DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

 

16. La statistica delle imprese

Questo altro indice è forse ancora più difficile da seguire, per la complicazione dello smistamento delle aziende in grandi, medie, piccole, che finiscono col disperdersi in forme semicapitaliste-semiartigiane. D'altra parte, per la legge delle concentrazioni, gli scaglioni più alti per numero di dipendenti sono poi più bassi per totale di dipendenti e quindi per totale di prodotti e loro valore.

Secondo alcuni testi la Russia del 1725 avrebbe avuto solo 233 fabbriche, secondo altri tra 100 e 200. Nel 1767, con la popolazione di appena 25 milioni, sarebbero state tra 650 e 700. Nel 1795, duemila: un terzo di esse apparteneva a nobili. Altra notevole parte allo Stato stesso: ultima ad industrializzare è la poco rilevante borghesia. Nella prima metà dell'Ottocento fu il capitale straniero ad essere chiamato a fondare industrie: il tedesco Knopp importò le macchine per ben 122 filature in dieci anni. Secondo altri dati, dal 1865 al 1900 le fabbriche si sarebbero quadruplicate, al 1906 più che sestuplicate (anche da queste cifre il tasso di aumento nel quarantennio risulta circa 4 e mezzo per cento).

Una statistica data da Trotsky indica, al 1905, circa 35 mila aziende, ma quelle con oltre 50 lavoratori sono soltanto 6300[1].

Altre cifre renderebbero forse le cose non chiare. Ma quelle che veramente interessano sono appunto le caratteristiche singolari del crescere dell'industrialismo in Russia.

È il potere centrale l'artefice del movimento industrializzatore. Pietro il Grande (non dunque a torto il presente regime russo si orienta verso l'esaltazione di antiche glorie nazionali, che sembrano costituire indirizzi tradizionali dell'economia!) nel 1720, fra altre riforme sociali che riordinano dall'alto gli strati della società rurale ed urbana, estende agli industriali il privilegio nobile di tenere servi. Analogamente erano servi i lavoratori delle fabbriche di Stato, dei monopoli (sale, potassa, resine, tabacchi) e delle officine e arsenali militari. Principio dunque del lavoro manifatturiero coatto, della deportazione di lavoratori della gleba alla manifattura. Feudalismo di stato, industrialismo di stato. Qui forse le radici del socialismo fasullo?

I nobili possedevano su dono degli zar non migliaia di desjatine, ma migliaia di servi, cui la legge vietava di possedere terra. Un favorito di Elisabetta II (1746-62) giunse ad averne 120 mila!

La grande Caterina, poi, nel 1764, chiuse 242 conventi su 413, fece murare vivo un arcivescovo che protestava e passò allo Stato il milione di servi di quei conventi. Non per niente aveva un debole per Voltaire … e andò ben oltre le leggi successive dei liberali occidentali contro le congregazioni religiose e la manomorta.

Tuttavia, sempre allo stesso fine dello sviluppo di una potenza manifatturiera, si invertì poi la politica economica del lavoro forzato. Si avvicinava l'esigenza dell'emancipazione rurale, tutt'altro che uscita da una pressione di masse contadine, di cui rovinò, come sappiamo, le condizioni materiali. Nicola I nel 1832 creò una classe di onorevoli borghesi. Nel 1840 autorizzò per legge i fabbricanti non nobili che avevano operai servi ad affrancarli. Si imponeva la superiorità tecnica di usare manodopera libera.

Con tutta questa catena di provvedimenti di autorità, l'industria russa nasce come grande industria: la sua concentrazione, come Lenin e Trotsky dimostrano molte volte, è non solo pari ma molto superiore, nella seconda metà e fine dell'Ottocento, a quella di paesi europei avanzati come Belgio e Germania.

Essa non sorge, come in Occidente, inghiottendo un vasto artigianato, ma crea e incoraggia indirettamente nelle città una industria minima e artigiana. Tuttavia a breve distanza dalla grande rivoluzione questo apparato produttivo, in un paese che va verso i 150 milioni di abitanti, è ancora molto indietro rispetto ai paesi del classico capitalismo "liberale".

Trotsky ci fornisce un dato sintetico, la cui analisi non è qui il luogo di ricostruire. Nel 1900 le industrie russe producevano merci per due miliardi e mezzo di rubli contro i 25 miliardi degli Stati Uniti[2]! Eppure questi avevano allora 75 milioni di abitanti; quindi l'indice per persona era venti volte maggiore.

Pensiamo che oggi tale indice, come altri relativi al ferro, al carbone, ecc. non sia lontano, e sia al più doppio negli Stati Uniti rispetto alla Russia. Difficile dare i valori in congrue unità monetarie del totale dei manufatti in un anno: assumiamo che negli Stati Uniti sia più che doppio di allora e – forse – più che doppio che nella Russia attuale.

In altra esposizione tenteremo di sondare l'equazione: Russia 1950 uguale America 1900. Rapporto quantitativo tra analoghe qualità. Bel cambio della guardia.

 

17. Composizione della popolazione

In questa schematica presentazione del corso del capitalismo in Russia, come numero e potenza di imprese, reti dei trasporti, volume della produzione delle cosiddette industrie chiave, è tempo di venire al contropersonaggio che il capitale chiama sulla scena con sé: la classe operaia, che faticosamente si enuclea da una popolazione immensa e diversa, complessa oltre ogni dire negli ingredienti che la costituiscono sia per razza e lingua, sia per schieramento sociale. «5,4 milioni di chilometri quadrati in Europa, 17,5 milioni in Asia, 150 milioni di abitanti. Su questa immensa distesa si ritrovano tutte le epoche della cultura umana: dalle condizioni di vita selvagge e primitive delle foreste settentrionali, dove l'indigeno si ciba di pesce crudo ed innalza preghiere ad un ceppo d'albero, fino alle nuovissime condizioni sociali della città capitalistica, dove l'operaio socialista sente di avere una parte attiva nella politica internazionale e segue con ansia lo sviluppo degli avvenimenti nei Balcani, oppure i dibattimenti al Reichstag. L'industria più concentrata d'Europa sullo sfondo dell'agricoltura più arretrata. La più gigantesca macchina statale del mondo, che si serve di tutte le conquiste della tecnica moderna per frenare il processo storico del proprio Paese»[3]. Chi meglio di Trotsky poteva dirlo?

Le cifre che vogliono indicare la potenza numerica del proletariato sono a loro volta difficili da paragonare nei vari tempi, se si comincia da servi di officina e si va a finire a moderni proletari, comprendendo a volte solo le grandi fabbriche, a volte le piccole aziende, a volte minuti lavoratori tra salariati e stipendiati. Ma anche qui il continuo progresso è evidentissimo.

Abbiamo già citato le cifre di 700 mila proletari nel 1865 (su forse 70 milioni di abitanti) e 1.400 mila nel 1892 (su 113 milioni). Nel 1900, con la popolazione di oltre 120 milioni, si parla (Storia del Partito bolscevico) di 2.800 mila di cui 2.200 mila nei soliti 50 governatorati della Russia d'Europa[4]. La sintetica presentazione di Trotsky ci indica tutti i lavoratori di ambo i sessi in ben nove milioni e più al 1897, ma di essi solo poco più di 3 milioni sono operai dell'industria grande e piccola, 1 milione lavoranti a giornata e semiartigiani, oltre 2 milioni domestici, portieri e garzoni, e infine quasi 3 milioni agricoli o lavoratori della caccia e pesca di cui consideriamo che solo una parte minore fosse di veri salariati[5]. Queste sono le cifre della "popolazione attiva", a cui bisogna aggiungere i componenti improduttivi delle rispettive famiglie. Occorre che la popolazione non attiva sia considerata circa quadrupla, e quindi di 38 milioni, per convalidare la valutazione di Trotsky (che ci pare senz'altro eccessiva, tanto più al 1897) di un proletariato pari ad oltre un quarto della popolazione.

Più attendibile è certo il rapporto che dà Lenin per la stessa epoca, 1/6 di popolazione industriale contro 5/6 di agricola[6].

Le contraddizioni, del resto, dipendono dai criteri che vengono applicati, e nel seguito ci serviremo di una analoga analisi fatta per vari paesi all'inizio della trattazione Vulcano della produzione o palude del mercato?[7] Nel selezionare tra la parte di popolazione che risponde al modello capitalista "puro" e la massa delle classi "spurie", ossia unendo al proletariato le bassissime cifre di datori di lavoro e proprietari fondiari non lavoratori, indicammo per l'Italia 1/3 puri e 2/3 circa impuri; considerammo che il massimo in Gran Bretagna è circa metà e metà. Con le cifre che si possono avere dell'U.R.S.S. quale la si considerava dall'estero nel 1926, l'indice di purezza era molto basso, la parte industriale della popolazione solo il 15 per cento. La produzione capitalista rappresenta ancora una piccola parte della società russa.

Non solo la Russia è capitalista, ma ha ancora molto cammino davanti a sé per divenirlo non in toto, ma nella rata dell'Occidente.

Appunto per questo la sua corsa all'accumulazione tiene il massimo ritmo nel mondo capitalista di oggi. Ma una rivoluzione che veramente sia internazionale può, anche allo stato attuale delle cifre, stroncare il vecchio capitalismo in Occidente e il giovane in Oriente, impedire loro che sconciamente coesistano.

Sono i conti "politici" che non tornano.

 

18. Forza della classe operaia

Nell'aggiornare tra il 1875 e il 1894 il suo scritto sulla Russia sociale, Engels, che tanto insiste sul procedere sempre più risoluto delle forme economiche capitalistiche, non fa, si può dire, cenno delle prime manifestazioni della lotta di classe dei lavoratori dell'industria.

Eppure è ormai a tutti noto che già in quel periodo il proletariato delle grandi città aveva dato indiscutibile segno di vita, attirandosi spietati colpi dal potere politico assolutista.

Fino al decennio 1870-80 negli stabilimenti militari si lavorava oltre 12 ore, e nell'industria tessile anche 13 e 14, al giorno. Il tasso dei salari, l'impiego di donne e di fanciulli, ripetono nella loro storia, insieme ad ogni altra condizione del lavoro di fabbrica, la tragedia del proletariato inglese del '700 e primo '800 descritta da Engels e Marx. Si ebbero movimenti di tipo "luddista", ossia di distruzione delle macchine e delle fabbriche stesse. Le organizzazioni di difesa e di lotta fecero la loro apparizione: nel sud col 1875, nel nord col 1878 (Odessa, Pietroburgo).

Gli organizzatori, alcuni dei quali erano vissuti all'estero, avevano avuto contatti con la I Internazionale e con lo stesso Marx. Tra l'80 e l'85 si ebbero grandi scioperi, memorabile quello, finito con centinaia di arresti e con un grande processo, della fabbrica Morozov contro il ribasso delle mercedi e le multe.

La storia di questo erompere della lotta operaia segue fino alle epiche lotte del 1904 e 1905, dove sono già milioni i lavoratori dei grandi centri che scendono in lotta, e dove si giunge direttamente allo sciopero generale politico in una intera città, e in tutto il paese, con formidabili azioni insurrezionali, che si scontrano con la feroce repressione della polizia e dell'esercito.

Mentre in Occidente lo sciopero generale rivoluzionario è ancora una questione discussa dai partiti più che un'effettiva arma di lotta, il 1905 russo viene a sancire la storica importanza di questo primario mezzo di battaglia del proletariato.

Man mano quindi che si avvicinava il momento della immancabile rivoluzione antizarista, con lo stesso ritmo con cui cresceva la forma capitalistica di produzione si elevavano i formidabili effettivi della classe operaia urbana nelle città di Russia, che proprio in quell'epoca avevano preso ad ingrandire con la velocità caratteristica del tempo borghese. Tutte le città russe nel 1850 non davano che tre milioni e mezzo di abitanti; nel censimento del 1897, erano a 17 milioni. Mosca nel 1870 aveva 600 mila abitanti, nel 1905 un milione e 400 mila.

Il 3 gennaio 1905, a Pietroburgo, scoppiò lo sciopero nelle officine Putilov. Alla tragica domenica 9-22 gennaio, in cui i dimostranti trascinati inermi dal pope Gapon furono falciati dalla mitraglia ai cancelli del palazzo imperiale, erano 150 mila gli scioperanti in Mosca. Nella successiva ondata di ottobre furono altrettanti, ma tutta la Russia scese in lotta, e si fermarono i 750 mila ferrovieri. Il 21 dicembre, 100 mila lavoratori a Pietroburgo e 150 mila a Mosca scesero ancora nelle strade: il 30 dicembre la storica insurrezione – la Prima Rivoluzione Russa – era schiacciata.

Quale dunque il volume delle forze, provate ormai alla guerra di classe, del proletariato russo, allo scoppio della prima guerra mondiale e nell'anno del crollo dello zarismo, 1917? Trascurabile, forse, a fronte della marea rurale che ondeggiava bensì esasperata ed irrequieta, ma che solo passata nel vortice dell'industrialismo urbano e della mobilitazione al fronte poté dare combattenti decisi alla guerra civile?

 

19. Confronto con l'Italia

Vogliamo tornare su qualche confronto prima di lasciare l'argomento degli indici dello sviluppo economico-sociale e giungere alla conclusione sulle forze e gli indirizzi politici; poiché su concetti essenziali si deve molto insistere.

Nell'odierna Italia, stando ai dati del censimento 1951, col quale si è cercato di rilevare le attività economiche e le professioni, e si sono inoltre sottoposte a indagine tutte le aziende private di industria, commercio e servizi in genere, si ha la seguente struttura.

La popolazione residente è di 47.138 migliaia. Quella che si chiama popolazione attiva, o meglio atta al lavoro (ossia "le forze di lavoro" di ambo i sessi e di ogni età), si stabilisce nel numero di 19.358 migliaia, ossia il 41,1 per cento del totale. Le cifre ufficiali la distinguono in occupata e non occupata, e la prima scende a 18.072 migliaia, ossia al 38,4 per cento della popolazione: il resto, il 61,6 per cento, è improduttivo, o perché non trova da impiegare la sua capacità di lavoro, o perché età, sesso, invalidità, lo privano della capacità stessa.

Con tali cifre ufficiali, i disoccupati sarebbero solo 1.286.000: in effetti sono oggi oltre due milioni, ed erano al 1951 quasi tanti. Probabilmente, se ne deve concludere che gli attivi di fatto sono circa il 39 per cento, le forze di lavoro sono almeno il 43 per cento (20 milioni al 1951).

Ora il censimento industriale ha dato 4 milioni di addetti, oltre a 1.450 migliaia nel commercio e circa 1.000 nei trasporti e servizi vari. Sono in tutto 6.482 migliaia, ossia il 13,5 per cento della popolazione e proprio un terzo della totale popolazione attiva.

Con questo calcolo non abbiamo però tenuto conto dei proletari delle aziende rurali a tipo industriale, che in precedenti indagini assumemmo nel 4/10 degli addetti all'agricoltura, tratti dai dati del censimento antebellico 1936; il che ci condusse al rapporto: industria, un terzo; agricoltura non capitalistica e altre forme intermedie, due terzi[8].

In effetti, dai dati del censimento industriale ultimo, per avere i proletari dovremmo togliere gli alti impiegati, che ci condurrebbero ad assottigliare soprattutto di molto i settori, inglobati, del commercio e dei servizi e trasporti.

Deve quindi ritenersi adatto all'Italia di oggi, a parte analisi in altra sede, l'indice sempre dato di un terzo, come saggio di purezza capitalistica.

In effetti nel 1936 si censirono le dichiarazioni di professione, più che l'appartenenza di impiego alle aziende; si ebbe il 43,5 per cento di attivi (su 42.444 migliaia), ossia 18.412. Gli operai e assimilati furono 6.925 mila, di cui 2.378 nell'agricoltura. Ma gli assimilati agricoli comprendono le "figure miste" ed è criterio troppo largo, sicché giungiamo alla conclusione che i veri proletari erano poco più di sei milioni, dunque un terzo degli "attivi", anche allora.

 

20. Dove va la Russia?

Ma veniamo alla Russia. Lenin fece un minuto spoglio del censimento 1897 e concluse per il saggio di 1/6 di popolazione industriale[9]: quindi possiamo stabilire che la Russia della fine secolo era di metà inferiore all'Italia d'oggi quanto a capitalistico tono.

Abbiamo detto che troviamo alte cifre di Trotsky per il 1905: esse sono tratte dal confronto della popolazione "industriale" di città e campagna, che tralascia le classi spurie, ossia la gran parte della popolazione russa.

Seguiremo la via dell'indice di sviluppo del capitalismo. È assodato che verso il 1900 vi erano già 3 milioni di operai della grande industria, adeguabili ad almeno il 50 per cento in più con le aziende minori e quelle di campagna; quindi 4 milioni e mezzo. Possiamo ritenere che, nei quindici anni fino alla guerra, come si è circa raddoppiata in volume la produzione industriale, altrettanto sia avvenuto nella "armata del lavoro". Ed infatti per andare in quindici anni dall'indice di produzione 100 a 200, occorre proprio l'incremento annuo del 5 e mezzo per cento calcolato da Varga per la Russia e per il dato periodo.

Poniamo dunque, in cifre largamente approssimate, che la Russia avesse al 1914, e praticamente fino al 1917, anno della rivoluzione, 140 milioni di abitanti; una popolazione attiva bassa, ossia del 25 per cento circa, dunque di 35 milioni di abitanti; e 9 milioni di proletari, pari ad un quarto circa del totale degli attivi.

Una decina di milioni di proletari è quanto basta per smuovere 140 milioni di abitanti, per due terzi fuori del cerchio della moderna fornace di vita. Contro ad essi, nel nostro piccolo ma più sviluppato paese, si hanno 6 milioni di proletari. L'indice di Lenin di un sesto era passato, al momento dellagrande rivoluzione, almeno a un quarto.

Non era il nostro, di un terzo. Non era quello inglese, o americano, di un mezzo. E più che sufficiente per insistere nel volgere le spalle all'insulso cliché della rivoluzione di contadini, eretta a maestra del mondo moderno. Ma, ricordando poi che le mal note statistiche 1926 sembravano abbassare ancora il saggio industriale, deve considerarsi che dopo i disastri della guerra esterna e civile la ripresa fu lenta, e la precedette un notevole indietreggiamento. Da allora la industrializzazione è continuata, con forme e indici squisitamente capitalistici, e continua tuttora; prende espressione concreta la nostra nota formula: la Russia non tende al socialismo, ma al capitalismo, girando la ruota in avanti[10].

 

21. I movimenti politici

Nella immensità di materiali – diffusi in tutti i modi in tutto il mondo nell'ultimo quarantennio – sulla storia della lotta politica russa, senza nemmeno pretendere di dare la cronologia e lo schieramento dei movimenti e dei partiti ci interesserà soprattutto quanto fa vedere come, nel corso dell'evoluzione sociale, si costruisca il partito della classe operaia rivoluzionaria.

Dire degli altri partiti ci preme solo in quanto non vi è migliore via, per definire in tutta luce la linea del nostro movimento, che fare il bilancio delle sue battaglie teoriche e di azione contro i movimenti che se ne andarono differenziando, e soprattutto contro quelli che si allontanarono per la vitale feconda via delle scissioni, delle selezioni che eliminarono in tappe successive scorie e rifiuti.

Qui la storia del partito che condusse la Rivoluzione russa ha dato uno dei principali contributi su cui la presente esposizione tende a convergere. Questi contributi sono per noi principalmente due: la distruzione, prima dottrinale, poi materiale, di tutti i partiti dissidenti, passati in serie continua alla controrivoluzione la liquidazione disfattista della guerra nazionale. Non solo questi due risultati storici positivi hanno maggior peso che un terzo risultato, ossia la vantata costruzione del socialismo in Russia che è mancato in pieno; ma (diciamolo ancora e subito) questo terzo obiettivo non aveva senso storico marxista. Pensammo e lottammo dal 1917 alla distruzione del capitalismo internazionale e alla vittoria del socialismo, come un terzo obiettivo dopo i due: disfattismo e liquidazione della guerra a scala europea annientamento alla stessa scala di tutti i partiti rinnegati e socialtraditori, anche se operai. Mancati, in questo più vasto campo, tali due risultati indispensabili, non si pose più la prospettiva storica di erigere socialismo in Europa, e tampoco in Russia, perché la società socialista come modello da esposizione la consideriamo insulsaggine dai primi balbettii della nostra scuola determinista[11].

La politica rivoluzionaria non è blocco, ma selezione. Lenin premise a Che fare?, nel 1902, un brano di lettera di Lassalle a Marx: «La lotta nel partito dà al partito forza e vitalità: la maggior prova di debolezza di un partito è la sua dispersione, la scomparsa di barriere nettamente definite; epurandosi, un partito si rafforza»[12].

Ciò che era enfasi in Lassalle, era profondità nel suo corrispondente del 1852, che a suo tempo, con infallibile bisturi, segnò l'epurazione dal lassallismo stesso.

Patiti del Lenin scissionista a vita, sembrò che noi, gruppo della sinistra italiana, non lo fossimo del preteso Lenin compromessista. Ma in Lenin l'arma del compromesso era impugnata per disperdere i partiti affini-nemici; se ci avesse convinti che i calcoli di progetto tornavano – talvolta forse riporteremo le testuali citazioni degli anni 1920-26 – saremmo stati con lui nello scopo comune. I calcoli, purtroppo per lui e per noi, non sono tornati.

Maledetti noi, avevamo ragione.

La nostra continuità in questa posizione può trovarsi nella seconda parte delle tesi della Frazione Comunista Astensionista, formata in Italia nel 1919 col fine della costituzione del partito comunista; parte dal titolo: "Critica di altre scuole"[13].

Il metodo ci valse la sicura nostra distinzione, dinanzi alle tante sballate critiche rivolte all'astensionismo elettorale, da anarchici, da sindacalisti alla Sorel, da rivoltosi alla Blanqui, da eroicisti e putschisti, da operaisti di sinistra, da scissionisti e settari sindacali, da élitisti di ogni tipo.

 

22. Partiti delle classi abbienti

Lenin in un articolo del 1912[14] ci dà uno scorcio dei partiti della III Duma di Stato riferiti alle loro basi sociali. Le cifre poco interessano, fra l'altro in quanto la legge elettorale era fatta in modo da lasciare seggi multipli alle "curie" delle classi ricche di città e di campagna.

L'estrema destra era la "Unione del popolo russo", partito dell'autocrazia e della nobiltà, fautore del dispotismo e dell'oppressione delle razze e nazionalità soggette. Era l'espressione, oltre che dei nobili, dei proprietari fondiari, della chiesa ortodossa e dell'alta burocrazia; coincideva con la reazionaria banda dei "cento neri". Dopo costoro vengono i "nazionalisti", altrettanto conservatori, nemici sia degli allogeni e non ortodossi, sia dei democratici.

Al centro sono gli ottobristi, liberali fautori della più larga Costituzione largita sotto la pressione delle lotte del 1905, modificata poi con la legge elettorale del 1907. Tale partito rappresenta proprietari fondiari borghesi e industriali capitalisti; a parole difende la libertà, ma appoggia tutte le misure contro i movimenti operai.

Seguono a sinistra i cadetti, dalle iniziali del nome Costituzionali Democratici. Questo partito dei borghesi monarchici liberali si definisce «partito della libertà del popolo», ma fin dalla I e II Duma, in cui prevalgono, sono pronti ai compromessi con la destra. Lenin li chiama liberali controrivoluzionari. Da essi non differisce il partito "progressista", che non giunge nemmeno alla richiesta del suffragio universale.

La sinistra, numericamente assai esigua, è formata da varie sfumature dei gruppi popolari nelle campagne – detti populisti, trudovikí, socialisti rivoluzionari, ecc. –, e dai socialdemocratici, partiti dei quali diremo ora con un poco più d'ordine storico. I populisti di sinistra, gli S.R., sono in questa Duma otzovisti, cioè ne hanno boicottato le elezioni (ciò che Lenin in quella fase avversa). Lenin considera tali partiti realmente democratici, in quanto lottano decisamente contro l'autocrazia e la monarchia, ma val la pena di anticipare il giudizio col quale egli condanna il loro programma antirivoluzionario, di cui per decenni ha sviluppato la più profonda critica:

«Essi si servono tutti volentieri delle frasi socialiste, ma ad un operaio cosciente non è permesso sbagliarsi sul significato di queste frasi. In realtà in nessun "diritto alla terra", in nessuna "ripartizione egualitaria della terra", in nessuna "nazionalizzazione della terra", vi è un grano di socialismo. Questo lo deve comprendere chiunque sa che l'abolizione della proprietà privata della terra e la sua nuova ripartizione, fosse anche la più giusta, non solo non intaccano la produzione mercantile, il potere del mercato, del denaro, del capitale, ma, al contrario, li sviluppano ancora più largamente»[15].

Sono queste le posizioni che i marxisti devono penetrare. Nel seguito e altrove Lenin considera utile l'azione per una riforma democratica terriera in popoli e paesi agrari; di più, discute l'impegno degli stessi socialdemocratici, e bolscevichi, ai vari fini: spartizione, nazionalizzazione, municipalizzazione, con la critica più profonda alla luce della lotta programmatica contro il capitalismo urbano industriale. Ma stritola queste ideologie nei programmi dei contadinisti perché in essi non agiscono da mezzo per istradare la rivoluzione, bensì da pesante barriera sul suo vero cammino.

Programmaticamente, in agricoltura, ciò che noi vogliamo non è una diversa titolarità della terra, la sua distribuzione, o quella stessa dei suoi prodotti, ma la distruzione della forma mercantile e monetaria. L'agricoltore nella società socialista non avrà soddisfatta "fame di terra", in quanto le derrate prodotte non sarà lui a mangiarle, e tanto meno a venderle.

 

23. Partiti popolari e partiti operai

Quando l'Occidente tra il febbraio e l'ottobre del 1917 apprese uno dopo l'altro il nome di tanti partiti (non era certo un fenomeno soltanto russo se, ad esempio, in Francia non da molti anni si erano unificati ben cinque partiti socialisti con diversi programmi e dottrine; e soprattutto per questo la confusione e l'impotenza operaia sono ivi croniche), un senso di smarrimento si diffuse.

L'uomo della strada, se era conservatore, ebbe un sorriso di compatimento e aspettò che si mangiassero tra loro e tutto finisse: se era di simpatie rosse, fece i più trepidi voti per una pronta affasciatura di forze così divise.

Non era certo facile orientarsi, e confesseremo lealmente che quando, vari anni prima della rivoluzione, un amico russo anarchico ci qualificò con tono ufficiale la sua giovane compagna come una "socialista-rivoluzionaria-terrorista", noi, marxisti in erba, la guardammo come un modello quasi irraggiungibile di "sinistrismo". Seguendo la storia della scissione tra i "populisti" si può ora pesare esattamente quella qualifica, di una sottospecie per nulla marxista, cui poi appartenne la Kaplan, che sparò - da destra - nella spalla di Lenin[16].

Bisogna dunque cominciare ab ovo a sondare i vari movimenti russi di opposizione, più o meno poggiati su contadini e poi operai, e sarà utile spigolare anche nella bella sintesi cronologica del (non molto bello) volume di Trotsky dal titolo Stalin[17].

Ricordiamo che un movimento, che non veniva dalle file del popolo, ma tuttavia andava oltre le numerose storiche congiure di corte, fu quello che va sotto il nome di "decabristi", gruppo di ufficiali e giovani nobili che nel dicembre 1825 tentò di rovesciare il potere dello zar Nicola I, al momento della successione ad Alessandro, il rivale di Napoleone I, rifiutando di giurargli fedeltà e tentando di imporre una costituzione. Dei quasi trecento processati ne furono condannati a morte trenta: cinque vennero impiccati, gli altri deportati in Siberia. Il poco rilevante episodio servì di tradizione ai liberali intellettuali.

Prima del 1870 tra le classi popolari non si erano ancora formati partiti veri e propri, e prevalevano le tendenze anarchiche e libertarie aventi per maestro e capo Michele Bakunin. Le spinse all'estremo il neciaevismo (termine appaiato all'ingrosso a quello famoso di nichilismo che terrorizzava la borghesia di Occidente e che, in effetti, nulla significava), così detto da Nečaev, processato e condannato ai lavori forzati nel 1873, morto dieci anni dopo in
carcere, che lo predicò e praticò non solo come terrorismo individuale, ma come impiego di tutti i mezzi fino al ricatto e al "doppio gioco" – un precursore – con i peggiori arnesi di polizia.

Non manca di valore il rilievo di Trotsky che Marx fu indotto a lasciar sciogliere in Europa la I Internazionale, piuttosto che dare gioco a tali indirizzi disperati, che sembrano estremi ma sfociano fatalmente nella capitolazione davanti alle ideologie reazionarie. Lo stesso Bakunin dovette a sua volta sconfessare Nečaev.

Ma a questo punto appare la forza nuova, il populismo. Sono dapprima elementi della giovane cultura borghese che fondano il movimento "Andare al popolo", senza tuttavia trovare seguito tra lavoratori di città e campagna.

Ma nel 1875 il periodico Nabat (Campane a stormo), diretto da quel Tkaciov che ci è noto per la polemica con Engels, lancia l'idea di un movimento contadino diretto a prendere il governo del paese mediante un'azione rivoluzionaria: programma nettamente politico.

È nell'anno successivo che si organizza il partito dei narodniki (popolari, populisti) col motto Zemljá i Volja, ossia Terra e Libertà. Questo partito non si limita all'agitazione politica, ma incita al terrorismo individuale contro gli agenti e le forze statali.

Nel 1877 cinquanta populisti vengono processati. Ma intanto il movimento risponde con gli attentati: il 24 gennaio 1878 cade il governatore di Pietroburgo, generale Trepov, sotto i colpi della Vera Zasulič, passata poi al marxismo e traduttrice, come si sa, del Manifesto. Essa ripara all'estero, e con lei il suo compagno di partito principe Kravčinski, che aveva soppresso il generale Mezencev, capo della gendarmeria.

Nel 1879 (anno della nascita tanto di Stalin quanto di Trotsky: Lenin era nato nel 1870) il partito populista, potente e diffuso in tutta la Russia, si trova già di fronte alle questioni di metodo: il comitato segreto della Narodnaja Volja (Libertà del Popolo) conduce la lotta terrorista, mentre una corrente di propagandisti segue Georgij Plechanov, che pochi anni dopo diviene, come poi fu detto, "il padre del marxismo russo". Nel 1881 il comitato esecutivo del partito riesce a far "giustiziare", come già detto, Alessandro II.

 

24. Il marxismo appare

Il 24 marzo 1870 in un messaggio alla sezione russa della I Internazionale (in effetti, come in altre sezioni d'Italia, Spagna, ecc. si trattava di anarchici) Marx scrisse: «anche il vostro paese comincia a partecipare al movimento generale del secolo»[18].

Nel 1872 appare la traduzione in russo del primo volume del Capitale, uscito in tedesco cinque anni prima: in realtà raggiunge un pubblico di studiosi più che di militanti di partito. Il Manifesto del Partito comunista era stato tradotto nel 1865 da Bakunin e stampato nella tipografia del Kolokol (La Campana). La traduzione Zasulič, con la notissima prefazione di Marx ed Engels, appare nel 1882.

Tutti i bolscevichi convengono di assumere il 1883 come data della prima fondazione di un movimento socialista marxista. Il gruppo "Emancipazione del Lavoro" fu però costituito in Svizzera, da Plechanov, Zasulič, Axelrod ed altri, fondando una biblioteca socialista in russo…

Occupa fra queste pubblicazioni un posto importantissimo il libro di Plechanov: Il socialismo e la lotta politica, che svolge una critica sistematica del populismo e stabilisce le basi programmatiche per la organizzazione in Russia del Partito Socialdemocratico del Lavoro.

Non ci occorre tornare sulla questione del nome del partito, classicamente nota. Nel 1864 alla fondazione della I Internazionale i partiti occidentali non avevano assunto il nome di comunisti, che aveva la Lega del 1848 ed era stato usato nel Manifesto del partito in quell'anno: tanto più dopo la scissione coi libertari bakuniniani, prevalse l'espressione tedesca di Socialdemocrazia. Cento volte nel corso degli anni abbiamo mostrato il male prodotto da questo nome: banalmente si crede sempre che l'antitesi fosse, per i marxisti, legalità, non rivoluzione, mentre l'antitesi vera è l'opposta: autorità (uguale violenza), non libertà.

Tuttavia il nome di socialdemocratici, poi denunziato da Lenin nell'aprile del 1917[19], era meno antistorico in Russia, dove – ferma restando la teoria – il partito viveva la (qui in epigrafe) attesa della duplice rivoluzione, la lotta per la libertà democratica e la lotta per la dittatura di classe: successione che andiamo rimettendo al suo posto, forse spiegando e rispiegando fino alla noia, in questo lavoro.

Le conferenze regionali e le riunioni segrete si susseguirono per anni ed anni in Russia, finché fu possibile fondare il Partito nel suo primo congresso a Minsk nel 1898: il cammino dalla dottrina all'organizzazione occupò ben 15 anni. Sette anni dopo, nel 1905, dopo un laborioso sviluppo, il Partito era nel pieno della lotta rivoluzionaria. Altri dodici anni, ed era la vittoria integrale. La storia dei 34 anni contiene tutti i possibili insegnamenti per i metodi dell'azione comunista e il cammino della rivoluzione mondiale.

 

25. Critica del populismo

Risultati di primaria portata e soprattutto irrevocabili, per tremenda che sia l'odierna ondata di degenerazione rivoluzionaria, contiene la grandiosa battaglia contro i radicali errori e la influenza dannosa del populismo.

In polemiche storiche l'argomento fu impostato insuperabilmente da Georgij Plechanov e poi sviluppato con la massima ampiezza in successivi tempi dal suo allievo prediletto Lenin.

Occorre riassumere, per concretare questi risultati, le posizioni del populismo e la contrapposizione ad esse delle tesi marxiste. Il fratello di Lenin, Alessandro, era un populista terrorista: sei anni dopo l'uccisione di Alessandro II organizzò l'attentato ad Alessandro III: questo fallì ed egli fu impiccato nel 1877. Lenin intanto diviene convinto marxista: già nel 1892 parla contro i narodniki[20].

Nel suo opuscolo del 1894 contro Mikhailovski e la sua rivista Ricchezza Russa[21] Lenin ribatte alla polemica contro la dottrina di Marx e il materialismo storico con un'esposizione brillante e interessante, ma che non qui è il luogo di citare. Tra l'altro egli svolge la tesi che il momento fondamentale nel processo storico è quello della produzione e della riproduzione, o produzione dell'uomo stesso, cosa che a Mikhailovski era riuscita incomprensibile; sviluppo di un essenziale capitolo del marxismo che risponde a quanto abbiamo riesposto in I fattori di razza e nazione nella teoria marxista[22].

Importano invece qui non le critiche senza capo né coda degli scrittori populisti o quasi al marxismo, ma quelle dei marxisti al populismo.

Dal 1880 al 1890 Plechanov aveva discusso in modo decisivo il movimento rurale. In realtà non si trattava di un movimento spontaneo dei contadini; in un primo tempo, gruppi di entusiasti avevano anzi tentato invano di organizzare la campagna, poi erano passati al metodo del terrore individuale.

La critica dei marxisti a tale metodo risale alla diversa concezione degli agenti storici. Non si tratta di condannare i metodi illegali cospirativi e terroristici perché urtino con qualche nostro principio. Non abbiamo di queste tesi morali umanitarie, pacifistiche, o misticismi sulla inviolabilità della persona umana: simili limiti non ci fermerebbero mai, ove corrispondessero al destarsi della lotta di classe: non si tratta di politica delle mani nette. Classe proletaria, partito, membri del partito, in dati casi tecnici anche isolatamente, non solo possono usare violenza e terrore, ma devono in date situazioni, che dovranno in ogni caso essere attraversate, porre quelle forme di azione in primo piano.

Ma, nella visione populista, è posta in primo piano la funzione dell'eroe che col suo sacrificio crea, per forza di esempio o passionale contagio, un rapporto di forza che altrimenti mancherebbe, e resta totalmente incompresa la derivazione della spontanea azione di classe, prima ancora che della generale coscienza e volontà, dalle esasperazioni delle determinanti economiche, dalla esistenza di precise condizioni materiali nei rapporti di produzione. Accreditare l'illusione che atti e gesti anche eroici possano aprire il varco - come generale, fondamentale risorsa - a movimenti storici, significa impedire il formarsi del partito che raggiunga la conoscenza e la volontà rivoluzionaria indispensabili.

 

26. Contadini e proletari

Qui un abisso si apre tra i due movimenti, e non poteva farsi luogo allo sviluppo di un partito marxista nel proletariato senza ripudiare tutto il sensazionale quanto innocuo apparato di dramma del populismo di sinistra.

Mentre i marxisti rigettano quel metodo in quanto appunto contraddice all'esigenza di costruire il partito operaio rivoluzionario, di cui ormai sono presenti le basi sociali, i populisti condannano il partito che sorge. Secondo loro, la sua esigenza di essere notorio lo rende capace di sole azioni economiche e rivendicazioni legali, conciliatore e abdicante alla questione del potere politico.

Questa questione di metodo di lotta, così ben sviscerata dai marxisti russi classici, costruisce la sfiducia nel partito sulla sfiducia nel proletariato industriale ed urbano, sulla pretesa che esso "non esista", sia un fatto "casuale", e che il capitalismo in Russia, al più, si sarebbe sviluppato marginalmente alla vita sociale della popolazione.

Quando Plechanov sosteneva che si sarebbe sviluppato con tutti i suoi caratteri presenti in Occidente, gli scrittori populisti gli rinfacciavano di volerne gli orrori e le catastrofi, pur di veder crescere proletariato e partito socialista. Lavorarono e Plechanov e Lenin a spiegare che la cosa non dipendeva dai "gusti" di questo o quel teorico, ma dalle reali forze economiche, e, del resto, i dati del processo reale, che nei precedenti paragrafi abbiamo riassunti mostravano che non certo idillio, ma oppressione, miseria e degenerazione imperversavano nella società precapitalistica russa e nelle affamate desolate campagne, ove i contadini vivevano peggio che quando erano servi della gleba; privi tuttavia della possibilità di raggiungere quella unità di azione e di indirizzo, che solo ai lavoratori proletarizzati nel vortice cittadino, e del mercato generale, è dato raggiungere.

Abbiamo trattato a fondo la critica della teoria di una rivoluzione basata sulla comunità contadina di villaggio, e su una sua lotta di liberazione da tutte le soggezioni economiche e dalla oppressione statale. Plechanov ribatté su tutta la linea questa surrogazione dei contadini, ormai non più solidali nemmeno in parte, nelle cerchie locali di produzione, al proletariato, che invece, nella misura in cui cresce di numero e cresce in concentrazione aziendale, si prepara sempre più ad un compito unico nazionale, anzi internazionale.

È da notare che quando la storia ufficiale del partito bolscevico rivendica questa superiorità del proletariato, come classe che cresce in quantità e qualità, ed essendo sempre più spinta alla organizzazione è eminentemente - come nell'abc del marxismo - ovunque rivoluzionaria, rivendica anche la valutazione dei contadini come coloro che, nonostante la loro importanza numerica, costituiscono la classe lavoratrice legata alla forma più arretrata dell'economia, alla piccola produzione, e perciò non hanno né possono avere un grande avvenire: che non soltanto non crescono, di anno in anno, come classe, ma al contrario si differenziano sempre più in borghesia rurale (kulaki) da una parte e, dall'altra, contadini poveri (non significa ciò senza terra, quanto senza moneta, bestiame, attrezzi, sementi, concime, ecc., ossia senza capitale), proletari o semiproletari; che per tale loro dispersione meno si prestano alla organizzazione e, come piccoli proprietari, non partecipano volentieri al movimento rivoluzionario… è strano, dicevamo, che in detta storia ufficiale, dopo la parola contadini si inserisca, con la sigla N.d.R. (Nota della Redazione), una parentesi inattesa: si trattava allora di contadini individuali[23].

Che cosa si intende col termine contadino individuale? Evidentemente si vuol conciliare la incelabile tesi marxista e leninista che il contadino non è rivoluzionario, ma conservatore per natura, con quella poi sviluppata abilmente, a forza di accostate, secondo la quale il contadino è rivoluzionario al pari dell'operaio, e con lo smaccato corteggiar contadini in cui tutto il movimento è stato ingolfato, snaturando ogni impostazione di principio del problema.

I contadini russi, quindi, al tempo della polemica antipopulista, circa il 1890, erano "individuali", poi nel 1917 avrebbero cessato di esserlo, e oggi lo sarebbero ancor meno? Non si vede come una simile tesi possa costruirsi storicamente. Col termine individuali si vogliono certo indicare i contadini che lavorano soli il lotto di terra su cui vivono e che è sufficiente ad assorbire la loro forza lavoro, inclusa quella dei membri della famiglia. Questo tipo di contadino chiuso in così piccolo campo di lavoro e di consumo è palesemente vòlto ad una psicologia meschinamente individualista. Ma appunto abbiamo visto i populisti più seri, come il Černyševski lodato da Marx ed Engels, tentar di sollevare più in alto il contadino russo del mir, della comunità rurale, poiché in lui l'interesse della persona e della famiglia scompare di fronte a quello del villaggio agricolo, collettivo nel lavoro, nella raccolta, nel con- sumo.

È dunque chiaro che il contadino russo, dalla riforma del 1861 in poi, procedeva soltanto verso forme sempre più individualistiche; dissolvendosi, ormai senza speranza di saldarsi ad una originale rivoluzione agraria antiprivatista, la tradizione del comunismo primitivo.

 

27. Individualità e comunità

Come i contadini divengono individuali? Fino a che nella comunità di villaggio, che chiamammo microcomunismo, si lavora e si raccoglie veramente in comune, e non lottizzando i campi per famiglia, e il raccolto non si quotizza nemmeno, ma forma una riserva comune, una mensa stagionale comune, questo mir ha tuttavia un ristretto orizzonte e, se è servo – tributario di lavoro, prodotto in natura, o moneta, a un boiardo, a un convento, al despota, allo Stato –, tale rapporto non ha mai storicamente condotto ad una rivoluzione di tutte le comunità contro il privilegio oppressore (è anzi, per Marx, alla base dell'inerzia asiatica). Un tale concetto può avere un parallelo nel sindacalismo che non vuole partito né politica, e tuttavia si immagina una rivoluzione sindacale, e non vede il "particolarismo" della lega di mestiere o di industria, la necessità dell'organizzazione politica, del partito, per avviare all'unità – nazionale o mondiale – della classe rivoluzionaria. Una concezione analoga è quella che subordina il partito – e il sindacato stesso – alla impalcatura dei "consigli di fabbrica" impegolati nella gestione aziendale. Tipico esponente di questa scuola, il gramscismo-ordinovismo si esaltava, fuori luogo e fuori tempo, per il movimento dei consigli "individuali"; non a caso, in quanto lo si può ben definire un "populismo industriale" agli antipodi – e ciò nel progredito Occidente – della concezione marxista classica politica e dittatoriale della rivoluzione, indivisibilmente centralista e ineluttabilmente totalitaria[24].

Qualunque conto si potesse fare su una saldatura – di cui Marx stesso aveva parlato – tra il comunismo primigenio e quello moderno-futuro, certo tale prospettiva si era dispersa per cento vie. Dapprima il villaggio spartisce tra le famiglie il prodotto o il suo ricavo in parti uguali, pagati che siano i sociali tributi di servitù ai dominatori. Ma poi germina l'invidia tra chi ha sgobbato di più e chi di meno (uomo o famiglia) e si spartisce la terra stessa, periodicamente, in modo che ognuno "mangi il frutto del suo lavoro" non già indeminuto[25] come nell'ardente poetare lassalliano, ma minimizzato da tangenti di classe. Successivamente (e Stolypin dialetticamente ammirato da Lenin incoraggia questo cammino verso una Russia ruralmente borghese) la spartizione non è più periodica ma stabile, in legale proprietà titolare, ereditaria, e gli zar copiano il diritto romano del codice napoleonico. Ogni famiglia si è chiusa nel suo campicello circondato da frontiere contro il nemico: il nemico è il vicino, ogni vicino; non il terriero nobile o borghese, lo Stato, lo zar, sempre più lontani.

Il veleno dell'individualità per cui il generoso Cernysevsky aveva compatito il nostro bottegaio e venale Occidente, concorrentista e mistico, del "mors tua vita mea", sorge anche presso i servi della gleba, attribuiti al signore feudale, nelle persone singole e non come villaggio, in modo che il signore, di tutto padrone, alloga ognuno di essi su una schiappa di suolo con una catapecchia per casa-prigione. Sorge presso gli emancipati, non appena si spartiscono invidiosamente la poca terra delle comunità, ancora decurtata dai nobili, e lo strozzinesco onere dei riscatti in denaro della persona e del villaggio, nel 1861. Rimane e aumenta presso i proprietari parcellari, subito rovinati e ridotti a dover locare dal signore, divenuto proprietario fondiario "alla borghese", uno strappo di terreno, pagando canoni ultraesosi in natura o in denaro. Questi sciagurati coltivatori diretti, siano proprietari accatastati per le sette generazioni, siano mezzadri e parziari, siano minimi fittavoli lavoratori, sono socialmente inchiodati ad una misera abitazione, isba cimiciosa o perfino inadatta al crescere delle cimici, e ad un angusto anello che la racchiude, concimato di sudore e di sangue; sono dunque condannati ad una ristrettezza assai peggiore di quella antica del pur misero villaggio, non hanno speranza alcuna di respirare aria da diverso orizzonte. Gli sventurati che non sono che coloni parziari o ad affitto basiscono nel terrore all'idea di venire estromessi dal fetido angoletto loro toccato, e la tenebra dell'individualità li guadagna ogni giorno più. Questa massa il cui amorfismo fa paura dovrebbe essere un fattore di rivoluzione? Gli stalinrinnegati dei nostri giorni sognano di adescarla con la beota irrevocabilità dei patti agrari in cui – oggi in Italia – si incarognisce tutta la gamma degli opportunismi politici, e putono di retorica antifeudale; laddove che altro era la medievale servitù, se non un patto agrario irrevocabile, bloccato a vita? Eppure, nonostante ogni loro prostituzione demagogica al commercio dei princípi, l'invincibile codinismo dei coltivatori diretti – id est, individuali - ha vòlto loro le terga.

La campagna russa nel 1917 era dunque imborghesita e invelenita di "privatismo", i contadini erano affondati nelle aride sabbie dell'individualismo; non era che maggiormente motivata la definizione 1890 del bolscevismo classico: i contadini sono una classe legata alla più arretrata forma di economia, ossia alla piccola produzione: tale classe non ha, non può avere, un grande avvenire.

Da un lato il contadino russo non era evoluto che in senso borghese, non era mutato ai tempi del 1917, e dall'altro non era mutata la considerazione che ne aveva il bolscevismo; che fosse stato Lenin a mutare su tale punto la rotta, altro non è che sudicia menzogna dei suoi odierni idolatranti-profanatori.

 

28. Lenin e il populismo

Che la nostra impostazione risponda alle tradizioni dei bolscevichi russi – prima di dire della classe rurale veramente proletaria, i braccianti agricoli, cui sempre Lenin intensamente guardò rimpiangendo che in Russia la rivoluzione mancasse di tale falange, e forse non valutando abbastanza quanto formidabile essa fosse nei paesi di Occidente, e non seconda ai proletari di fabbrica – lo proveremo con alcuni passi della polemica 1894 di Lenin contro Mikhailovski:

«Sono avvenute due cose: in primo luogo il socialismo russo [corsivo di Lenin], il socialismo contadino degli anni settanta, che "si infischiava" della libertà a causa del suo carattere borghese, che lottava contro i "liberali dalla mente aperta" i quali si sforzavano di attenuare gli antagonismi della vita russa, che sognava una rivoluzione contadina [Lenin si riferisce al cammino del populismo che, partito da un programma di insurrezione, terrore e distruzione, si era involuto a movimento della borghesia rurale, dei kulaki, dell’embrionale capitalismo agrario] si è completamente disgregato e ha partorito quel volgare liberalismo piccolo-borghese che considera come “impressioni confortanti” le tendenze progressive dell'economia contadina, dimenticando che esse sono accompagnate (e condizionate) dalle espropriazioni in massa dei contadini»[26].

In secondo luogo, rileva Lenin, questi socialrurali si sono messi a fare i mangiamarxisti a tutto spiano, e attaccano non più zar, nobili, e poliziotti, ma gli operai industriali e socialisti. Facevano una volta complimenti a Marx; ora si diffondono a proclamarne il (solito) "fallimento".

Che fecero i marxisti russi? «Anziché limitarsi a constatare lo sfruttamento e a condannarlo, essi vollero spiegarlo. Vedendo che tutta la storia della Russia dopo la riforma consiste nella rovina delle masse e nell’arricchimento di una minoranza; osservando la gigantesca espropriazione del piccoli produttori a fianco del progresso tecnico generale; notando che queste tendenze contrapposte sorgono e si rafforzano dove e in quanto si sviluppa e si rafforza l'economia mercantile, non potevano non concludere di aver a che fare con una organizzazione borghese (capitalistica) dell'economia sociale, la quale generava necessariamente l'espropriazione e l'oppressione delle masse». Ma il capitalismo ha creato una nuova classe, il proletariato industriale: «Pur subendo uno sfruttamento borghese che, per la sua essenza economica, è identico a quello cui è sottoposta tutta la popolazione lavoratrice della Russia, questa classe è tuttavia posta in condizioni vantaggiose per quanto riguarda la sua liberazione: nessun legame la unisce alla vecchia società […], le condizioni stesse del suo lavoro e del suo modo di vivere la organizzano, la costringono a pensare, le danno la possibilità di scendere sull'arena della lotta politica. È naturale che i socialdemocratici abbiano rivolto tutta la loro attenzione e fondate tutte le loro speranze su questa classe»[27].

Che Lenin un giorno abbia visto deluse queste speranze e, come giocatore d'azzardo sbancato, abbia puntato invece sulla carta contadina, e per ciò solo fatta la rivoluzione; questo non è leninismo, questo ... è merda.

 

29. Dissidenze esterne ed interne

Non occorre ripetere che non stiamo svolgendo una storia dell'economia in Russia (tema precedente) né della politica in Russia (tema presente), ma solo traendo dall'uno e dall'altro vastissimo campo i materiali per la nostra tesi: la linea dei marxisti rivoluzionari in Russia fu giusta nella fase in cui avanzava la "duplice rivoluzione" borghese-proletaria.

Fondiamo il nostro risultato non sul riferire tutti gli episodi della lunga e complessa lotta, ma sull'insistere soprattutto sul rifiuto e la demolizione delle avverse posizioni, proposte, tattiche, quali risultano dalle campagne critiche e polemiche dei bolscevichi, di Lenin, nei loro importanti aspetti dottrinali, giornalistici, organizzativi.

Mettendo questa raccolta di elementi in confronto coi successivi sviluppi della lotta storica, coi dati – che una successiva trattazione appresterà[28] – della fase insurrezionale della doppia rivoluzione e del periodo consecutivo e attuale, procuriamo di pervenire a una chiara sistemazione dei problemi generali che legano: a) le passate rivoluzioni borghesi nell'Occidente (divise in due tipi: quelle che si presentarono come rivoluzioni uniche, come in Francia e in Inghilterra, e quelle che già si presentarono come doppie, come in Germania); b) la rivoluzione russa in quanto si presentò come doppia, e come tale, in una acquisita reale esperienza della storia, si sviluppò; c) le attese future rivoluzioni uniche (ossia socialiste) nei paesi di affermato capitalismo.

La "controtesi" opportunista che è contro di noi vuole – seguiamo il metodo di collegare ogni tanto le "proposizioni" già stabilite con quelle che devono venire più oltre – poggiare sul riconoscimento che il dato russo ha ribadito la concezione marxista della evoluzione storica quanto ad atteggiamento in una fase duplice di preparazione rivoluzionaria, la conclusione tendenziosa e rovinosa che una tale esperienza abbia condotto a una "revisione" del modo di concepire le future rivoluzioni uniche del proletariato, rispetto alla originaria previsione e teoria del marxismo.

La "revisione" che ci gettò tra i piedi l'ondata numero uno dell'opportunismo fu di negare il carattere autoritario, centrale, politico, di partito, della rivoluzione (crisi della I Internazionale).

La "revisione" che ci gettò tra i piedi l'ondata numero due dell'opportunismo fu di negare il carattere violento e insurrezionale, di discordia nazionale, della rivoluzione (crisi della II Internazionale).

La "revisione" che ci getta tra i piedi l'ondata numero tre dell'opportunismo è di negare il carattere autonomo della rivoluzione che abbatterà il regime capitalistico, ad opera della sola classe lavoratrice salariata (crisi della III Internazionale).

Siamo ancora più espliciti (nel dichiarato schematismo cui ci atteniamo sempre: che cosa resta, a chi sfugge ogni schematismo? Solo, ed appunto, il fetido opportunismo): è tesi marxista accettata che ogni rivoluzione borghese è rivoluzione del popolo, compreso in esso il proletariato. È tesi marxista accettata che ogni rivoluzione borghese in tempi avanzati può vedere nel proletariato già sviluppato non solo un alleato di altre classi borghesi e popolari ma un dirigente di una rivoluzione popolare, in alleanza con strati non proletari (contadini).

È controtesi disfattista del marxismo che, nelle rivoluzioni che in Europa devono abbattere il regime capitalistico, dopo la rivoluzione russa, il proletariato salariato vedrà al suo livello classi e strati popolari poveri; che la rivoluzione sarà opera di un'alleanza di salariati e classi popolari rurali ed urbane non operaie.

NELL' ATTESA DELLA RIVOLUZIONE UNICA (in altre parole, da quando il regime capitalistico è storicamente stabilito, come lo è oggi in TUTTA Europa e in altri due continenti e mezzo) LA CLASSE OPERAIA E IL SUO PARTITO NON FANNO ALLEANZE. SANNO CHE NELLA RIVOLUZIONE NON AVRANNO CHE NEMICI.

Le innumeri posizioni, difformi da quella unitaria e continua dei marxisti rivoluzionari, e che è della più grande importanza avere "a tempo" demolite, non sono solo quelle di aperti avversari di programma e di azione, ma altresì quelle delle correnti che di volta in volta deviano, dissentono, e, con un processo di cui da decenni possediamo la completa teoria, vanno verso il nemico di classe. La vicenda russa è, di queste lezioni preziose, una miniera.

 

30. "Autodelimitazioni" classiche e russe

Ci siamo diffusi abbastanza sulla lotta dei marxisti russi contro il "populismo", o socialismo rurale russo, le cui basi dottrinali si collegano strettamente alla disamina di Engels trattata nella prima parte del presente lavoro. Questa scuola dissidente è del tutto "esterna" al marxismo, in quanto i suoi fautori, dopo un primo vago periodo, non esitano a dichiararsi avversari della ideologia e del metodo marxista pur difendendo la causa di classi sfruttate socialmente contro un regime di privilegio economico esoso. Verremo alle dissenzioni "interne".

Ma prima va detto che la distinzione tra le scuole vagamente "socialiste" – che in forme dubbie e prevalentemente letterarie cominciano a trattare di una "questione sociale" uscendo dalla tradizionale e secolare mistica sociologica che muove prima dalle anime, poi dai cervelli, e affermando un primitivo timido "stomachismo" – e la compatta, unitaria, monoblocco in quanto monogena, dottrina marxista, la vediamo presentarsi in Russia non come un fatto originale, ma come riproduzione di processi già presenti nella storia di Occidente. Dichiarandosi nel granitico masso del Manifesto fin dal 1848, il comunismo marxista già distingue se stesso da tutta una gamma di socialismi grezzi, fin da allora presenti, dando, nel classico suo modello, il magistrale capitolo della "Letteratura socialista e comunista"[29].

In tale capitolo sono ribattuti come cosa non nostra, a noi non affine, giusta l'aggettivo lenone in seguito prevalso, ma costituzionalmente aborrita, i seguenti miserevoli "credi".

Abbiamo tre sorte di falso socialismo, e cinque sottospecie.

[1] Cfr. Trotsky, 1905, cit., p. 29.

[2] Ibidem, p. 31.

[3] Ibidem, p. 45 (corsivi di A.B.).

[4] Cfr. Storia del Partito Comunista (bolscevico) dell'URSS, Breve Corso ed. cit. p. 9.

[5] Cfr. Trotsky, 1905, ed. cit., p. 51.

[6] Cfr. Lenin, Lo sviluppo del capitalismo in Russia, in Opere, vol. III, ed. cit., p. 509.

[7] Op. cit., paragr. 9; nell'edizione Iskra, Economia marxista ed economia controrivoluzionaria, cit., p. 33.

[8] Cfr. il paragrafo 9 di Vulcano della produzione o palude del mercato?: nell' edizione Iskra già citata, pp. 32-33.

[9] Cfr. sopra, nota 38.

[10] Il tema della. Russia che "tende" al capitalismo pieno, travolgendo via via le aree ancora esistenti di economia precapitalistica e addirittura patriarcale, soprattutto in Oriente, era già stato svolto poco tempo prima nel già citato articolo L'orso e il suo grande romanzo.

[11] Corsivi nostri.

[12] Cfr. Lenin, Che fare?, in Opere, ed. cit., vol. V, p. 319. La lettera è del 24/VI/1852: la rottura definitiva con il lassallismo da parte di Marx, cui si allude più sotto, si consumerà 23 anni dopo, in occasione del Congresso di Gotha del Partito Operaio Tedesco, la critica al cui programma, di ispirazione essenzialmente lassalliana, ènota come Glosse marginali al programma del Partito Operaio Tedesco (redatte da Marx e fatte pervenire a W. Bracke il 5/V/1875, ma rese note in Germania solo nel 1891), o, più brevemente, come Critica del Programma di Gotha.

[13] Le Tesi della Frazione Comunista Astensionista, articolate in tre Parti, di cui la II è appunto dedicata alla critica delle "scuole" politiche avverse, apparvero nei nr. 6 e 27 giugno 1920 de "Il Soviet", e si possono leggere, integralmente riprodotte, sia nel Vol. II della nostra Storia della Sinistra Comunista (1919-1920), Ediz. Il Programma Comunista, Milano 1972, pp. 394-402, sia in In difesa della continuità del programma comunista, ediz. idem, 1970 e 1989, pp. 15-23. La delimitazione dalle diverse correnti a sfondo operaio, ma estranee alla corretta tradizione marxista, non potrebbe qui essere più lampante, anche e soprattutto nei confronti dei fautori anarchici od altri – come si dice subito dopo – di un astensionismo elettorale basato su considerazioni non materialistico-storiche, ma idealistiche e moralistiche, agli antipodi del nostro astensionismo.

[14] Lenin, I partiti politici in Russia, in Opere, ed. cit., vol. XVIII, pp. 36-47.

[15] Ibidem, p. 44 (eccettuato "un grano", corsivi di AB.).

[16] Allusione all'attentato a Lenin compiuto il 23/X/1918 dalla socialista-rivoluzionaria Dora Kaplan, che lo colpì con una rivoltellata alla spalla sinistra.

[17] Questa «Guida cronologica» figura al completo, con annesso un glossario, nell'edizione inglese (Trotsky, Stalin, Londra 1947, pp. 434-486) del volume citato, come pure in quella francese; comincia invece solo dal 1978 nell'edizione italiana (Stalin, ed. Garzanti, Milano 1962).

[18] Marx-Engels Werke, ed. Dietz, voI. XVI, p. 408.

[19] Nelle Tesi dette "di aprile" Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale (17 e 18 aprile 1917), cfr. Lenin in Opere, ed. cit., voI. XIV, p. 14 nota: «Invece di "socialdemocrazia", i cui capi ufficiali […] hanno tradito il socialismo in tutto il mondo, passando alla borghesia, dobbiamo chiamarci partito comunista». Vedi anche, nello stesso volume, pp. 76-80.

[20] Negli articoli Nuovi spostamenti economici nella vita contadina e A proposito della cosiddetta questione dei mercati, rispettivamente della primavera e dell'autunno 1892, in Opere, ed. cit., vol. I, pp. 1-68 e 69-121.

[21] Lenin, Che cosa sono gli "amici del popolo" e come lottano contro i socialdemocratici?, in Opere, ed. cit., I, pp. 123-339.

[22] Nel testo omonimo già citato, la Parte I: Riproduzione della specie ed economia produttiva, inseparabili aspetti della base materiale del processo storico; ediz. Iskra, pp. 19-30.

[23] Cfr. Storia del Partito comunista (bolscevico) dell'URSS, ed. cit., p. 20.

[24] La critica radicale di tutte le correnti che negano il ruolo centrale del partito nella rivoluzione e nella dittatura comunista, e concepiscono lo stesso comunismo come l'organizzarsi dell'attività produttiva, e quindi della società nel suo insieme, in isole locali autonome e, come tali, chiuse – consigli di fabbrica e d'azienda, soviet, sindacati, comuni ecc. – è svolta in particolare ne I fondamenti del comunismo rivoluzionario, 1957, ripubblicato insieme al Tracciato d'impostazione, nel 1969, per le Edizioni Il Programma Comunista (cfr. soprattutto l'intera Parte II). Ma la polemica con "L'Ordine Nuovo" di Gramsci risale addirittura al 1919-20, e verte appunto sull'idealizzazione ordinovista dei consigli di fabbrica (chiusi ciascuno entro i confini della propria individuale azienda, come il contadino «individuale» entro l'angusto cerchio del suo orticello), sia come presunto organo della rivoluzione proletaria, sia come supposta cellula-base della società comunista. (Di qui la designazione dell’ordinovismo come «populismo industriale»). Cfr. per l'intera polemica i volumi I e II della nostra Storia della Sinistra comunista, già più volte citata. Per errore, nel testo apparso sul giornale (nr. 6/1956), invece di "consigli individuali" si legge "contadini individuali".

[25] Così nelle edizioni Avanti! delle Opere di Marx, Engels e Lassalle. Più comunemente «integrale», come nella demolizione della formula lassalliana del «reddito (o frutto) integrale del lavoro» svolta da Marx nella Critica del Programma di Gotha.

[26] Lenin, Che cosa sono "gli amici del popolo" e come lottano contro i socialdemocratici?, in Opere, ed. cit., vol. I, p. 178.

[27] Ibidem, pp. 189-190 (ultimo corsivo, di A.B.).

[28] Il monumentale rapporto Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, iniziato a pubblicare nel nr. 10/1955 e concluso nel nr. 12/1957 de «Il Programma Comunista», poi riunito nel volume più volte citato dello stesso titolo, insieme con Le grandi questioni storiche della rivoluzione in Russia e La Russia nella Grande Rivoluzione e nella società contemporanea, apparsi nei nr. 15-16/1955 e 12-14/1956 dello stesso quindicinale.

[29] Cfr. K. Marx-F, Engels, Manifesto del partito comunista, Marx-Engels, Opere scelte, ed. cit., pp. 315-324.

 

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