle alleanze ("blocchi", “fronti unici", "governi operai") tra partiti che rappresentavano classi dagli interessi opposti, in nome di una "ricostruzione" che venne comunque operata in modo coercitivo e fortemente centralizzato, tanto negli Stati "fascisti" che in quelli "democratici". In Russial'ondata degenerativa dovette risolvere il problema di annientare il partito operaio al potere e, quindi, di inoculare nel proletariato internazionale la doppia mostruosa menzogna che a) la Russia fosse diventata il "paese-guida" della rivoluzione internazionale, e che, anche in assenza di una rivoluzione comunista internazionale, avrebbe saputo "costruire il socialismo" all'interno delle proprie frontiere; b) attraverso una serie di misure eccezionali nell'industria e nelle campagne, la produzione sarebbe aumentata a ritmi incomparabilmente superiori a quelli dei paesi capitalistici, dimostrando in questo modo l'avvenuto passaggio ad un'economia compiutamente socialista. Veicolo di questa teoria sarebbe stata l'Internazionale comunista, attraverso le singole sezioni nazionali.

Questi due aspetti dell'opportunismo degli anni Venti e Trenta, cioè l'acquisizione di tattiche elastiche (fusione tra partiti) per "conquistare le masse" e la teoria del "socialismo in un solo paese" confluiscono in quell'eterogeneo insieme di elementi di dottrina (abbandono dell'internazionalismo proletario in primo luogo) e di pratica (inizialmente, manovre di corridoio, sostituzione di vecchi centri direttivi poco disposti ad accettare direttive da parte di un'Internazionale sempre più "russificata", isolamento di compagni di provata fedeltà; successivamente, calunnie ed eliminazione fisica degli oppositori) che noi chiamiamo stalinismo.

Questa gravissima deformazione, contro la quale la Sinistra si trovò a combattere in nome del marxismo rivoluzionario inizialmente, a partire dal 1923, assieme all'Opposizione di sinistra russa (Trotzky) e poi, a partire dagli anni Trenta, da sola, ha avuto come conseguenza lo spostamento degli obiettivi di lotta dalla organizzazione di partiti forse piccoli ma temprati all'assalto per la conquista del potere, a quella di difesa degli "interessi superiori" dello Stato sovietico, fino all'ammissione, da parte dello stesso Stalin, che l'esistenza della produzione di merci in URSS non contraddice in alcun modo il carattere socialista del modo di produzione russo, e che la legge del valore è pienamente compatibile con una economia comunista[2]. Conseguenza ulteriore, di cui oggi misuriamo tutta la tragicità, è la rottura con le lotte rivoluzionarie del passato e con l'incomprensione delle finalità supreme di queste lotte. Finalità che, è bene ribadirlo, non può stare nella difesa delle patrie, nella restaurazione di istituti democratici e parlamentari minacciati da questo o quel regime "fascista", nella rivendicazione di "migliori" condizioni cui vendere la propria forza-lavoro al capitale; ma sta, oggi come in passato, solo nella distruzione violenta di tutte le istituzioni dello Stato borghese, di qualsiasi forma esse si ammantino, e la loro sostituzione con la dittatura proletaria. Solo questa potrà consentire la realizzazione di un'economia in cui, accanto ad una diminuzione dello sforzo di lavoro e all'aumento di tempo libero, farà riscontro "un piano per crescere i costi di produzione, ridurre la giornata di lavoro, disinvestire capitale, livellare quantitativamente e soprattutto qualitativamente il consumo"[3]: necessario preludio ad una società senza classi, senza merci, senza denaro, senza legge del valore.

Infine, per non generare malintesi, sottolineiamo che lo stalinismo non fu il prodotto della "malvagità" o dalla "volontà" di questo o quell'uomo più o meno potente. Si trattò di un fenomeno degenerativo del movimento comunista internazionale le cui origini si trovano tanto nella Russia post-rivoluzionaria, ormai ripiegata su se stessa e sulle necessità di creare un mercato interno per la propria sopravvivenza, quanto nell'Europa post-bellica, incapace di trovare uno sbocco rivoluzionario alle lotte che la sconvolsero tra 1918 e 1923. Lo stalinismo dunque fu la conseguenza della pressione di forze sociali obiettive, prodotto di agenti del sottosuolo di economie rovinate dalla guerra e a caccia dei massimi tassi di profitto, contro cui si spezzarono le pur eroiche resistenze delle ultime lotte, e che potè vincere solo attraverso la distruzione fisica di un'intera generazione di rivoluzionari[4].

3. Il Congresso di Lione e il trionfo della controrivoluzione internazionale.

Dopo il Congresso di Livorno del 1921, da cui nacque il Partito Comunista d'Italia, il II Congresso, l'anno successivo, fissò il corpo di tesi nel campo della tattica ("Tesi di Roma") che si vollero perfettamente aderenti al programma rivoluzionario internazionale. Il partito giunse così al suo III Congresso, tenuto clandestinamente a Lione nel gennaio 1926, in condizioni di grande difficoltà al suo interno e nelle sue relazioni con la classe all'esterno per l'incalzare della repressione fascista.

Fu Mosca ad imporre, nel 1923, la sostituzione del vecchio centro dirigente (Amadeo Bordiga, che ne era l'ispiratore indiscusso; assieme a Fortichiari, Repossi, Grieco e Terracini) con un gruppo di dirigenti più docili di fronte alle direttive russe. Leader del nuovo C.E. sarà Gramsci, coadiuvato da Togliatti, Ravera, Scoccimarro, Leonetti e Terracini, in quale ultimo passerà disinvoltamente da uno schieramento all'altro. Si tratta, in breve, di tutto il gruppo torinese dell'"Ordine Nuovo" che, durante il periodo dell'occupazione delle fabbriche (1919-20) aveva sostenuto a gran voce non la necessità di fondare il partito comunista, ma di creare i Consigli di fabbrica quali organi di presa diretta del potere. Contemporaneamente si sviluppò il processo di bolscevizzazione avviato in tutte le sezioni (anch'esso voluto da una Internazionale ormai sempre più legata ai destini dello Stato sovietico). La svolta politica che seguì non risparmiò nessuno degli aspetti teorici ed organizzativi che avevano caratterizzato gli anni precedenti, rappresentando un vero e proprio spartiacque nella teoria e nella tattica del partito.

Tuttavia non fu semplice, per la nuova Centrale, fare approvare ai militanti le novità della "conquista della maggioranza", del "fronte unico dall'alto", cioè innanzi tutto la fusione con la parte del PSI che si voleva "più avanzata", poi con i partiti genericamente antifascisti; del governo operaio; della conquista a tutti i costi delle masse, con la riorganizzazione del partito sulla base delle cellule di officina anziché su base territoriale.

Le tappe attraverso cui l'Internazionale potè giungere al completo rovesciamento della politica seguita fino ad allora dal partito furono le seguenti:

a) la trasformazione del partito da organizzazione di classe a partito di massa, attraverso processi di fusione con raggruppamenti politici di altra natura e attraverso un blocco con diversi strati sociali (mezzadri, cattolici, piccola borghesia, antifascisti);

b) la bolscevizzazione, cioè la trasformazione del tessuto organizzativo dei partiti, sulla base delle cellule di azienda, secondo il modello del partito bolscevico pre-rivoluzionario; formula che, se adatta alle specifiche condizioni dello sviluppo storico e sociale della Russia dell'inizio del secolo, non aveva alcuna giustificazione per i partiti dell'Europa occidentale, per tradizione legati ad un'organizzazione territoriale. Non solo, la generalizzazione di tale formula introdusse una grave deformazione del postulato marxista per il quale la rivoluzione non è una questione di formule di organizzazione, e che d'altra parte una soluzione organizzativa non può essere valida per tutti i tempi e tutti i paesi. Inoltre, legando l'organizzazione del partito alle diverse categorie della produzione, veniva di fatto ostacolato il vitale processo di unificazione delle lotte che solo un partito al di sopra delle divisioni create nella classe può operare.

c) la lotta contro ogni forma di opposizione alle direttive del centro staliniano. In Russia questa lotta si concretizzò, a partire dalla fine del 1924, in una serie di attacchi contro Trotzky; nei partiti occidentali ogni forma di opposizione di sinistra fu equiparata al trotzkismo e bollata, col nome di "bordighismo", come deviazione anti-bolscevica, ed una feroce lotta (sulla stampa, nei congressi internazionali e nazionali, nelle singole sezioni) fu intrapresa per impedire qualsiasi forma di collegamento internazionale tra gli opposizioni alla politica centrista.

d) azioni di tipo amministrativo, per cui chi non si attiene rigidamente alle disposizioni del centro, cioè al rispetto dell'apparato burocratico del partito, viene minacciato di espulsione. Agitando lo spettro del frazionismo di sinistra, il Centro gramsciano farà ricorso alla più ampia opera di persuasione: "Si tratta di mobilitare politicamente i compagni, condurre un'opera esauriente di chiarificazione, ma si tratta anche di attuare un lavoro di polizia di partito.”[5]

Nonostante questo pauroso sbandamento, che il PC d'Italia conosce a partire dal 1923, la base del partito non diede facilmente il proprio appoggio alle nuove parole d'ordine, dietro alle quali si scorgevano gravi cedimenti sul piano teorico. Al Congresso clandestino di Como (1924) la grande maggioranza dei delegati si schierò ancora con la vecchia direzione di sinistra; al Congresso di Lione la vittoria dei centristi all'interno dell'organizzazione fu resa possibile grazie all’impossibilità - a causa delle persecuzioni fasciste - di una consultazione ampia della base e a una autentica frode nel conteggio dei voti. Le forze reali dei due schieramenti - i centristi e i destri da una parte, la sinistra dall'altra - erano infatti all'incirca pari. I dirigenti della nuova Centrale decisero, per evitare sorprese a loro sfavorevoli, di considerare a proprio favore il numero degli iscritti al partito nel 1925 (cioè l'anno prima) che non avessero votato per nessuno (molti di essi, evidentemente, non poterono farlo o perché impediti a raggiungere i luoghi in cui dovevano svolgersi i congressi delle delegazioni federali o perché chiusi nelle galere fasciste). Ottenuta così la maggioranza, la Centrale di Gramsci pensò di "accontentare" la Sinistra introducendo nella direzione due esponenti di quest'ultima - manovra che bene illustra la fragilità del principio di centralismo democratico.[6]

La battaglia che si svolse a Lione, benché dall'esito scontato, costituisce per le generazioni rivoluzionarie di oggi in tutto il mondo, uno dei momenti alti nella storia del marxismo, da cui ripartire per la ricostituzione del partito comunista mondiale. Per questa ragione, dobbiamo esaminare le tesi opposte che si scontrarono.

La piattaforma presentata della Centrale gramsciana[7], che rovescia l'impostazione data nelle “Tesi di Roma” di quattro anni prima, è che il partito non è un organo della classe, ma una sua parte, sostituendo così un concetto fondamentale e politico con una considerazione puramente statistica. Inoltre, si afferma che le questioni organizzative verranno risolte attraverso la formula, imposta dall'Internazionale comunista, della bolscevizzazione, cioè della riorganizzazione del partito attraverso le cellule di officina. Si ammette che il partito russo debba avere una funzione dominante nell'Internazionale Comunista; si ribadisce la validità della tattica del fronte unico e si giustifica il ricorso a formulazioni ambigue, come quella dell'Antiparlamento o dell'Assemblea repubblicana, pur riconoscendo che si tratta di forme di lotta da usare contro i partiti democratici.

Le tesi della Sinistra[8] erano le seguenti: 1. Alla base della formazione dei partiti comunisti deve trovarsi una piattaforma teorico-programmatica definita una volta per tutte, che consiste nella rinuncia a filosofie estranee al materialismo storico, come l'idealismo, il positivismo, il pacifismo, il sindacalismo, l'anarchismo, l'operaismo. 2. In conseguenza di ciò, vanno poste direttive tattiche indissolubilmente legate ai principi e alle previsioni, secondo un criterio perfettamente ispirato al Lenin delle Due tattiche ("L'elaborazione di decisioni tattiche giuste ha una grandissima importanza per un partito che voglia dirigere il proletariato in uno spirito rigorosamente conforme ai principi del marxismo, e non semplicemente trascinarsi a rimorchio degli avvenimenti"). 3. E infine, è indispensabile mantenersi stretti a principi di organizzazione sicuri, che la Sinistra vedeva compiutamente indicati nei Ventun punti di ammissione, discussi ed approvati al II Congresso dell’Internazionale Comunista nel 1920.

Un elemento fondamentale di contrasto fu l'interpretazione della natura del partito. Per la Sinistra "l'organo che conduce la lotta di classe alla sua vittoria finale è il partito politico di classe, unico possibile strumento prima di insurrezione rivoluzionaria e poi di governo". Solo attraverso il partito la classe giunge a conoscere il proprio ruolo nella storia, "e quindi nelle successive fasi della lotta il partito rappresenta storicamente la classe pur avendone nelle proprie file solo una parte più o meno grande". La Sinistra rifiutava dunque del partito e della sua azione sia un'idea fatalista (poggiante su una mal compresa applicazione del determinismo), sia un'idea volontarista (nel senso che sia possibile forzare, grazie a formule organizzative genialmente scoperte od inventate da un capo brillante, le situazioni storiche in direzione rivoluzionaria). E affermò che "deve considerarsi erronea la formulazione tattica che dice: ogni vero partito comunista deve saper essere in ogni situazione un partito di massa; ossia avere una organizzazione numerosissima ed una influenza politica larghissima sul proletariato, per lo meno tali da superare quelle degli altri partiti sedicenti operai."

L'abbandono di queste prospettive da parte della direzione gramsciana del partito fu al centro del grande dibattito a Lione. I dirigenti vittoriosi non rinunciarono alle minacce per isolare la Sinistra secondo un sistema (sarà bene ricordarlo) già pienamente avviato nei confronti dell'Opposizione trotzkista in Russia; in ciò essi furono bene appoggiati da Humbert-Droz, rappresentante di Mosca in Italia fin dal 1921 e sempre pronto a schierarsi su posizioni di destra su tutte le principali questioni teoriche e tattiche del movimento internazionale.

Le tesi approvate dal III Congresso del PCI, redatte da Gramsci e Togliatti, si muovono su un piano opposto alla politica seguita dal partito negli anni della sua formazione. Come scriveva Gramsci:

"La lotta ideologica contro l'estremismo di sinistra deve essere condotta contrapponendogli la concezione marxista e leninista del partito del proletariato come partito di massa e dimostrando la necessità che esso adatti la sua tattica alle situazioni per poterle modificare, per non perdere il contatto con le masse e per acquistare sempre nuove zone di influenza" [9]

Già un anno prima Scoccimarro, membro del Comitato Centrale, scriveva su l'Unità, organo della nuova direzione (28 giugno 1925), che la concezione della Sinistra è legata

"alla situazione politica internazionale e al rallentamento dello sviluppo della rivoluzione mondiale. [Essa è fondata] sulla previsione di una degenerazione opportunistica del partito e dell'Internazionale… Ma le nostre [della direzione gramsciana, ndr] previsioni sull'avvenire dell'Internazionale comunista sono completamente diverse. Noi non condividiamo in nulla questo pessimismo".

Come si vede, le distanze che si vanno approfondendo sul piano teorico comportano ormai valutazioni e previsioni divergenti sul ruolo dei partiti, della loro azione interna ed internazionale. Pochi anni dopo ciò condurrà inevitabilmente all’espulsione della Sinistra e alla formazione della Frazione di Sinistra in Francia; mentre il Centro si piegherà all'asservimento totale di una Internazionale comunista ormai stalinizzata. E' così che si cercano "margini di manovra" nell'ambito delle "particolarità nazionali", invocate a gran voce proprio nel momento in cui vengono imposte direttive mondiali in una direzione precisamente opposta alle classiche tesi dei primi due Congressi dell'Internazionale Comunista. E' così che ancora una volta, per bocca di Humbert-Droz, viene ribadita la necessità che

"il nostro partito deve proseguire nell'avvicinamento degli operai massimalisti [frazione del PSI, ndr] alla base, applicando quelle formule opportune non solo dal basso, ma quando occorra anche dall'alto, la tattica del fronte unico". [10]

E' questa, d'altronde, la tesi invariante dell'opportunismo latente relativamente alle questioni di organizzazione: si disse fin dal 1921 che bisognava, anziché separarsi, stare assieme ai partiti socialdemocratici per trascinarli alla conquista del potere, perché la situazione era rivoluzionaria e le grandi masse erano con noi; ci si dirà ora e in seguito, che bisogna fondersi sempre e comunque con i socialdemocratici appunto perché la situazione è controrivoluzionaria, e le masse non sono con noi.

E' dunque su queste basi che a Lione i centristi sviluppano il concetto di rivoluzione popolare antifascista. Il PCI dovrà d'ora in poi condurre un’azione politica per conquistare al proletariato un’egemonia nella lotta contro il fascismo. Tale azione non può limitarsi a rivendicazioni economiche, ma deve avere connotazioni politiche parziali che saranno necessariamente democratiche, come rivendicazione di libertà soppresse nell'ambito politico e in quello sindacale:

“la lotta per le rivendicazioni democratiche è, nella situazione italiana, parte integrante della lotta di classe del proletariato” [11].

Ciò si riassume bene nella parola d’ordine “Assemblea repubblicana sulla base dei comitati operai e contadini”, adottata dal partito nel 1925[12]: la “rivoluzione popolare” che ormai si vuole democratica ed antifascista si trasformerà, chissà come, in “rivoluzione proletaria”.

4. L'ultima battaglia nell'Internazionale: dal VI Esecutivo Allargato alle espulsioni e all’emigrazione.

Per comprendere le vicende interne del Partito comunista nella seconda metà degli anni Venti è indispensabile passare in rapida rassegna la situazione internazionale che in larga misura ne condizionerà l'attività teorica e pratica.

Mentre l’Internazionale Comunista sviluppa ferreamente la propria politica di graduale asservimento delle singole sezioni nazionali agli interessi del nascente Stato sovietico, frantumando l’unità internazionalista del proletariato europeo che aveva guidato i primi Congressi dell’Internazionale, l’opposizione alle nuove direttive si fa acuta su molteplici aspetti, creando gruppi e frazioni che iniziano a muoversi su piani e secondo prospettive diverse. Sorgono così le “opposizioni operaie”, che reclamano maggiore democrazia all’interno dei partiti, e le opposizioni a tendenza anarco-sindacalista, che escono dai propri partiti accusati di metodi dittatoriali. Seguiranno, di lì a breve, movimenti decisamente operaisti, oppure tendenze che rifiutano esplicitamente il partito come organizzatore e guida delle lotte di classe.

L’unica opposizione alla politica dell’Internazionale basata su principi rigorosamente marxisti si sviluppa in Italia attorno al gruppo dirigente dei primi anni del PCd’I. Estromesso dalla direzione del partito nel 1923, e tuttavia mantenendo un largo seguito tra gli iscritti, questo gruppo non si stancò di fare sentire la propria voce in tutti i momenti di progressivo abbandono della linea ortodossa: sulla questione del fronte unico, sulla questione del governo operaio, su quella della bolscevizzazione.

L’ultimo, vigoroso intervento, pochi giorni dopo la conclusione del Congresso di Lione, si svolse dalla tribuna dell’Internazionale Comunista, al VI Esecutivo Allargato (febbraio-marzo 1926). Ora, si disse in quell’occasione, l’Internazionale Comunista deve restituire al partito bolscevico quanto esso ha dato negli anni precedenti, in termini di teoria e di azione, ai partiti europei. La “questione russa” va posta al centro del dibattito internazionale. La piramide va rovesciata.[13]

La realtà in campo internazionale e nelle singole sezioni, tuttavia, aveva ormai assunto un indirizzo ostile alla lotta rivoluzionaria. Da anni, le direttive dell’Internazionale Comunista erano per un recupero delle masse attraverso la tattica del noyautage, cioè degli accordi politici tra i centri direttivi dei partiti e con i sindacati. In questo modo veniva sacrificata l’autonomia dei princìpi in nome di una tattica disinvolta, che si pretendeva “leninista”, per riallacciare i rapporti con le masse travolte dalle prime violente ondate del riflusso controrivoluzionario. La "ragion di stato" russa ormai aveva il sopravvento sull'internazionalismo operaio perfino nella voce di Bucharin (Esecutivo dell'Internazionale Comunista, maggio 1927) che giustificherà la sciagurata tattica dell'Internazionale Comunista nei confronti dei grandi scioperi inglesi del 1926 invocando gli "interessi diplomatici dell'Unione Sovietica" che ormai prevalgono su qualsiasi prospettiva di ripresa di lotta di classe. [14].

Coerentemente a ciò, l’Internazionale Comunista non potrà far altro che accettare come un dato di fatto, all’interno di un “Comitato Anglo-Russo” costruito ad hoc, l’accordo tra gli ultrariformisti capi delle Trade Unions e i dirigenti sindacali sovietici, che sancirà la sconfitta del gigantesco sciopero dei minatori inglesi del 1926. L'Esecutivo dell'Internazionale sosterrà in pieno questo accordo, che prevede tra l’altro l’impegno a “non occuparsi degli affari interni inglesi”: come se le questioni di lotta del proletariato potessero lasciare indifferenti i proletari di altri paesi! Ma ormai la ragion di stato sovietica prevale ormai su qualsiasi politica internazionalista.

In Russia, i gruppi di opposizione, spesso divisi tra loro su questioni teoriche ed organizzative (questione dell’industrializzazione, della democrazia nel partito, dei rapporti con la classe) e tattiche (alleanze con la destra di Bucharin contro Stalin; mobilitazione delle masse) non riusciranno a tessere un’efficace rete organizzativa, e verranno facilmente distrutti al momento opportuno. Gradualmente prevale nell’Internazionale Comunista la tesi secondo la quale la salvezza della Russia non dipende dalle vittorie rivoluzionarie in Europa, ma dalla capacità del movimento operaio internazionale di difendere i successi economici e sociali in atto in Russia. Al VII Esecutivo Allargato dell’Internazionale Comunista e al successivo XV Congresso del Partito russo (dicembre 1927) ormai si sosterrà apertamente che non può appartenere al partito e all’Internazionale Comunista chi neghi la possibilità della “costruzione del socialismo in un solo paese”.

5. La disfatta internazionale: dal Comitato anglo-russo alla Rivoluzione cinese e alla teoria del “socialismo in un solo paese”.

La disfatta in campo teorico e la rovina sul piano tattico si incontrarono drammaticamente, tra 1926 e 1927, nella “questione cinese” e nel fallimento del grande Sciopero generale in Inghilterra. Coerentemente con quanto da anni l’Internazionale Comunista andava predicando sui rapporti tra partiti e tra partiti e masse, la politica del noyautage portò, in Inghilterra, a un vergognoso accordo internazionale tra spinte rivoluzionarie di base e direzione sindacale ultra-riformista. E condusse all’unico ovvio e scontato risultato: l’affossamento di un movimento di lotta che aveva visto scendere in sciopero alcuni milioni di lavoratori inglesi contro i quali il governo di Sua Maestà non poté far altro che dichiarare lo stato di emergenza, mobilitare l’esercito e la marina da guerra, organizzando squadre di sabotaggio e di crumiri[15].

La Sinistra “italiana” si batteva da anni contro questo modo di intendere la lotta da parte dell’Internazionale Comunista. E lo faceva, anche e soprattutto sullo scenario internazionale, in nome del “fronte unico” dal basso: un fronte, cioè, che raccogliesse le spinte elementari di difesa economica, a prescindere dall’appartenenza a questo o a quel sindacato, ma sempre sotto la guida del partito di classe. Nonostante ciò, la prassi dell’Internazionale Comunista trovò un’ulteriore, terribile applicazione nella tragedia cinese, quando milioni di proletari furono consegnati totalmente disarmati dalla politica di alleanza interclassista (il “blocco delle quattro classi”: borghesia, contadiname, piccola borghesia e proletariato) imposta dall’Internazionale Comunista stalinizzata, in una delle più terribili carneficine della storia moderna della lotta di classe.

Nel 1926, si imponeva dunque il rafforzamento teorico e il radicale cambiamento di rotta nei metodi dell’Internazionale Comunista e delle sue singole sezioni, come già indicato a chiare lettere nel 1925.[16] Per nessuna ragione si sarebbe dovuto cercare una “conquista delle masse” a tutti i costi e attraverso contorsioni tattiche, che erano perdenti nel momento stesso in cui rinunciavano ad ogni autonomia da parte del partito di classe ma venivano considerate, chissà perché, “leniniste”.

Di fronte alla gravissima serie di sbandamenti sul piano internazionale e alla distruzione dell’organizzazione del partito in Italia operata dal fascismo, che è ormai al governo da quattro anni, i dirigenti centristi del PCd’I dirigono tutta la loro attenzione sulle prospettive di una impossibile azione politica tesa a conquistare al proletariato un’egemonia nella lotta contro il fascismo. Tale azione non può limitarsi a rivendicazioni economiche, ma dovrà avere connotazioni politiche parziali che saranno necessariamente democratiche, come la rivendicazione di libertà soppresse in campo politico e sindacale. Nel suo discorso al VII Plenum dell’Internazionale Comunista (novembre-dicembre 1926), in piena lotta tra la coalizione Stalin-Bucharin da una parte e l’opposizione Trotsky-Kamenev-Zinoviev dall’altra, Togliatti non ha esitazioni nel prendere posizione contro l’opposizione internazionale confermando il pieno appoggio della direzione del PCd’I al Centro del partito russo, alla tesi della “costruzione del socialismo” in Russia e, di fatto, all’abbandono definitivo dell’internazionalismo operaio in nome della “difesa della patria del socialismo”:

"Il problema [del socialismo in un solo paese] dev'essere posto dal punto di vista dell'influenza esercitata dalla rivoluzione russa e dall'azione del partito comunista russo sulle forze rivoluzionarie mondiali… Nella classe operaia mondiale [è attiva] la convinzione che in Russia, dopo la presa del potere, il proletariato può costruire il socialismo e oggi costruisce il socialismo"[17].

E’ infatti su questa linea che, all’inizio del 1928, dunque pochi mesi dopo il massacro di proletari a Shanghai e a Canton, Togliatti avanzerà “la parola d’ordine della lotta per la pace” secondo la chiara prospettiva frontista che, da allora, rappresenterà di fatto l’indirizzo antifascista del PCI. Per questa stessa ragione, di ritorno dall’VIII Plenum moscovita, egli potrà scrivere, a difesa della politica di Stalin sulla Cina, che

“se ci fossimo isolati dal fronte nazionale rivoluzionario [proprio quello il cui tradimento segnò la disfatta della rivoluzione e le stragi conseguenti di proletari, NdR] ci saremmo tagliati completamente dalle masse e il movimento non si sarebbe sviluppato [evidentemente lo “sviluppo” della controrivoluzione] sotto la nostra prevalente influenza [nel senso che la direzione dell’intero movimento fu lasciata al generale Chang-Kai-Shek]”. [18]

Fa parte di questo aperto tradimento delle posizioni di classe l’affermazione secondo la quale l’azione del PCI, non esaurendosi sul piano rivendicativo ed economico, deve muoversi su obiettivi politici limitati, di contenuto antifascista democratico. D’altra parte, lo stesso contenuto sociale delle lotte è visto, in una Europa che nulla ha che vedere con la situazione economica e sociale della Russia d’inizio secolo e con la Germania e la Francia del 1848, secondo l’ottica della “doppia rivoluzione”, nel corso della quale, sotto l’incalzare dell’oppressione fascista, avverrà

“una radicalizzazione delle masse contadine arretrate, e creerà, in sostanza, condizioni oggettive più favorevoli alla formazione di un blocco operaio-contadino rivoluzionario”[19]

Parallelamente all’esplicito riconoscimento del “socialismo in un solo paese”, di fronte al quale nessuna falsificazione è di troppo (“Tolta la possibilità di progresso della Russia verso il socialismo, negata la possibilità di costruzione vittoriosa del socialismo in Russia, è tutta la concezione storica e politica che fu posta alla base della costruzione dell’Internazionale comunista che crolla”)[20], si scatena la persecuzione internazionale contro gli oppositori, sulla falsariga di quanto avviene nel “paese-guida”.

6. La “svolta a sinistra” e la teoria del socialfascismo

Mentre infuria la persecuzione fascista e le organizzazioni operaie sono preda della rete spionistica della polizia segreta[21] si procede nei fatti alla liquidazione del marxismo rivoluzionario internazionale ed internazionalista, attraverso la teoria e la pratica del “socialismo in un solo paese”, il blocco dei partiti, la lotta democratica contro il fascismo. Mentre si dichiara ai quattro venti che il fascismo è il nemico da battere, e per ottenere ciò non si dovrà esitare a schierarsi con l’ala “sinistra” dei partiti riformisti ed opportunisti, mentre di tutto ciò si fa uso, anche in Italia da parte della direzione gramsciana contro la sinistra, tra il VI Congresso dell'Internazionale Comunista (luglio 1928) e il X Plenum dell’Internazionale Comunista (luglio 1929) esplode d’improvviso la “teoria del socialfascismo”.

“Le masse si radicalizzano in modo uniforme in tutti i paesi capitalistici”, si dirà: dunque è necessaria ovunque una politica d’assalto. Secondo la “teoria del socialfascismo”, la socialdemocrazia riformista a base piccolo-borghese e appoggiata dall’aristocrazia operaia è un nemico altrettanto pericoloso del fascismo, e come quello va combattuta. Questa formula riecheggia le posizioni tanto criticate in precedenza della Sinistra, la quale sosteneva che la borghesia alterna a suo favore e nel suo interesse di classe il metodo fascista e quello democratico. Tuttavia, nella improvvisa formulazione dell’Internazionale Comunista, che capovolgeva anni di pratica bloccarda e di corteggiamento di organizzazioni opportuniste, la Sinistra “italiana” vide non un ritorno alle posizioni corrette, ma un ulteriore elemento di confusione che s’andava ad aggiungere a quelli già imposti in precedenza a tutti i partiti dell’Internazionale. Bisogna però ribadire che il punto di vista della Sinistra – e in particolare della Frazione comunista che negli anni Trenta ne difese le posizioni in sede internazionale – non si identificavano affatto con la teoria staliniana del socialfascismo. La Sinistra riconosceva che fascismo e socialdemocrazia convergono nel puntellare il capitalismo contro il proletariato, ma ciò avviene in fasi storiche e in condizioni economiche e politiche ben determinate e non necessariamente coincidenti. Essa sostenne esplicitamente che fascismo e socialdemocrazia non si identificano affatto, e che quindi non possono essere combattuti sempre con le medesime tattiche. In particolare, essa ritenne criminale la politica dell’Internazionale, che creò delle scissioni artificiali nei sindacati procedendo ove possibile alla costituzione di fantasmi di “sindacati rossi” incapaci di incidere in alcun modo sulle lotte rivendicative del proletariato. Questa frattura a livello operaio ebbe conseguenze così nefaste in Germania da accelerare la conquista del potere da parte del partito nazista.

D’altra parte, la stessa centrale del partito entrò in crisi di fronte alle nuove direttive. Togliatti, non nuovo ai voltafaccia, si adeguava rapidamente al “rovesciamento delle posizioni su tutti i punti essenziali che avevano caratterizzato la sua posizione negli anni passati”, allineandosi “senza riserve alle tesi del X Plenum” [22]. Altri invece (Leonetti, Ravazzoli, Tresso, Silone) ritengono che la situazione italiana sia ben lontana dalla realtà preinsurrezionale descritta dalla maggioranza del CC. Essi sostengono che la “svolta a sinistra” è una conseguenza dei compiti nuovi che si delineano (la crisi del fascismo, l’impossibilità di una coalizione antifascista borghese, la scomparsa delle posizioni intermedie). Scrivono che “[l]’elemento dominante sarà dato dalla rivolta, dalla insurrezione, dalla guerra civile delle masse lavoratrici guidate dal proletariato contro le classi dirigenti capitaliste”. E così facendo offrono al CC l’occasione di espellerli dal partito (giugno 1930), dopo una rapida e violenta “resa dei conti”.

Minacce di espulsione e misure di polizia sotto l’accusa di frazionismo erano già state rivolte da Gramsci ai militanti della Sinistra durante il processo di “bolscevizzazione” del partito [23]. Ma ora, con la lotta scatenata in Russia contro il “trotskismo”, e ovunque in Europa contro gli oppositori di sinistra e di destra, anche il centro italiano recita in pieno la sua parte:

“Contro chi è giunto a questo punto non è possibile che una cosa, la lotta, la lotta aperta, senza quartiere, la mobilitazione di tutte le forze del partito e della classe operaia come contro dei traditori del partito e della classe operaia”[24]

Del CC dei primi anni, viene “processato” prima il destro Tasca, reo di non essersi allineato con Stalin durante il periodo trascorso a Mosca in qualità di delegato del PCI presso l'Internazionale Comunista. Nel gennaio 1930, seguirà l’espulsione di Bordiga, mentre migliaia di militanti dovranno riparare all’estero (Francia, Belgio) per sfuggire alla polizia fascista. Alcuni di questi, fedeli al programma di Livorno, costituiranno in una riunione segreta nel 1928, a Pantin, nei pressi di Parigi, la Frazione all’estero della Sinistra comunista. Anche il centro dirigente del PCI, decimato dal fascismo fin dal 1926 (sono in carcere Gramsci, Terracini…) si potrà ricostituire solo in Francia attorno a poche decine di militanti, i cui contatti con l'Italia si fanno via via più deboli fino allo scoppio della guerra [25].

Nonostante l’adesione formale alla “teoria del socialfascismo”, l’inizio degli anni Trenta è caratterizzato da una serie di iniziative della direzione stalinizzata del PCI per reclutare adesioni all’interno dei partiti e dei gruppi socialdemocratici, tra i quali il movimento “Giustizia e Libertà” (GL), che si è formato attorno ad un gruppo di intellettuali antifascisti. Al 1931 risale la nascita di una sezione del CC del partito (“Sezione alleati del proletariato”) che valuta le possibilità di azioni comuni nell’ambito di un più largo fronte unico. E’ lo stesso Togliatti a teorizzare queste possibilità, partendo dal presupposto che il proletariato non rappresenti più l’unica classe autenticamente rivoluzionaria.

“Il socialismo italiano non è stato solamente proletario. E’ stato anche artigiano e piccolo-borghese, è stato contadino, anti-feudale e anticlericale. E’ stato il risveglio, la rivolta di un popolo intiero contro tutto ciò che lo opprimeva, che lo sfruttava, che gli impediva di vivere: contro il carabiniere e contro l’agente delle imposte, contro il padrone, contro la ipocrisia dei preti e delle monache, contro lo Stato.” [26]

Nessuna meraviglia dunque che, nel marzo del 1933, l’Ufficio politico del PCI decida di avanzare al PSI, al PS massimalista e al Partito repubblicano la proposta di creare un fronte unico antifascista. Il PSI non accetta e le trattative proseguono solo col PSI massimalista sulla base di rivendicazioni di carattere immediato (salario, ore di lavoro ecc.).

Il VII Congresso dell’Internazionale Comunista (1934) sancisce la fine ufficiale della “teoria del socialfascismo” e dà inizio (ma, nella realtà sotterranea del PCI, prosegue) alla tattica del “fronte unico antifascista”. I presupposti di questa tattica sono: imminenza della guerra imperialista - guidata dagli angloamericani - contro l'URSS; radicalizzazione della lotta di classe; trasformazione della socialdemocrazia in socialfascismo. Non uno di questi si verificò: la guerra non era poi così imminente e, quando scoppiò, l'imperialismo anglosassone si schierò dalla stessa parte dell'URSS; l’offensiva non fu operaia, ma borghese (piani economici, militarizzazione, distruzione delle organizzazioni operaie); non il socialfascismo, ma il fascismo entrerà negli apparati statali in tutti i paesi sviluppati; esso riesumerà la socialdemocrazia solo a guerra scatenata, o a guerra finita.

7. Dal fronte unico ai fronti popolari

Sul fronte interno, tutto il periodo che va dal 1930 allo scoppio della guerra è occupato da una incessante lotta per isolare con le calunnie, e con la forza se necessario, la Sinistra che, nel 1928, si era costituita come Frazione di sinistra del PCd’I.

La nefasta teoria che porterà ai blocchi partigiani e alla totale perdita di autonomia del partito di classe scaturisce dalle indicazioni del III Congresso dell’Internazionale Comunista, che i centristi vollero vedere come un invito a creare alleanze tra partiti “operai” per creare un fronte proletario antiborghese, e dall’interpretazione del fascismo come una parentesi di barbarie contro cui anche la borghesia “progressista” avrebbe lottato all’interno di una coalizione con i partiti operai.

In senso chiaramente antitetico, Prometeo, organo della Frazione all’estero, riportava i seguenti due punti dello statuto del PCd’I di Livorno:

“Gli attuali rapporti di produzione sono protetti dal potere dello Stato borghese che, fondato sul sistema rappresentativo della democrazia, costituisce l’organo per la difesa degli interessi della classe capitalista.

“ Il proletariato non può infrangere né modificare il sistema dei rapporti capitalistici di produzione, da cui deriva il suo sfruttamento, senza l’abbattimento violento del potere borghese” [27]

E li contrappone ai nuovi programmi del CC del Partito (“La lotta per le rivendicazioni parziali, la lotta per le rivendicazioni democratiche, la lotta per la libertà, si identifica con la lotta per l’abbattimento del fascismo e del regime capitalistico”): un indirizzo, come si vede, che coincide con il programma di transizione di matrice trotzkista, che mescolava parole d’ordine democratiche (definite di “democrazia proletaria”) con altre di colore decisamente premarxista e totalmente erronee nelle realtà di capitalismo avanzato quale era presente nei paesi dell'Europa occidentale e in America (indipendenza nazionale, assemblea costituente rivoluzionaria, separazione della Chiesa dallo Stato ecc.) e che sarà alla base della definitiva separazione tra la Frazione e i movimenti trotzkisti nell’analisi sulla questione della guerra di Spagna.

Il 1933 non è solo l’anno in cui Hitler è nominato cancelliere. E’ l’anno del New Deal, della rimilitarizzazione di Germania e Unione Sovietica, delle misure internazionali (fascistizzazione) atte a uscire dalla crisi del capitale industriale e finanziario con l’unico mezzo noto al capitalismo: il massacro mondiale. La “questione spagnola” venne a risolvere definitivamente anche gli equivoci sorti all'interno dei movimenti all'opposizione, relegando definitivamente nella loro funzione di traditori i partiti stalinizzati e pronti a qualsiasi genuflessione di fronte alla ragion di stato sovietica.[28]

La caduta del lungo governo de Rivera (1923-1930, dittatoriale fin che si vuole, ma appoggiato dai socialisti di Largo Caballero), la conseguente abdicazione di Alfonso XIII e la nascita della repubblica avevano trovato un Partito comunista (stalinizzato) completamente sbandato e perfettamente allineato sulle posizioni dell'Internazionale Comunista (parola d'ordine del “governo operaio e contadino”).

La neonata repubblica, ben decisa a difendere con i denti le proprie posizioni di classe, represse in modo ferreo e sanguinoso gli scioperi che, per tutto il 1931, la fecero tremare. Ciò nonostante, l’Opposizione trotzkista non cessò di esortare il proletariato a sostenere il nuovo parlamento e, ben lungi dal dichiarare guerra spietata al nemico, predicò il sostegno della repubblica, a condizione di liberare una volta per sempre “tutta la società dalle immondizie del feudalesimo”, ed agitando nel modo più vigoroso rivendicazioni di carattere transitorio [29]. Proprio su queste direttive avvenne la rottura tra la Sinistra “italiana” e il trotzkismo, sancita definitivamente dalla “politica dell’entrismo” (compito dei rivoluzionari espulsi dai partiti stalinizzati sarebbe stato quello di entrare nei partiti socialisti, allo scopo di recuperare un contatto con le masse). La polemica, tuttavia, doveva farsi ancora più aspra nel corso degli avvenimenti del 1936 e a proposito dell’interpretazione della natura dell’Unione Sovietica.[30]

La ripresa delle lotte operaie in Belgio, Francia e Spagna nel corso di quell'anno condusse i partiti comunisti a cercare a tutti i costi un’alleanza con i socialisti, in nome dell'unità antifascista, della “riconciliazione nazionale”, della difesa delle istituzioni democratiche: chi non aderirà a questi principi sarà considerato servo dei padroni, agente di Hitler, e trattato di conseguenza. Il grande corteo che nel luglio 1936 sfilò a Parigi con i capi del PCF, della SFIO (Partito Socialista , sezione francese dell’Internazionale operaia), della CGT (il sindacato “comunista”), chiudendo l'ultimo grande movimento spontaneo di lotta di classe, sancì la vittoria della socialdemocrazia internazionale, che si portava a rimorchio gli entristi trotzkisti convinti ad aderire alla SFIO per “trascinarla in una direzione rivoluzionaria”. Dirà Thorez, segretario del PC francese:

"Bisogna saper terminare uno sciopero quando sono state raggiunte le rivendicazioni essenziali. Bisogna anche saper giungere ad un compromesso, per non perdere la propria forza e soprattutto per non favorire la campagna di panico da parte della reazione".[31]

E' così che quando, nel luglio del 1936, inizia in Spagna la rivolta dei generali, tutte le forze frontiste internazionali si trovano ideologicamente schierate sul principio della difesa dei “diritti”, della libertà democratica, dell’unità della “sinistra” contro la barbarie fascista. In quell'occasione, si dirà, le masse salvarono la repubblica spagnola: tacendo il fatto che - scrivevamo - questa repubblica non solo nulla aveva di socialista, ma, nonostante “le ardite iniziative periferiche nel campo economico e sociale”, non poteva che “incastrarsi in un’evoluzione controrivoluzionaria perché in nessun momento era stato posto il problema della creazione di una dittatura rivoluzionaria”[32].

Il PCI e in generale tutti i partiti comunisti europei diretti da Mosca spinsero follemente in avanti la causa antifascista, proiettando migliaia di proletari militanti nella guerra per la difesa della “democrazia” contro il fascismo. Invece, la Sinistra, ultima forza rimasta in Europa a difendere la bandiera del marxismo, chiese che fosse posto all'ordine del giorno, non il massacro dei lavoratori che combattevano nell'esercito franchista, ma la fraternizzazione operaia per la lotta contro entrambi gli schieramenti, quello fascista e quello democratico, in nome della rivoluzione comunista. Ma ormai l’ondata della controrivoluzione è inarrestabile. Eppure sono passati solamente vent’anni da Zimmerwald!

In questo frangente, il PCI, perfettamente allineato alla causa della “difesa dell'Urss”, sostiene una volta di più la tesi antifascista della “difesa delle libertà”. In questi termini, l’intervento nelle Brigate Internazionali fu solo la conferma che, per questo partito, ogni rivendicazione di classe era tramontata e che il suo ruolo storico stava ormai solo nell'impedire ogni forma di riarmo teorico e militare del proletariato. Così, mentre in Russia si celebrano i processi che eliminano fisicamente la generazione della Rivoluzione d'Ottobre, prosegue accanita per tutti gli anni Trenta la lotta contro la Frazione, considerata un tutt’uno con l’opposizione trotzkista. Secondo Togliatti, ad esempio,

“Bordiga vive oggi tranquillo in Italia come una canaglia trotskista, protetto dalla polizia e dai fascisti, odiato dagli operai come deve essere odiato un traditore”[33]

Mentre i quadri dirigenti e gli organi di stampa si affannano a escogitare gli insulti e le calunnie peggiori nei confronti di ex compagni di partito [34], i principali dirigenti del partito varano nel 1935 quella che appare una “politica di riconciliazione nazionale” [35]. Mentre alcuni si dichiarano disponibili alla partecipazione ad un governo atto a difendere le “libertà popolari”, a “reprimere ogni ritorno offensivo del fascismo” [36], Togliatti spiega ciò che bisogna intendere per “fronte popolare”: l’unione di tutte le correnti di opposizione al fascismo, esterne od interne ad esso. Il ruolo della classe operaia sarà d’ora innanzi quello di “guida della rivoluzione popolare antifascista” (Longo), facendo leva, soprattutto, sulla capacità dei dirigenti di “saldare l’opposizione antifascista all’opposizione fascista” (Grieco). Coerentemente con questo programma, nel maggio 1936, al termine della campagna d’Etiopia, si può affermare:

“I nostri soldati, le camicie nere, si sono battuti con coraggio, hanno affrontato sacrifici grandissimi... hanno compiuto uno sforzo che dimostra l’alta capacità di abnegazione e di resistenza del nostro popolo magnifico... Hanno combattuto per una causa ingiusta. Sono stati ingannati [...] dal fascismo. Essi hanno creduto di combattere per fare grande, forte e felice il loro paese: e dietro a questo mirabile ideale [!!!], per il quale val bene la pena di spendere anche la vita, migliaia di nostri fratelli sono morti e migliaia sono rimasti storpiati e ammalati per sempre”[37]

Non essendoci più limite al tradimento, in nome dell’unità popolare, i quadri dirigenti del PCI decidono di appropriarsi anche dei programmi fascisti della prima ora (definiti “programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori”):

“Noi tendiamo la mano ai fascisti nostri fratelli di lavoro e di sofferenze... Noi comunisti vogliamo fare l’Italia forte, libera, felice. La nostra aspirazione è pure la vostra o fascisti, cattolici, uomini italiani di ogni opinione politica, di ogni fede religiosa”[38]

Infine, in questo crescendo senza vergogna, nell’agosto del 1936, “Lo Stato Operaio” pubblica l’articolo “Per la salvezza dell’Italia, riconciliazione del popolo italiano!”, tristemente noto come “Appello ai fascisti”. Vi si legge:

“Diamoci la mano, figli della Nazione italiana! Diamoci la mano, fascisti e comunisti, cattolici e socialisti, uomini di tutte le opinioni. Diamoci la mano, e marciamo fianco a fianco per strappare il diritto di essere dei cittadini di un paese civile quale è il nostro... Unità di tutto il popolo, per la libertà, per la realizzazione del programma fascista del 1919. A te, lavoratore fascista! Noi ti diamo la mano perché con te vogliamo costruire l’Italia del lavoro e della pace... siamo tuoi fratelli, abbiamo gli stessi interessi e gli stessi nemici. A te, lavoratore cattolico! Noi ti diamo la mano perché assieme a te vogliamo lottare per una giustizia più grande, per la pace tra gli uomini, per la libertà”.

Come si è visto, la politica del PCI - o, per meglio dire, la politica dei pochi dirigenti che all'estero hanno ricostruito il CC di origine gramsciana - si è tutta fedelmente orientata in base alle decisioni dell'Internazionale Comunista moscovita, sia per quanto riguarda la lotta contro le opposizioni di sinistra, sia per quanto riguarda la teoria del socialfascismo e la successiva svolta ispirata ai fronti popolari, alla difesa delle forme democratiche dello Stato borghese [39] e infine, esplicitamente, all’eventuale uso di tutte le forme legali offerte dallo stato fascista allo scopo di mobilitare anche i “fratelli in camicia nera”. In questo senso il PCI, privo di contatti con la base comunista completamente all'oscuro di quanto avviene sull'asse stalinista Parigi (CC del PCI)-Mosca (Togliatti), potrà firmare nel 1937 la tanto auspicata Carta di unità d'azione con il PSI, con l’obiettivo di suscitare una lotta di popolo che possa utilizzare “a tal fine anche tutte le possibilità legali del regime fascista”.

Le successive capriole della direzione, che dovrà allinearsi alle strategie politico-militari del paese-guida (con la firma, nell’agosto del 1939, del patto di non aggressione con Hitler), [40] non meritano di essere ulteriormente commentate. Semplicemente, tutto ciò dimostra come da lungo tempo il PCI avesse perso il diritto di presentarsi come guida rivoluzionaria. E come, anzi, abbia usurpato il titolo di “comunista” avendo tradito, del comunismo e dell'azione rivoluzionaria, le fondamenta teoriche sul piano dei principi e dei fini, schierandosi apertamente nelle coalizioni antifasciste socialdemocratiche e diventando, di fatto, il puntello di cui si servirà la borghesia italiana, nel dopoguerra, per far fronte all'inevitabile crescita del movimento di classe.

In questo senso, noi vediamo un medesimo filo che unisce la tattica del “fronte unico antifascista” quale si manifesta chiaramente già nella prima metà degli anni Venti, e quella delle coalizioni con partiti borghesi o piccolo-borghesi in Cina, Germania, Francia, Spagna, che sfocerà più tardi necessariamente nella costituzione dei blocchi partigiani e, quindi, nella aperta e dichiarata difesa di uno dei due schieramenti imperialisti (e, dal punto di vista di una futura ripresa della lotta di classe, il peggiore[41]) nel secondo massacro mondiale.

Questa tattica, che nulla ha da spartire con il cammino della rivoluzione comunista, sta ben calata all'interno della disastrosa teoria del “socialismo in un solo paese” e della difesa del “paese-guida”. L'aver piegato il proletariato europeo agli interessi militari e diplomatici di una Unione Sovietica nella quale i piani quinquennali celebravano i saturnali dell'accumulazione capitalistica a suon di record di tassi di incremento industriale, sottoponendo alla sferza di massacranti ritmi di lavoro il proletariato protagonista della più grande rivoluzione dei tempi moderni: questo fu il risultato della politica dei partiti stalinizzati di tutta Europa.

Per queste stesse ragioni, la Sinistra “italiana” non poté che rifiutare ogni forma di rimescolamento con i gruppi che, fin dall'inizio degli anni Trenta, un militante della statura di Trotzky cercava di far convergere in uno sforzo di volontarismo organizzativo destinato, come la storia già aveva insegnato, al più amaro fallimento. Anche con questi gruppi, che si arrogheranno il titolo di IV Internazionale nel momento in cui predicheranno ai quattro venti la politica entrista del noyautage con i socialisti, nel disperato tentativo di non perdere il contatto con le masse, la Sinistra “italiana” non potrà che tagliare ogni legame. E peggio sarà, per questi gruppi, la prospettiva della guerra incombente quando, invece di esprimere alle masse operaie un programma chiaro e definito, costoro esorteranno alla difesa incondizionata dell’URSS, venendosi di fatto a schierare con il fronte delle democrazie alleate e abbandonando la grande tradizione zimmerwaldiana del disfattismo rivoluzionario.[42]

8. La guerra.

Quando, il 23 agosto 1939, fu firmato il trattato di non-aggressione tra Urss e Germania, nel piccolo gruppo di dirigenti del PCI all'estero la reazione fu inizialmente di sorpresa. Poi, però, seguì rapidamente un allineamento totale [43]. D’improvviso si passa dalla lotta per la difesa della democrazia contro il fascismo alla teoria dell'equidistanza tra blocchi imperialisti in lotta tra loro; e tuttavia, i dirigenti del PCI continuano a mantenere un atteggiamento di denuncia del fascismo come principale nemico. Scrive per esempio Togliatti da Basilea, il 29 agosto 1939:

Se, malgrado tutto, vi sarà la guerra, combatteremo con tutti i mezzi e con tutte le forze… perché dalla guerra esca la disfatta del fascismo […] Per raggiungere questo scopo approfitteremo di tutte le possibilità che ci saranno offerte, entrando, se occorre, nell'esercito francese, per combattere contro i fascisti e aiutare a sconfiggerli. [44]

Vi è dunque una coerente linearità di fondo nella politica del PCI da quando - a partire dal 1926 - i dirigenti del partito si schierano sul fronte antifascista. La posizione chiaramente espressa, gabellata come “disfattismo rivoluzionario”, è ribadita da Togliatti l'anno dopo, quando ormai anche l’Italia è entrata in guerra:

I comunisti si rivolgono agli operai […] sotto le armi e dicono loro: “tenete salde le armi nelle vostre mani, non le abbandonate fino a quando non avrete cacciato la plutocrazia fascista, fino a quando non avrete ridato al Paese la pace e la libertà”.[45]

Non fa qui conto di tracciare in dettaglio i tentativi di riorganizzazione dei quadri del partito in Italia. Nei primi due anni di guerra, alcuni dirigenti cercheranno di rimpatriare clandestinamente dalla Francia, altri nuclei si formeranno nelle prigioni e al confino, costituendo gruppi di potere spietatamente ostili nei confronti di tutti i comunisti imprigionati ma fedeli ancora, a distanza di quasi vent'anni, ai programmi e alle direttive del partito di Livorno.

Resta l’amaro bilancio di un partito che cerca di riorganizzarsi di fronte al massacro della guerra sulle traditrici formule della difesa della patria, della lotta per l’indipendenza nazionale, per le libertà democratiche, per l’antifascismo. Sul piano tattico, tutto ciò non potrà che tradursi nella costituzione dei blocchi partigiani e nel definitivo abbandono dell’internazionalismo proletario, del disfattismo e della ripresa della autonoma lotta di classe per il rovesciamento del capitalismo internazionale.

Quando, il 25 luglio 1943[46], il grande capitale italiano decide che è venuto il momento di liquidare il fascismo per tradire gli alleati del giorno prima, non lo farà in nome della pace e della neutralità, ma per proseguire la guerra alle condizioni più vantaggiose sotto la bandiera della democrazia. Tuttavia, prima di operare il voltafaccia, è necessario dimostrare al proletariato che il padrone è sempre lo stesso, sotto la veste fascista o democratica poco importa. Per sedare ogni sintomo di istintiva rivolta operaia alla caduta del regime, il democratico governo Badoglio, chiamato a sostituire il Gran Consiglio Fascista, si rende responsabile di un centinaio di morti proletari nei 45 giorni che intercorrono tra il suo inizio e la firma dell’armistizio con gli anglo-americani. Posizione dei centri dirigenti del PCI sarà comunque l’appoggio al governo nella misura in cui romperà ogni accordo militare con la Germania schierandosi con il capitale occidentale: “La guerra contro i paesi democratici, contro l'Inghilterra, gli USA, la Russia, è la guerra del fascismo ed esclusivamente del fascismo. Essa non è mai stata e non potrà mai essere una guerra dell’Italia, una guerra della nazione”.[47] E quando infine, dopo l’8 settembre, la firma dell’armistizio e la fuga di re e governo creeranno condizioni favorevoli per il rilancio di direttive rivoluzionarie, il PCI, conseguentemente alla decennale attività di falsificazione del marxismo, esigerà invece una pronta adesione alla lotta militare di stato contro stato, fianco a fianco con piccola, media e grande borghesia locale e sotto le bandiere alleate. “La dichiarazione di guerra alla Germania […] permetterà di regolare e stabilire su una base di lealtà e di reciproca fiducia i rapporti tra l’Italia e gli altri paesi che conducono la lotta per debellare l'imperialismo tedesco […] Per questo il nostro governo non deve più esitare. Dichiari la guerra ai tedeschi, prenda nelle sue mani con energia e audacia la sacra bandiera della guerra per l’indipendenza nazionale, e tutta l’Italia, consapevole del suo dovere, marcerà al combattimento”.[48] In condizioni analoghe, alla vigilia dell'intervento italiano nel primo conflitto mondiale, la Sinistra non ebbe esitazione alcuna a ribadire la propria fedeltà al programma rivoluzionario: “Noi non eravamo né neutralisti né pacifisti, né credevamo possibile come punto di arrivo programmatico la pace permanente fra gli Stati. Noi deploravamo il disarmo della lotta di classe, della guerra di classe, per far largo alla guerra nazionale. La nostra alternativa non era: non sospendere la lotta di classe legalitaria, ma: combattere nella direzione della guerra rivoluzionaria proletaria che sola avrebbe un giorno ucciso le radici delle guerre tra i popoli. Noi eravamo i veri interventisti di classe, interventisti della rivoluzione”. [49]

La II Guerra Mondiale costò al proletariato italiano alcuni milioni di morti. Mandati al macello in Africa, in Russia, nei Balcani, questi operai e contadini in divisa, senza alcuna direttiva classista da parte del PCI, non poterono opporre il disfattismo rivoluzionario alla propria borghesia. L’unica voce coerentemente marxista [50] che si levò in piena guerra fu quella del Partito Comunista Internazionalista che, costituitosi nell’Italia settentrionale nel 1942 come centro di raccordo tra la Frazione all'estero e i gruppi sopravvissuti in Italia al ventennio fascista, additava fin dal primo numero del suo periodico Prometeo (1 novembre 1943) l'invariata via rivoluzionaria alla guerra imperialista, invitando il proletariato di ogni nazione

a porre sul piano ideologico e quindi politico la definizione di entrambi i belligeranti come facce diverse di una stessa realtà borghese, da combattere entrambi perché intimamente legati, ad onta delle apparenze, alla stessa ferrea legge della conservazione del privilegio capitalista.

La storiografia del PCI si compiace di definire il ritorno di Togliatti in Italia, nel marzo del 1944, come l'evento (la “svolta di Salerno”) destinato a modificare e indirizzare verso nuove e originali strategie la politica del partito. Nel frattempo, l’Urss ha ristabilito le relazioni diplomatiche con il governo Badoglio, ed è chiaro che l’arrivo del dirigente stalinista (salutato come “il solo veggente tra coloro che vanno alla cieca”, o come “un cavaliere portentoso, un Lohengrin redivivo”, perfino da vecchi arnesi socialisti) è stato concordato con i plenipotenziari politici e militari alleati, che riconoscono perfettamente nel PCI il partito che, nel difficile dopoguerra, potrà guidare l’Italia, monarchica o repubblicana poco importa [51], alla ricostruzione dell’economia sulla pelle operaia.

Quest’individuo, interventista della prima ora nel 1915, alleato dopo la scissione di Livorno ora con la Sinistra ora con i centristi a seconda delle proprie convenienze, falsificatore di documenti del proprio partito e di suoi compagni incarcerati, pronto a piegarsi a qualunque compromesso con i suoi superiori che gli dettano ordini (Stalin in persona o, in alternativa, Dimitrov o Manuilskij), probabilmente responsabile diretto o indiretto della morte di centinaia di comunisti italiani esuli in Russia e finiti nel Gulag sovietico, è lo specchio fedele della controrivoluzione internazionale, nella sua versione italiana. A scanso di equivoci, sarà bene ricordare che Togliatti non era quel “capo illuminato” che dipingono i suoi dipendenti servili nel PCI. Le sue “teorie” politiche non formano affatto “un discorso continuo, serrato, coerente che è rivolto […] ad illuminare e ad approfondire, a difensere e ad affermare la nostra linea di avanzata democratica al socialismo” che sarebbe poi, sul piano internazionale, la strategia della coesistenza pacifica, della liberazione nazionale e dell’unità “del movimento operaio e rivoluzionario sulla diversità delle vie di lotta e sull’autonomia delle scelte politiche”[52]. La realtà ben nota è che il 4 marzo 1944 costui era ricevuto da Stalin, che gli impartiva la lezione; e il giorno dopo era a rapporto da Dimitrov, al quale esponeva i concetti del Capo: “L’esistenza di due campi (Badoglio – il re e i partiti antifascisti) indebolisce il popolo italiano. Questo è vantaggioso per gli inglesi, che vorrebbero un’Italia debole nel mare Mediterraneo. Se anche nel futuro si protrarrà la lotta tra questi due campi, ciò porterà alla rovina del popolo italiano. Gli interessi del popolo italiano impongono che l’Italia sia forte e abbia un esercito forte”.[53] Qualche giorno dopo il suo sbarco a Napoli, questo traditore del proletariato internazionale tenne un discorso osannato, nell'immediato, dai suoi compagni di partito e, in seguito, da tutti gli storici democratici di qualsiasi tendenza politica. Dopo aver sdegnosamente respinto l’accusa che i comunisti siano nemici della proprietà, fautori della violenza, nemici della famiglia, o disfattisti, costui proseguiva:

Io sfido chiunque [...] a trovare un solo atto del nostro partito [NdR: evidentemente parla del suo partito, che non ha nulla da spartire con quello fondato a Livorno nel 1921!] il quale sia stato in contrasto o abbia nuociuto agli interessi della nazione [...] La bandiera degli interessi nazionali, che il fascismo ha trascinato nel fango e tradito, noi la raccogliamo e la facciamo nostra. [54]

Non poteva mancare (coscienza poco tranquilla?) il solito richiamo di circostanza ai Maestri (fondatori - si tenga bene a mente! - della I, della II e della III Internazionale). Ma ecco in che termini:

Siamo nella linea della dottrina e delle tradizioni di Marx e di Engels, i quali mai rinnegarono gli interessi della loro nazione [!!], sempre li difesero [!!], tanto contro l’aggressore e invasore straniero, quanto contro i gruppi reazionari che li calpestavano. Siamo nella linea del grande Lenin, il quale affermava di sentire in sé l’orgoglio del russo [!!!], rivendicava al proprio partito di continuare tutte le tradizioni del pensiero liberale [!!!] e democratico [!!!] russo.

E comunque, a scanso di equivoci (poiché di teste calde ce n’è sempre troppe...) sentenziava che

oggi non si pone agli operai italiani il problema di fare ciò [NdR: si osservi la delicatezza: il termine “rivoluzione” non va neppure pronunciato!] che è stato fatto in Russia [...] Guai se la classe operaia, oggi, non adempisse a questa sua funzione nazionale [...] L’obiettivo che noi proporremo al popolo italiano di realizzare, finita la guerra, sarà quello di creare in Italia un regime democratico e progressivo [...] Convocata, domani, un’assemblea nazionale costituente [come si ricorderà, in questa formula è concentrato il programma del partito di Gramsci già nel 1925, ndr], proporremo al popolo di fare dell’Italia una repubblica democratica, con una Costituzione la quale garantisca a tutti gli italiani tutte le libertà: la libertà di pensiero e quella di parola; la libertà di stampa, di associazione e di riunione; la libertà di religione e di culto; e la libertà della piccola e della media proprietà di svilupparsi senza essere schiacciata dai gruppi avidi ed egoisti della plutocrazia, cioè del grande capitalismo monopolistico.

Se tuttavia, infine, qualcuno non avesse ancora capito e si chiedesse che cosa ne è del programma storico del marxismo, allora contro costui non si potrà transigere:

Il nostro partito può adempiere ai propri compiti soltanto nella misura in cui esso è unito e disciplinato [...] Siate vigilanti. Siate disciplinati [...] Abbiate sempre gli occhi aperti per scoprire e cacciare colui che vuole intrufolarsi nelle nostre file per gettarvi la discordia, per disgregarle. Quasi sempre vi accorgerete che egli è un agente del nemico. Smascherate senza pietà il provocatore, il disgregatore, il corruttore [55].

Mentre i proletari italiani erano invitati a schierarsi sotto la bandiera anglosassone nei reparti partigiani contro i tedeschi, la caccia all’oppositore dava i suoi frutti, con l’assassinio di valorosi compagni presentati nella stampa “comunista” come “agenti del nemico truccati con berretto estremista [...] tenitori di tabarins e di bische clandestine [...] setta di rivoluzionari da strapazzo e visionari dogmatici [trasformati] in agenzia criminale e senza scrupoli di nemici della rivoluzione [...] agenti dell'OVRA e della Gestapo [...] accolita di avventurieri che hanno fatto dell'anticomunismo il proprio cavallo di battaglia”[56]. Liquidando ogni opposizione operaia, accordandosi con i partiti cattolici e spegnendo sul nascere ogni tentativo spontaneo di rivolta, il PCI si apprestava a diventare partito di governo, partecipando alla stesura della Costituzione italiana[57] e mandando il suo uomo più rappresentativo, Palmiro Togliatti, a fare il Ministro di Grazia e Giustizia due volte sotto il re, la terza con un presidente della Repubblica. In tal veste, nel giugno del 1946, egli firmerà un decreto di amnistia per reati politici in termini tali “che” scrive un noto giornalista biografo di Togliatti “tutti i boia della repubblica di Salò, tutti i torturatori di partigiani, vengono messi in libertà”. [58]

9. Cenni sul secondo dopoguerra.

Nel 1947, PCI e PSI realizzano finalmente ciò che non erano riusciti a concretizzare sotto il fascismo, cioè il patto di unità di azione. Questa “alleanza” ha lo scopo di impedire la rinascita di un movimento autonomo di classe in una situazione post-bellica potenzialmente pericolosa da un punto di vista sociale per la nuova organizzazione politica che si dà la borghesia italiana. Essa durerà fino al XX Congresso del PCUS quando, con le “rivelazioni” del famoso “rapporto segreto” di Krusciov, gli ex-alleati socialisti, fiutando l'aria sfavorevole per le manovre elettorali, preferiranno girare la schiena al partito di Togliatti per formare una coalizione di centro-sinistra. In questa occasione, il PCI esporrà la tesi della “via italiana al socialismo”, già formulata nel 1947 ma ora meglio accreditata per tamponare le perdite di quadri e di voti sotto l’incalzare di clamorose rivolte antisovietiche (nel giugno del 1956 l’insurrezione a Poznan, in Polonia; nell’ottobre dello stesso anno, i fatti di Ungheria). In questo contesto si realizza quella che sembrò allora una sterzata nella direzione: l'accantonamento (iniziato nel 1955) della cosiddetta “sinistra” del partito (vecchi partigiani stalinisti cui piaceva esibire il fucile, ma in nome della lotta antifascista interclassista) a favore di una “destra” democratica sufficientemente abile da consentire nel modo più indolore possibile il processo di destalinizzazione. Ben si intende che l’elemento comune di questi schieramenti, al di là della prosa fiorita e talora truculenta di cui si ammantarono le polemiche tra i loro rappresentanti, è l’atteggiamento completamente interclassista che animò sinceramente i primi nell’alleanza antifascista, i secondi nell’alleanza con la democrazia cristiana e che, a tempi lunghi, finirà per portarli all’agognato governo.

Gli anni Sessanta sono quelli del “miracolo economico” e della teoria kruscioviana, prontamente adottata dal PCI, della coesistenza pacifica. Si tratta dell’inizio del ciclo di accumulazione postbellico e quindi della crescita di forme rivendicative sempre più violente e frequenti a causa dei bassi salari e della disoccupazione di massa. Quel periodo vede nascere all’interno del PCI ma su posizioni critiche numerosi movimenti che rivendicano un ritorno al marxismo. Tuttavia essi o non sfuggono allo spontaneismo e all’immediatismo operaista, rifacendosi anche al consiliarismo degli anni Venti (Quaderni rossi), o rivelano un atteggiamento intellettualistico ed idealistico di “liberazione culturale” come preliminare a una futura azione politica (Quaderni piacentini); mentre vecchi arnesi stalinisti scelgono opportunamente il silenzio.[59] La reazione del centro dirigente del PCI, nei confronti di questi ed altri gruppi dissidenti, sarà inizialmente di cautela e di permissività, mentre diventerà di intransigenza nel momento in cui si manifesteranno, dopo il Sessantotto, le prime forme di terrorismo. Di fronte a questo tipo di lotta, il PCI non esiterà a procedere a centinaia di denunce ai servizi di sicurezza dello Stato a carico di propri iscritti [60] ed utilizzando appieno le proprie reti informative all'interno delle fabbriche. Nel frattempo, Berlinguer, segretario del partito dal 1972 al 1984, elabora la teoria del “compromesso storico”. Questa sancisce l’alleanza non più con i socialisti ma direttamente con la Democrazia Cristiana, al potere dal dopoguerra. In questo modo spalancherà le porte alla coalizione governativa dopo aver finalmente rinunciato al nome, usurpato per decenni, di Partito Comunista (si chiamerà infatti, dal 1991, Partito Democratico della Sinistra).

Seguire passo dopo passo le contorsioni teoriche del PCI nell’ultimo ventennio della sua vita non può essere oggetto di analisi in questa sede. Basti dire che la strategia di questo partito, impostata sul “compromesso storico”, verrà parzialmente modificata tra gli anni '76 e '79, quando si formeranno governi di coalizione senza “comunisti”, ma con il loro appoggio esterno, nel concetto di “governo di solidarietà democratica” che infine, all’inizio degli anni ‘80, si trasforma in “alternativa democratica”. Al di là di questi sofismi lessicali, come si è visto, tutta la politica del PCI nel secondo dopoguerra è stata improntata alla solidarietà nazionale, secondo una prassi assolutamente invariante che risale, nell’immediato, a Salerno, ma affonda le proprie radici nelle deviazioni gramsciane del 1924 (“assemblea costituente”). La strategia del partito di Berlinguer, in particolare, fu dettata da quelle che la borghesia italiana ha considerato condizioni di emergenza: la recessione internazionale prima, con le dure condizioni poste dal FMI per la concessione di prestiti; poi, e in conseguenza di ciò, l’esaurimento delle riserve monetarie (inizi 1976). Il PCI scende in campo con il peso dei suoi elettori, allo scopo dichiarato di rilanciare l’economia facendosi garante dell'ordine pubblico e sociale a fronte della “politica di sacrifici” imposti al proletariato in condizioni di “emergenza”. Sarà, in Italia come in tutta Europa, la politica economica del deficit spending, appoggiata e sostenuta dai nazionalcomunisti schierati a difesa dell’economia nazionale. La scomparsa anche formale di questo partito, che abbandona, oltre al nome, anche il proprio ruolo di agente antiproletario ai due partiti che se ne contendono i voti, quello stalinista nostalgico (il PC d’Italia di Cossutta) e quello democratico pluralista (Rifondazione comunista di Bertinotti) non è che la legittima conclusione di un processo di decomposizione durato quanto la borghesia italiana ha ritenuto necessario ai propri fini di stabilizzazione sociale.

10. Conclusioni.

Nel ripercorrere la storia del PCI, sono presenti dunque una prima fase di sistemazione teorica ed organizzativa in regola con le tradizioni del marxismo rivoluzionario internazionale e un momento di rottura, che poniamo al 1923 non tanto per il fatto che la direzione che l’aveva guidato dal momento della fondazione venga sostituita in blocco dall’Internazionale Comunista, quanto perché da allora iniziò a svilupparsi, sotto pretesti tattici, la strategia delle alleanze e dei contorcimenti organizzativi su scala internazionale e non solo italiana. Tale strategia avrebbe dovuto recuperare in maniera volontaristica una forza attrattiva sulle masse che ormai, dopo anni di guerra, dopo la sconfitta dolorosa del “biennio rosso” 1919-20 e dopo l’avanzata controrivoluzionaria della borghesia in veste fascista, aveva perso lo slancio generoso e classista. La battaglia che la Sinistra condusse in difesa della dottrina rivoluzionaria fino al periodo (1928-30) delle espulsioni non poté e non volle prospettarsi se non sul piano internazionale e non solo su quello meschinamente italiano. Questa battaglia non poteva sperare di salvare la struttura organizzativa, nel momento in cui sul movimento operaio si abbattevano l’ondata degenerativa nell’Unione Sovietica e quella repressiva fascista in Germania e in Italia, trascinando nel vortice opportunista, in nome della difesa nazionale, ciò che restava delle vecchie organizzazioni operaie e dei loro militanti. Ed infatti fu ribadito fin dal 1926 che ogni tentativo di opporsi alla bufera per mezzo di espedienti organizzativi (fusioni temporanee di piccole organizzazioni di opposizione, manovre frazionistiche) era destinato all’insuccesso, e che si doveva al contrario e urgentemente metter mano a “un lavoro pregiudiziale di elaborazione di ideologia politica di sinistra internazionale, basata sulle esperienze eloquenti traversate dal Comintern” [61].

Coloro che da allora e fino allo scoppio della guerra - e furono la maggioranza - preferirono inabissarsi nei vortici del “socialismo in un solo paese”, della lotta antifascista, del blocco delle classi, dei “patti di azione”, finiranno necessariamente col predicare al proletariato la difesa della patria, fino a cercare alleanze con cattolici e fascisti, con contadini e piccola borghesia. A guerra finita, saranno costoro ad orchestrare la “ricostruzione”, a ribadire la propria vocazione patriottica, ben collegata al liberalismo e all’idealismo risorgimentale, “in difesa della pace e dello sviluppo”.

E finalmente, che tutto ciò non abbia da lungo pezzo più nulla da spartire con il marxismo verrà riconosciuto dai successori di Togliatti, dai Longo e dai Berlinguer degli anni ‘70 e ‘80, quando la concezione del marxismo come “storicismo assoluto”, vale a dire come forma storicamente transitoria e oggi largamente superata dalla realtà, ricongiungerà costoro anche formalmente alla Filosofia dello Spirito di Benedetto Croce e all'idealismo mascherato di Antonio Gramsci [62], senza che peraltro essi siano in grado di farne una applicazione in qualche modo coerente come fu – bisogna dargliene atto - quella del fondatore dell'ordinovismo.

 

Note

[1] Sulla nascita del PCd’I, cf. Storia della Sinistra comunista, cit., voll. I-III.

[2] I. V. Stalin, "Problemi economici del socialismo nell'URSS", Rinascita (suppl.), n. 9, 1952. La critica marxista a queste falsificazioni si trova nel nostro Dialogato con Stalin, in "il programma comunista", n. 1-4, ottobre-dicembre 1952.

[3] Dialogato con Stalin, in "il programma comunista", cit.

[4] Sulla teoria del "socialismo in un solo paese", vera e propria bestemmia nel vocabolario marxista, si pronunciarono con estrema chiarezza Marx ed Engels in decine di pagine di fuoco. Già nel 1874 Engels, analizzando il particolare momento storico del movimento operaio tedesco, poteva indicare il dovere dei rivoluzionari nel "mantenere puro il senso puramente internazionalistico, che non lascia adito a nessun sciovinismo patriottico e che saluta con gioia ogni nuovo passo in avanti del movimento proletario, senza nessuna differenza, quale che sia la nazione da cui esso provenga. Se gli operai tedeschi così andranno avanti, non perciò marceranno alla testa del movimento - anzi non è affatto nell'interesse del movimento che gli operai di una singola nazione, quale che essa sia, marcino alla testa del movimento - ma tuttavia occuperanno un posto degno di onore nella linea del combattimento". Prefazione (1874) a La guerra dei contadini in Germania. Edizioni Rinascita, Roma 1949, pag. 26.

[5] P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Vol. I. Da Bordiga a Gramsci. Ed. Einaudi, Torino 1967, pag. 455.

[6] Le manovre attuate in questa occasione, e successivamente a Mosca, dalla direzione centrista, sono vividamente illustrate nell'articolo “La verifica marxista della odierna decomposizione del capitale nell'occidente classico come nella degenerante struttura russa. Guerra spietata dal 1914 al 1961 all'enfiantesi bubbone opportunista”, il programma comunista, n. 12, 1961.

[7] Le Tesi, in larga parte redatte da Gramsci e da Togliatti, sono state pubblicate in Trent'anni di vita e di lotte del PCI, Quaderno di Rinascita n. 2, 1951.

[8] Le Tesi che la Sinistra presentò a Lione si possono leggere nel fascicolo In difesa della continuità del programma comunista, Ed. il programma comunista, 1989.

[9] “La situazione italiana e i compiti del PCI”, ora in A. Gramsci, La costruzione del Partito comunista (1923-1926), Einaudi 1971, pag. 503.

[10] Cit. in P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. II, Einaudi, pag. 509.

[11] Cfr. A. Agosti, Togliatti, UTET 1996, pag. 106.

[12] Secondo G. Berti (I primi dieci anni di vita del PCI, Annali Feltrinelli, Anno Ottavo, 1966) questa parola, "che suscitò infiniti dibattiti interni per ben quattro anni", rispondeva alle due esigenze di impostare una lotta antifascista di contenuto democratico e quella di tenere in vita la prospettiva "di una soluzione soviettista della crisi italiana" (ibid., pag. 159).

[13] Il problema della "disciplina" e delle forme di organizzazione era già stato posto altre volte, su articoli nei periodici comunisti in Italia e a precedenti Congressi dell'Internazionale. L'intervento del 1926 può essere letto nell'articolo “La crise de 1926 dans le P.C. russe et l'Internationale: le Ve Exécutif Elargi de l'I.C.”, in Programme Communiste, n. 69-70, maggio 1976.

[14] L'analisi del ripiegamento dell'Internazionale in questo biennio (1926-27) cruciale per i rapporti con l'URSS è contenuta nel lavoro prodotto dal nostro partito subito dopo la Seconda guerra mondiale e in particolare in Vercesi, La tattica del Comintern dal 1926 al 1940, pubblicato in quella che allora era la nostra rivista teorica Prometeo, n. 2-3-4-6-7-8.

[15] Se ne veda un esauriente commento nell'articolo “Lo sciopero generale inglese del 1926”, il programma comunista, n. 11, 1996.

[16] Ci riferiamo in particolare ai due fondamentali articoli di A. Bordiga: “Il pericolo opportunista e l'Internazionale”, l'Unità, 30 settembre 1925; e “La politica dell'Internazionale”, l'Unità, 15 ottobre 1925.

[17] Cit. in G. Berti, I primi dieci anni di vita del PCI, Annali, anno Ottavo, Feltrinelli, 1966, pag. 325.

[18] "Sulla tattica comunista nella rivoluzione cinese", Lo Stato operaio, n. 5, luglio 1927. Si noti che i massacri sono avvenuti nell’aprile di quello stesso anno!

[19] Così scrive Togliatti in una lettera indirizzata a Germanetto, un dirigente del PCI in esilio a Parigi, cit. in A. Agosti, Palmiro Togliatti, UTET, Torino, pag. 125.

[20] P.Togliatti, “Rottura necessaria”, in Lo Stato operaio, 14 novembre 1928.

[21] Al riguardo si potrà consultare il volume di M. Franzinelli, I tentacoli dell'Ovra, Ed. Bollati-Boringhieri, Torino 1999.

[22] A. Agosti, Togliatti, cit, pag. 136.

[23] Cfr. P. Spriano, Storia del PCI, vol. I, pag. 455: “perquisizione immediata [...] abbattere senz’altro coloro che indeboliscono la nostra compagine”.

[24] “Verbale CC PCI”, 9 giugno 1930, cit. in P. Spriano, Storia del PCI, II, pag. 259, nota 3.

[25] Sui gruppi di fuorusciti in Belgio durante il fascismo, cfr. A. Morelli, Fascismo e antifascismo nell'emigrazione italiana in Belgio (1922-1940), ed. Bonacci, Roma.

[26] P. Togliatti (Ercoli), Prefazione a G. Germanetto, Memorie di un barbiere, Ed. E.GI.TI., Roma, 1931.

[27] Prometeo, n. 8, 15 ottobre 1928.

[28] Sulla guerra tra franchisti e repubblicani in Spagna, oltre al già citato Vercesi (“La tattica del Comintern dal 1926 al 1940”, Prometeo, n. 2-3-4-6-7-8), si può consultare A. Guillamón Iborra, I bordighisti nella guerra civile spagnola, Quaderni del Centro Studi “Pietro Tresso”, n. 27.

[29] Cfr. Trotzky, La rivoluzione spagnola e i pericoli che la minacciano, maggio 1931.

[30] Una serrata analisi della politica dell'Internazionale e una quanto meno embrionale analisi critica delle forme economiche e sociali in atto nell'Unione Sovietica (analisi totalmente divergente da quelle compiute alla stessa epoca da altri gruppi di opposizione) vengono elaborate dalla Frazione di sinistra fin dal 1934 e pubblicate su Bilan, che era l'organo in lingua francese della Frazione. Si veda l'articolo “Partito Internazionale Stato” in A. Giasanti (a cura di), Rivoluzione e reazione, ed. Giuffrè, Milano 1983.

[31] La citazione, con una piccola modifica, è ripresa da Vercesi, “La tattica del Comintern”, Prometeo, n. 8, 1947.

[32] Vercesi, “La tattica del Comintern”, Prometeo, n. 7, pag.317-18, 1947. Il PCF assolse perfettamente alla sua funzione di pacificatore sociale, tra l'altro definendo “hitleriani” i pochi operai che in quell'occasione si schierarono apertamente su una posizione di lotta rivoluzionaria.

[33] Lo Stato Operaio, n. 5-6, maggio-giugno 1937. Invece, per Sereni, Bordiga “divenendo una spia e un agente al servizio del fascismo […] non ha fatto altro che seguire l'onorata carriera del guappo, del camorrista”: Lo Stato Operaio n. 11, 15 giugno 1938.

[34] Alcuni esempi: in Italia vi è solo “qualche criccarella che sotto l’etichetta trotzkista o bordighiana, spesso in legame con elementi sospetti, cerca di disgregare il partito” (l’Unità n.3, febbraio 1933); “è urgente che gli operai d’avanguardia liquidino definitivamente il colpevole liberalismo che ancora permette agli agenti bordighisti e trotzkisti del fascismo di infiltrarsi tra gli operai” (Lo Stato Operaio, n. 11, 15 giugno 1938). Esiste poi una documentazione abbastanza ampia, anche se certamente incompleta, sulle persecuzioni degli oppositori italiani di sinistra in Unione Sovietica negli anni Trenta: dalle prime timide ammissioni da parte PCI successive al XX Congresso del PCUS (cfr. R. Mieli, Togliatti 1937, Rizzoli 1964), si passa, tra gli altri, a R. Caccavale, La speranza Stalin (Ed. Valerio Levi, Roma 1989), a F. Bigazzi e G. Lehner (a cura di), Dialoghi del terrore (Ed.. Ponte alle Grazie, Firenze 1991) e infine a E. Dundovich, Tra esilio e castigo (Carocci, Roma 1998).

[35] A.Agosti, Palmiro Togliatti, cit., pag. 202.

[36] Ibid., 203.

[37] In “Lo Stato Operaio”, n.5, maggio 1936.

[38] Ibid., n. 6, giugno 1936.

[39] In Spagna, ciò avveniva con il pretesto della difesa dello stato repubblicano; in Italia, accantonando per certi periodi - in polemica con GL - l'idea della repubblica democratica solo per accogliere quella gramsciana dell'Assemblea costituente che, con le parole di Di Vittorio, “non preclude la strada ad elementi cattolici e monarchici”.

[40] Queste capriole porteranno all'espulsione di alcuni dirigenti (Terracini, Ravera), all'allontanamento di altri (Valiani) e alla rottura del fronte con socialisti e liberali.

[41] La storia dell’ultimo mezzo secolo ha dimostrato l’esattezza delle nostre analisi di allora: da un punto di vista di una ripresa della lotta di classe il campo vincitore è stato il peggiore.

I rapporti di forza che si sono formati sul piano internazionale dopo la seconda guerra mondiale, con la vittoria delle democrazie occidentali, ci sono stati estremamente sfavorevoli. La politica delle potenze vincitrici, dietro l’ipocrisia di libere elezioni, di liberi parlamenti, di liberi dibattiti di opinioni, cela ovunque la realtà della vittoria del fascismo. Il fascismo è nato in regimi totalitari (Italia, Germania) e, con la sconfitta militare di questi, è penetrato nella gestione dell’apparato economico, giuridico, amministrativo delle borghesie “democratiche”. Esso è lo scheletro del moderno imperialismo, caratterizzato dalla concentrazione monopolistica dell’economia, dalla apparenze, dunque, l’epoca del liberalismo e della democrazia è chiusa e tutte le rivendicazioni pianificazione a grande scala e diretta dai centri statali. Lo stato politico, che nell’accezione marxista era il comitato di interessi della classe borghese e li tutelava come organo di governo e di polizia, diviene sempre più un organo di controllo e infine di gestione diretta dell’economia.

Basandosi su un consenso strappato alle masse con la forza persuasiva dell’opportunismo sindacale, delle istituzioni ideologiche onnipresenti e onnipotenti (giornali, scuole, istituti di cultura ecc.), questo sistema conduce alle più spietate forme di oppressione e controllo sociale. Nonostante le democratiche, che due secoli fa furono autenticamente rivoluzionarie, ma contro la società feudale, hanno oggi un contenuto reazionario e conservatore, contro la futura società comunista.

[42] Sui rapporti tra la Frazione di sinistra in esilio, Trotzky e il trotzkismo, si vedano tra gli altri “Trotsky et la Gauche italienne”, Programme Communiste, n. 51-52, aprile-settembre 1971; e “Trotsky, la Fraction de Gauche du PC d'Italie et les ‘mots d'ordre démocratiques’”, Programme Communiste, n. 84-85, ottobre 1980-marzo 1981.

[43] A. Peregalli, Il patto Hitler-Stalin e la spartizione della Polonia. Ed. erre emme, Roma 1989, pag. 145.

[44] Cit. in P. Spriano, Storia del Pci, cit., vol. IV, pag. 16.

[45] “Lettere di Spartaco”, sett. 1940, cit. in ... .

[46] La caduta di Mussolini fu concordata da ampi settori della borghesia “fascista” e dell'esercito, e votata democraticamente dal Gran Consiglio Fascista il 24 luglio 1943. Proposte di rimuovere Mussolini erano state discusse anche con gli ex-nemici e neo-alleati anglo-francesi. Con l'arresto del Duce, furono sciolti il Partito nazionale fascista, il Tribunale speciale, lo stesso Gran Consiglio, cioè le strutture più appariscenti del regime. Ma le alte cariche politiche, amministrative, economiche rimasero al loro posto trasformando il rozzo fascismo “plebeo” d'anteguerra in un regime autoritario altrettanto spietato nella repressione antioperaia, come dimostrerà la storia dei mesi successivi.

[47] P. Togliatti, “Alla lotta, alle armi, per la formazione di un governo nazionale provvisorio di pace”, 3 agosto 1943. Da Radio Milano-Libertà, Ed. Rinascita 1974.

[48] P. Togliatti, “La nazione chiede al nostro governo una vera e formale dichiarazione di guerra alla Germania”, 15 settembre 1943, ibid..

[49] Storia della sinistra comunista, vol. I, Ed. Il programma comunista, Milano 1964, p. 97.

[50] Sulle posizioni teoriche espresse da diversi gruppi di opposizione, organizzati in Italia durante le II Guerra Mondiale, si veda ad es. A. Peregalli, L'altra Resistenza. Il PCI e le opposizioni di sinistra 1943-1945. Ed. Graphos, Genova 1991.

[51] “Il partito comunista aveva sempre detto, dall’inizio della guerra, che la questione della monarchia poteva essere lasciata in disparte, se ciò fosse stato necessario per salvare l’Italia da una catastrofe attraverso una larga unione di cittadini di tutte le opinioni politiche”. M. e M. Ferrara, Conversando con Togliatti, Ed. Cultura Sociale, Roma 1953, pag. 318.

[52] A. Natta, “Introduzione” a Togliatti editorialista 1962-1964, Editori Riuniti, 1971, pag. XVI.

[53] G. Dimitrov, Diario. Einaudi, 2002, pag. 693.

[54] Questa citazione (e la seguente) è tratta da P. Togliatti, La politica di unità nazionale dei comunisti, Ed. Robin, Roma, 1999, pag. 24.

[55] Ibidem, pag. 74.

[56] F. Platone, “Vecchie e nuove vie della provocazione trotzkista”, Rinascita, aprile 1945. L'autore di questo linguaggio, oltre ad essere personalità del PCI, era anche cognato di Mario Acquaviva, noto esponente internazionalista che, tre mesi dopo questo articolo, fu ucciso da sicari “comunisti”.

[57] Umberto Terracini, che nel 1921 espose (in modo peraltro piuttosto scorretto) le posizioni della Sinistra davanti a Lenin al III Congresso dell'Internazionale Comunista, venticinque anni dopo era presidente dell'Assemblea costituente e cofirmatario della Costituzione assieme all'ex-fascista Enrico De Nicola e al democristiano Alcide De Gasperi. Vedi U. Terracini, Come nacque la costituzione, a cura di Pasquale Balsamo, Editori Riuniti, Roma 1978.

[58] Giorgio Bocca, Palmiro Togliatti, Ed. Laterza, Bari, pag. 458. La cosa, sia detto esplicitamente, non ci scandalizza. Togliatti fa il mestiere per il quale è pagato, ed è quello di assicurare la continuità nell’apparato dello Stato al passaggio di consegne tra fascismo e democrazia. Per inciso, l’amnistia Togliatti del 22 giugno 1946 sarà estesa anche ai giudici del Tribunale speciale fascista, proprio quello che aveva messo in galera vent’anni prima Antonio Gramsci e poi migliaia non di antifascisti, ma di proletari rivoluzionari che tenevano ben stretta nelle mani la bandiera della lotta di classe. L’altro arnese dell’antifascismo italico, Pietro Nenni, è nominato il 4 luglio 1945 Alto Commissario per la punizione dei delitti e degli illeciti del fascismo, ed ha in consegna gli archivi dei confidenti – le spie – dell’OVRA, la polizia politica fascista. Questi archivi passeranno poi di mano al governo De Gasperi, non prima che alcune voci accusino il Nenni di aver fatto sparire il fascicolo a lui intestato. Una lista viene infine pubblicata il 2 luglio 1946. Dei circa 900 nominativi originali, un terzo è depennato, il resto rimane “negli archivi, al riparo da occhi indiscreti” (M. Franzinelli, I tentacoli dell’OVRA, Bollati Boringhieri 1999, pag. 439).

[59] Fra le tante “confessioni” del periodo, suona ben alta per la cinica motivazione quella di Pietro Secchia, uno dei massimi dirigenti del PC stalinizzato, facile al linguaggio truculento contro i compagni dell’opposizione, che considera a più riprese sulla stampa del proprio partito alla stregua di agenti della Gestapo: “Un po’ di opportunismo c’è in tutti. Non si può sempre gridare la verità o quello che si crede la verità ad alta voce […] Dire al proprio partito quel che si pensa della sua politica significherebbe andarsene ben presto. Certe cose occorre dirle, bisogna dirle, ma con discrezione, al momento opportuno e spesso ovattate […] Tra le due esigenze: dire sempre ad alta voce la verità oppure ovattarla, talvolta tacere, occorre arrivare ad un compromesso”. Cit. in E. Collotti (a cura di), Archivio Pietro Secchia 1945-1973. Annali, anno XIX, Ed. Feltrinelli 1978, pag. 591.

[60] Cfr. Luigi Cortesi, Le origini del PCI, Franco Angeli, Milano 1999.

[61] In questi termini, che non sono di pessimismo rivoluzionario, ma che invece discendono da una lucida analisi marxista della fase storica di riflusso che si era aperta su scala mondiale e che imponeva la resistenza sui programmi invarianti del marxismo, si espresse Amadeo Bordiga in una lettera inviata nell'autunno al comunista di opposizione Karl Korsch, fattosi promotore di un tentativo di riorganizzazione dei gruppi rivoluzionari che non si riconoscevano nella direzione dell'Internazionale Comunista. Questa lettera si può leggere sul n.4 dei “Quaderni del Programma Comunista” (La crisi del 1926 nel partito e nell'Internazionale), Ed. Il Programma Comunista, Milano, aprile 1980, pag. 5-8.

[62] Per una collocazione ideologica di Gramsci nell'ambito dell'idealismo, si veda Christian Riechers, Gramsci e le ideologie del suo tempo, ed. Graphos, Genova 1993. Per una critica marxista alle formule volontaristiche gramsciane, si veda il nostro testo “I fondamenti del comunismo rivoluzionario marxista nella dottrina e nella storia della lotta proletaria internazionale”, il programma comunista n. 15, 1957 (ora in Tracciato d’impostazione. I fondamenti del comunismo rivoluzionario marxista nella dottrina e nella storia della lotta proletaria internazionale, Ed. Il Programma Comunista, Milano 1974.

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