DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

La quota di ricchezza, in scorte e mezzi di produzione, distrutta  in  Italia  dalla guerra è stata notevole.  Secondo le più attendibili valutazioni fatte all'inizio del 1946, i danni di guerra, ivi comprese le perdite di reddito, opere d'arte e persone, non erano lontani dai 9.000 miliardi di lire gennaio 1946.

 

 

Ciò significa la distruzione di una ric­chezza pari a circa la metà del patrimonio nazionale esistente nel 1938. Ma se il va­lore di beni divorati dalla guerra è stato colossale, per il breve spazio di pochi anni, nondimeno il complesso dell'attrezzatura produttiva nazionale è uscito dal conflitto in condizioni di relativa efficienza e il ren­dimento degli impianti era ancora capace di dare delle percentuali di produzione che oscillavano dal 50 al 100% di quelle pre­belliche.

 

È chiaro però che problemi di energia e di trasformazione impedirono fin dall'ini­zio l'utilizzazione di tale potenzialità. Quasi tutta l'industria italiana era indu­stria di guerra o adattata alla guerra. Ora, questo patrimonio è sempre stato tale da esercitare, per influenza di capitali e per complessi di interessi, delle pressioni de­cisive sugli organi governativi. Tutti i go­verni della liberazione non hanno mai osa­to portare attacchi alle posizioni di privi­legio dell'industria pesante in Italia e del mondo finanziario ad essa collegato.

 

 

Alcune industrie, fra cui la metallurgica e la siderurgica, erano diventate, con la fine del conflitto, dei complessi mastodon­tici senza alcuna prospettiva di una pro­duzione di pace. Ma esse rappresentavano degli enormi immobilizzi bancari e le ban­che stesse, a loro volta, erano strettamente dipendenti dalla sorte di queste industrie.

 

 

È facile comprendere perciò come i vari governi si lasciassero persuadere a elar­gire sovvenzioni di diecine di miliardi, re­golarmente ripetute a favore di queste industrie, sotto lo specioso pretesto che la loro integrità serviva a garantire il lavoro a vaste masse di operai.

 

 

In realtà il blocco dei licenziamenti, che fu un tempo presentato dalla Camera del Lavoro come uno dei propri meriti, durò fintantoché durò questa situazione ed in­fatti, appena le industrie pensarono di adattarsi al mercato e di produrre in de­terminate condizioni, esse procedettero ai licenziamenti,  infischiandosi  di  tutte  le quote che la Camera del Lavoro farneti­cava di stabilire.

 

 

Ad ogni modo la fine della guerra pose l'industria italiana di fronte alla necessità di trovare un mercato di sbocco per i pro­pri prodotti ed in un primo tempo abbiamo assistito ad un gran parlare di neces­sità della ricostruzione, che diventava com­pito patriottico e fraterno cui tutti dove­vano sottoporsi e sacrificarsi. Ricostruzione che in sostanza si estrinsecava nella rico­struzione edilizia e che godette un quarto d'ora di celebrità in quanto quasi tutte le grandi industrie pensarono di trasformare gli impianti a questo scopo. Si è visto la Caproni, la SIAI Marchetti ed altre gran­di fabbriche produttrici di macchine bel­liche mettersi a produrre mobili e serra­menti.

 

 

Ma questo zelo e questo entusiasmo si affievolirono  appena  apparve  chiara l'e­strema povertà del mercato italiano e la quasi nulla capacità di acquisto delle mas­se, ridotte al vero stato di “sansculottes” dall'economia di guerra. Nel frattempo la situazione della Teso­reria di Stato era venuta complicandosi sempre di più. Il trapasso sui generis dalla forma “fascista” alla forma “democra­tica” non ha in sostanza alterato nulla della struttura sociale ed economica italiana. Tutta l'impalcatura dei passati privilegi fu mantenuta e riconfermata. I nuovi governi “antifascisti” non facevano che ereditare il patrimonio di debiti, ipoteche, protezioni e mallevadorie fasciste e cercavano di ren­dere accetta la loro comparsa sulla scena attraverso solenni promesse di difendere e mantenere quanto esisteva.

 

 

L'unico  tentativo di ricusare l'eredità del passato fu la peregrina idea del Sin­daco Greppi di Milano che sembrò annul­lare il prestito di 1 miliardo lanciato da uno degli ultimi prefetti fascisti. Dopo es­sere stato coperto di contumelie e addi­tato al pubblico disprezzo,  il  Sindaco Greppi si rimangiava il provvedimento e per contro prometteva il relativo congua­glio degli interessi.

 

 

In conseguenza del concludersi di tutti i fenomeni bellici e soprattutto delle somme che venivano richieste per risarcimento dei danni verificatisi nel corso del conflitto, o per le nuove necessità, la situazione del bilancio di Stato divenne sempre più pre­caria ed il problema di come far fronte alle spese ed evitare la bancarotta è stato in sostanza il problema più angoscioso di tutti i ministeri.

 

 

Ricordandosi di quanto avvenne nel do­poguerra 1918 nelle nazioni vinte, il no­stro governo promise solennemente di evi­tare ad ogni costo l'inflazione, ma è chiaro che evitare l'inflazione significa chiudere in pareggio il bilancio dello Stato, e chiudere in pareggio il bilancio dello Stato non poteva essere fatto altrimenti che ridu­cendo le spese ed aumentando le tasse.

 

 

Ma la riduzione delle spese per i governi democratici non era da mettere nem­meno in discussione. Tutta la passata bu­rocrazia venne considerata un patrimonio della Patria ed inamovibile. Tutti i mini­steri, e principalmente quelli della guer­ra, della marina e dell'aviazione si videro aumentare i loro stanziamenti in confor­mità al nuovo valore della moneta. Nes­suna delle passate uscite riceveva sostan­ziali modificazioni tanto che ancor oggi esiste un Ministero dell'Africa italiana con tutto il suo personale al completo.

 

 

Per contro l'aumento delle tasse vi è stato, ma solo per le tasse di consumo, e siccome la tasse di consumo non possono trarre gran che da una popolazione che ormai non consuma quasi niente, le en­trate dello Stato si sono progressivamente ridotte. Le altre fonti, come ad esempio la confisca dei profitti di regime o di congiuntura, il sequestro dei beni Reali e Princi­peschi, la tassazione dei beni ecclesiastici e delle categorie di lusso, hanno continuato a restare confinate in zone eteree e stratosferiche completamente ignorate ed irraggiungibili da quegli uccelli di palude che sono stati i nuovi ministri.

 

 

La borghesia è stata la classe prediletta dai legislatori fiscali democratici, primo fra i quali Scoccimarro. I sequestri ai beni fascisti sono stati piuttosto delle eccezioni anziché la regola, l'imposta progressiva sul patrimonio, attuata persino da altri go­verni borghesi quali l'americano e l'ingle­se, è stata una cosa minacciata e mai ap­plicata, nemmeno quando non vi erano più fondi in cassa e non si sapeva come tirare avanti.

 

 

L'accertamento fiscale fu trascurato col pretesto che la burocrazia non funzionava, concedendo così completa libertà di azione ai commercianti del mercato bianco e ne­ro. La ricchezza mobile sui salari, invece, le tasse dirette e di scambio, le cosiddette assicurazioni sociali sono state le fonti cui si è unicamente ricorso. E queste erano pagate dal proletariato, che si cullava in una pacifica beozia, fidente di quello che i socialisti e i comunisti dovevano amman­nirgli attraverso le grandi vittorie repubblicane e costituentistiche.

 

 

In ogni caso la grande promessa di te­nere fermo il torchio è stata una pro­messa di marinaio. Il torchio è stato fermo, ma ha avuto degli improvvisi guizzi di tanto in tanto che hanno fatto sì che la circolazione cartacea passasse da circa 300 miliardi, quale era al 25 aprile 1945, a 440 miliardi quale è oggigiorno. E ora le rotture alla regola sono sempre più fre­quenti. In questo solo mese è stata annun­ciata la stampa di 27 miliardi in biglietti da 10 mila e da 5 mila lire.

 

 

Il governo ha nondimeno tirato avanti ricorrendo a vari espedienti, non ultimo quello della vendita dei residuati bellici e quello degli aiuti dell'UNRRA. Ma verso la fine del 1946 queste sor­genti di aiuti hanno cominciato ad ina­ridirsi. Il deficit quotidiano di oltre 1 mi­liardo netto sulle spese e sulle entrate costituisce una macina al collo ed un appe­santimento della situazione che ha impo­sto di ricorrere a disperati appelli perché i cittadini prestassero denaro allo Stato, e di minacciare tasse straordinarie e cambi della moneta.

 

 

L'ultimo prestito ha fornito alcune decine di miliardi di lire di liquido (po­co oltre i 100 miliardi) e questo fatto sembra aver dato dell'euforia al governo tanto da indurlo, per bocca di Scoccimarro, ad esprimere l'opinione dell'inutilità del cambio della moneta. Ma questa euforia è destinata a non durare a lungo. Quos vult perdere Deus amentat. Il problema del pareggio del bilancio si ripresenterà al più tardi entro tre mesi ed entro tale pe­riodo di tempo lo Stato deve trovare altro denaro che evidentemente non può essere che dato da altre tassazioni, le quali a loro volta non saranno certamente appli­cate a scapito delle classi benestanti. Que­ste in ogni caso si apprestano a trasferire sui prezzi ogni eventuale inasprimento fiscale.

 

 

La nostra industria che, come abbiamo visto, si è ritratta dalla produzione desti­nata a soddisfare i bisogni di immediata urgenza nazionale per orientarsi essenzial­mente verso il commercio estero è di nuo­vo in preda a preoccupazioni. Innanzi tutto l'esportazione, fatta come è stata fatta, ha significato un aumento dei costi su scala nazionale in quanto si è rea­lizzata una speculazione sui cambi valutari simile al dumping, e si è determinata una fuga di capitali all'estero per sfuggire alle minacciate proposte di tassazione.

 

 

Ma l'aver prodotto per l'esportazione ha fatto anche sì che l'economia interna italiana non abbia risentito alcun beneficio dalla cessazione delle ostilità e che la precarietà propria dell'economia di guerra si sia protratta nel tempo senza che nessun elemento ricostruttivo abbia effettivamente avuto vita.

 

 

La situazione economica oggi infatti è ben poco diversa dalla fine delle ostilità in quanto, se si è lavorato, si è lavorato per mandare i prodotti fuori; altro fenomeno questo, inscindibile dal nostro capitalismo il quale deve vivere sui profitti che rea­lizza sfruttando il lavoro nazionale, ed es­sendo i lavoratori italiani tenuti a salari di fame esso deve necessariamente cerca­re uno sbocco oltre la cerchia di coloro che sfrutta. Perciò, quando si parla di pa­gare quello che ci manda l'estero col frut­to del nostro lavoro e si dice che noi dob­biamo attrezzarci per lavorare in conto, si vuol dire che noi si deve importare, la­vorare i prodotti importati, e quindi espor­tarli: circolo che garantisce al lavoratore la fatica e al capitalista il profitto. E il capitalista sarà poi pronto ad affermare che in tal modo si evita la morte per fame dei lavoratori, che perciò possono continuare a vivere a condizione che continuino a farsi sfruttare.

 

 

Ma la concorrenza internazionale riap­pare e questa concorrenza è in grado di sbaragliare facilmente l'industria nazionale i cui costi aumentano quotidianamente. (Un altro fattore di gravissima importanza per i prezzi è stato la sospensione degli invii di materiale attraverso l'UNRRA, so­spensione che è bastata a far salire da un giorno all'altro il prezzo del carbone da 3 mila lire a 5 mila lire la tonnellata). L'in­dustria vede ridursi il mercato e senza mercato di sbocco non vi è reddito, senza reddito niente tasse: e il gettito delle im­poste infatti diminuisce.

 

 

È evidente che in questo stato di cose basta un nulla per precipitare l’industria e lo Stato italiani nella più completa ban­carotta. Di conseguenza il padre adottivo del capitalismo italiano, il capitalismo ame­ricano, ha mandato a chiamare il suo “va­let de chambre” De Gasperi per addolcire la situazione e concedergli, attraverso un prestito, la possibilità di superare il disa­stro imminente. Questo è il vero significato del viaggio di De Gasperi a Washington e questo è il tanto gabellato successo della sua diplomazia.

 

 

Lo stesso esperimento venne a suo tem­po fatto con la Germania attraverso i fa­mosi piani Jung e Daves che diedero respiro alla Germania per qualche anno. Ma la Germania riuscì ad ottenere prestiti dall'estero in quanto l'America allora era in una condizione pletorica di capitali ed in quanto la Germania aveva ancora una po­tenzialità di esportazione considerevole.

 

 

Invece l'Italia non è la sola a voler oggi i capitali americani, i quali sono febbrilmente richiesti dall'Inghilterra, dalla Rus­sia, dalla Francia. dalla Cina ecc. ecc. Infatti la quota destinata all'Italia è inferiore a tutte le altre recentemente concesse dagli Stati Uniti e per contro l'Italia vede svanire la sua capacità di esportazione. Ma non è tutto qui, chè l'America baratta questo aiuto imponendo il completo as­servimento dell'Italia all'imperialismo del dollaro.

 

 

L'adesione  dell'Italia  agli  accordi  di Bretton Woods significa la determinazione di un nuovo cambio per la lira italiana e significa l'impegno dell'Italia di accettare un’economia di scambio multilaterale e ba­sata su un sistema flessibile aureo in cui essa evidentemente navigherà a mal par­tito.

 

 

Questa nuova situazione e la necessità del capitalismo di dare nuova lena alla corrente esportatrice dell'industria italiana, sfruttando i nuovi cambi, non potranno fa­re a meno di far sentire i loro effetti sui prezzi nazionali che sono destinati a su­bire un aumento costante, che minaccia di diventare vertiginoso se le necessità di bi­lancio dovranno togliere ogni freno al tor­chio monetario.

 

 

Aumenti di prezzi, quindi, quale risul­tato dei cambi internazionali, della specu­lazione sul commercio estero e del deficit della tesoreria, che dovrebbero essere digeriti dalle masse di lavoratori italiani con la stretta osservanza della famosa tregua sottoscritta dalla Confederazione Generale del Lavoro.

 

 

De Gasperi ormai apertamente minaccia ogni rottura della “solidarietà nazionale”. Vi può essere nelle intenzioni di Togliatti di sfruttare questo stato di cose per assumere di nuovo l'apparente ruolo di cava­liere di San Giorgio per la difesa degli interessi del proletariato, ma la situazione imporrà a lui ed ai suoi avversari di go­verno di adeguarsi alla realtà e di scen­dere fino in fondo nella loro azione di op­pressione combinata delle masse e di di­fesa degli interessi capitalisti.

 

 

Questi interessi sono gli unici che hanno continuato imperterriti a mantenersi intatti e indisturbati anche quando palese­mente appare che minacciano di scardi­nare fin le più elementari basi del vivere civile. Indicativo a questo riguardo è quan­to accade nel campo dell'energia elettrica, settore, a parer nostro, gravido di sviluppi e di conseguenze, capace di far ripercuotere la sua crisi in tutti gli altri settori.

 

 

Non solo infatti l'energia elettrica è or­mai diventata una necessità inderogabile della produzione moderna, ma essa richie­de molto tempo per essere provveduta. In Italia invece gli impianti di energia elet­trica, dal termine della guerra ad oggi, non hanno quasi più avuto manutenzione ed i nuovi impianti sono in gran parte ancora da decidere.

 

 

Le ragioni di questo stato di cose ven­gono candidamente confessate dagli indu­striali dell'energia elettrica, i quali affer­mano che il governo non avrebbe dovuto parlare di nazionalizzazione delle industrie elettriche e soprattutto non avrebbe dovuto parlare di limitazione negli utili di queste industrie.

 

 

Perciò, per mettersi a curare la manutenzione degli impianti esistenti cd a co­struirne dei nuovi, essi esigono che il go­verno cessi di parlare di nazionalizzazione, dia l'esenzione dalle tasse e tolga il blocco dei prezzi dell'energia elettrica. Il Gover­no non può cedere immediatamente perché le conseguenze di un aumento di prezzo dell'energia elettrica (si parla di 25 lire il kw.) può significare non solo il buio nelle case delle masse, ma il chiaro sul suo vero ruolo di difensore dei dividendi degli azionisti delle compagnie di energia elet­trica; ma è ugualmente evidente che la paralisi generale risultante da queste fat­to, paralisi cui non si potrà ovviare in me­no di una o due anni, a sua volta dimo­strerà il valore operettistico delle dichia­razioni che vengono fatte sulle intenzioni di nazionalizzare i servizi di cosiddetta in­teresse generale.

 

 

In realtà le nazionalizzazioni vengono fatte solo allorché la branca sottoposta alla cura o lasciata a se stessa, fallirebbe e l'intervento dello Stato rappresenta così un salvataggio in extremis degli interessi capitalisti ivi investiti. Come si vede i fatti sono sufficiente­mente eloquenti di per se stessi, e se an­cora qualcuno non riesce a vederli, non è certo cosa che testimoni a favore della sua intelligenza.

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