DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Seconda parte

 

1920-1923, dalla rivoluzione proletaria all'antifascismo

 

"Il mezzo condiziona malamente il fine, se non è da esso e in rapporto ad esso forgiato" (Premessa alle “Tesi sulla tattica del Pcd'I, Roma 1922, in In difesa della continuità del programma comunista, Edizioni Il programma comunista, p.35)

 

Premessa

Per la nostra dottrina, le lotte di nazionalità sono un prodotto storico che giungerà a conclusione con la fine del capitalismo e le cui premesse sono ampiamente maturate nel corso del suo sviluppo. Ma finché l'attuale sistema economico e sociale sopravvivrà alle proprie contraddizioni e all'azione cosciente del proletariato rivoluzionario, la “questione nazionale” si presenterà ad ogni crisi che intervenga a sconvolgere la stabilità sociale e riproponga le condizioni della minaccia rivoluzionaria. Grave errore sarebbe dunque, per un partito che si pretenda rivoluzionario, sottovalutare la questione o, peggio, liquidarla perché superata dall'evoluzione del capitalismo, dalla sua tendenza ad abbattere le frontiere nazionali e a internazionalizzarsi, dal sopravanzare la lotta di classe ogni altro fattore storico.

Man mano che il capitalismo procede nel suo sviluppo, e massimamente nella fase attuale, gli Stati nazionali, sotto la pressione dei mercati internazionali, della finanziarizzazione economica, nel contesto della crisi storica del meccanismo di accumulazione, vanno via via riducendo la strumentazione di protezione sociale su cui si è fondata per mezzo secolo la relativa stabilità dei paesi capitalisticamente più sviluppati. Di crisi in crisi, cadono così i veli che mascherano la natura di classe dello Stato borghese agli occhi di masse sempre più proletarizzate, anche in settori tradizionalmente "garantiti", e dietro l'apparenza benevola della sua strumentazione assistenziale traspare con sempre maggiore evidenza l'essenza poliziesca e repressiva dello Stato. Tuttavia, questo processo, lungi dall'annullare l'efficacia dei richiami nazionali, li preserva integri per il momento in cui sarà necessario per la borghesia contrapporre alla prospettiva storica del comunismo l'idea di Nazione e trovare una “soluzione politica” alla crisi. Se il binomio Stato-Nazione ha trovato una definitiva consacrazione storica con la prima guerra imperialista, tra i due termini non vi è identità, e sarà sempre possibile invocare gli interessi di quest'ultima per una soluzione borghese del conflitto di classe che comporti un rinnovamento dello Stato. La priorità degli interessi nazionali viene anzi costantemente sottolineata dagli effetti dell'internazionalizzazione, che fa della borghesia imprenditrice una classe da un lato sempre più incline a trasferire all'estero capitali e produzioni, dall'altro a subordinare lo Stato ai propri interessi – identificati con quelli del sistema-Paese, della Nazione – poco curandosi degli effetti sociali del crescente trasferimento di risorse (quote di plusvalore sociale) dal salario al profitto, con la minaccia, assai poco "patriottica", di andarsene altrimenti altrove.

Si verifica così sempre più spesso che la classe operaia, pur di salvaguardare la propria esistenza materiale minacciata dai licenziamenti, invochi – tramite le sue organizzazioni economiche – la difesa della produzione nazionale, rendendosi anche disponibile a subire il peggioramento progressivo delle condizioni salariali e di lavoro, e chieda alla propria borghesia prove di... patriottismo. Proprio nella fase storica in cui l'esistenza delle nazioni è minata nel profondo dallo sviluppo delle forze produttive – che entro la serra dello stato nazionale è germogliato e cresciuto fino a grandeggiare – tanto il Capitale quanto le masse in via di proletarizzazione e il proletariato stesso si affidano alla nazione, l'uno per appropriarsi di ogni energia utile alla conquista dei mercati esteri, l'altro per chiedere "politiche industriali" che vadano nella stessa direzione, ma che garantiscano che gli investimenti produttivi piovano sul suolo patrio. Dunque, già in questa fase, che pure non preannuncia nell'immediato il ricorso diretto alla guerra aperta tra Stati, limitata per ora alle varie forme di protezionismo economico e alla predazione di società straniere, l'ideologia nazionale si conferma arma efficace di irreggimentazione del proletariato – il quale, se da un lato vede ridursi le proprie schiere nelle fabbriche, dall'altro si amplia fino a comprendere statisticamente settori crescenti della cosiddetta "nazione".

Non è in realtà così paradossale che il Capitale sia oggi assai più "internazionalista" – sia pure in modo del tutto pragmatico – del proletariato, che sembra invece appropriarsi della "bandiera" lasciata cadere dalla borghesia (vecchia famigerata questione) e delle stesse "libertà" e "valori" borghesi, sempre più apertamente calpestati e irrisi dalla stessa classe dirigente. E' questo uno dei modi in cui si manifestano il grado di avanzamento delle forze produttive e la capacità del capitale di rivoluzionare costantemente i rapporti di produzione, rompendo ogni schema ideologico di appartenenza che non si riferisca direttamente alla questione di fondo: l'alternativa storica tra capitalismo e comunismo, la maturità della rivoluzione sociale. Su questa base, lo smarrimento in cui si trova oggi (2013) il proletariato mondiale è destinato a svanire col crescere inevitabile delle lotte sociali che già ora si manifestano in alcune aree come rivolte di masse diseredate, ancora prive della guida del Partito della rivoluzione e perciò incapaci di indirizzare la propria incontenibile forza d'urto contro gli assetti borghesi. Questi possenti movimenti, reazione spontanea all'aggravarsi della crisi, rifiutano di riconoscersi in identità religiose o nazionali e reclamano l'esercizio e il diritto delle libertà borghesi, alle quali affidano invano le proprie possibilità di riscatto. Altrettanto inevitabili saranno le sconfitte, ma di sconfitta in sconfitta, la questione dell'identità di classe è destinata prima o poi a riemergere contro ogni altra identità (fede, nazione, etnia, religione) con cui la borghesia continua a esercitare l'arte dell'infinocchiamento. Bastino questi brevi accenni per richiamare l'attualità della “questione nazionale” che continua a rappresentare la principale arma ideologica della borghesia per mobilitare le masse alla difesa del proprio dominio di classe, sotto la mascherata reazionaria di "Patria, Popolo, Nazione",  mentre da tempo risulta ovunque esaurito il ciclo rivoluzionario imperniato sul fattore nazionale, cui pure il marxismo ha guardato "con interessamento, anzi con ammirazione e passione" (1).

Nell'avanzatissima Europa occidentale, tale ciclo si era notoriamente chiuso fin dal 1870-71, ma ciò non impedì che nel primo dopoguerra il nazionalismo si opponesse, militarmente e politicamente, all'onda rivoluzionaria proveniente dalla Russia bolscevica e ne arrestasse lo slancio ai confini della Polonia. Perché i proletari polacchi non si sollevarono di fronte alla prospettiva di una vittoria sulla propria borghesia con l'aiuto dei rivoluzionari russi in armi? Il trattato di Versailles aveva finalmente risolto la questione nazionale polacca, quella stessa che Marx ed Engels avevano appoggiato incondizionatamente, considerandola la "leva principale per sviluppare al massimo l'agitazione operaia in Europa e affrettare le occasioni di un movimento rivoluzionario" (2). All'inizio del ventesimo secolo, con lo sviluppo del capitalismo, la Polonia aveva perso la sua "eccezionalità" (Lenin), ma rimaneva tra i compiti dei rivoluzionari il sostegno al diritto all'autodeterminazione delle nazioni dell'Europa orientale e dell'Asia. Su questa questione, Lenin sostenne una dura polemica con la Luxemburg, che giudicava che il sostegno dei bolscevichi alle rivendicazioni nazionali dei popoli soggetti all'assolutismo russo avrebbe alimentato il nazionalismo e nuociuto alla causa proletaria. Lenin al contrario sosteneva che proprio il pieno riconoscimento ad opera del partito rivoluzionario del diritto all'autodeterminazione avrebbe privato le borghesie nazionali della possibilità di agitare la bandiera del patriottismo per legare a sé il proprio proletariato. Dialetticamente, il sostegno alle cause nazionali avrebbe favorito la causa dell'internazionalismo.

Lo stato nazionale polacco, nato non per via rivoluzionaria, bensì per effetto della sconfitta di uno degli imperialismi concorrenti, si ergeva ora contro la rivoluzione in Europa, con il sostegno fattivo degli imperialismi vittoriosi, e muoveva guerra contro la minaccia bolscevica. Le aspettative di Marx ed Engels non risultavano per questo affatto smentite, ma semplicemente si confermava che, con il crollo degli Stati assolutisti, il ciclo rivoluzionario delle lotte nazionali in Europa era definitivamente superato e da quel momento il nazionalismo, in tutto il vecchio continente, costituiva un fattore controrivoluzionario. Non veniva smentita nemmeno la posizione di Lenin che a lungo aveva polemizzato con la Luxemburg sulla questione dell'autodecisione delle nazioni.  L'atteggiamento del partito polacco sulle rivendicazioni nazionali, influenzato dalle tesi della Luxemburg, ebbe un ruolo nella mancata sollevazione proletaria in Polonia all'avvicinarsi dell'Armata rossa. Non avendo la socialdemocrazia rivoluzionaria polacca (SDKPiL), in nome dell'internazionalismo, sostenuto con forza il diritto all'autodeterminazione della nazione, il proletariato di Polonia non fu aiutato a liberarsi del secolare pregiudizio anti-russo, e conservò il timore di una nuova sottomissione alla potenza orientale che, se non si ripresentava più in veste zarista, rimaneva invariabilmente "russa". Proprio la sconfitta nella guerra russo-polacca convinse i vecchi militanti del SDKPiL a rivedere la concezione della questione nazionale che avevano condiviso con Rosa. Lenin non era certo meno internazionalista di Rosa, ma proprio perché gli era noto il potenziale controrivoluzionario del fattore nazionale era orientato ad assecondarlo dal punto di vista proletarioper neutralizzarlo.

Completamente diverso è il punto di vista che matura in Germania in alcuni gruppi a sinistra della SPD. Esaurito storicamente il suo potenziale rivoluzionario, la rivendicazione nazionale nel primo dopoguerra costituisce ovunque in Europa un'arma della controrivoluzione. L'Intesa utilizza il fattore nazionale in funzione antibolscevica (stati baltici, Ucraina, ecc.), la Francia tenta di smembrare la Germania alimentando il secessionismo nella Renania, i territori contesi con la Polonia (Slesia) e le decisioni prese a Versailles alimentano il nazionalismo tedesco. La vicenda dei nazionalbolscevichi di Amburgo si nutre di questa ripresa del nazionalismo da loro riproposto a “fattore rivoluzionario”, a partire dalla tesi di una Germania ridotta dai vincitori al ruolo di “nazione oppressa”. Inizialmente relegata a una sua frazione dissidente, quella dell'esistenza di una "questione nazionale" tedesca diviene tesi ufficiale del KPD nel 1923, anno in cui si chiude definitivamente il ciclo rivoluzionario tedesco, mentre gli sviluppi successivi segnano una "relativa stabilizzazione" del capitalismo e il procedere del partito di classe, passo dopo passo, verso approdi sempre più distanti dal solco tracciato dal marxismo rivoluzionario. Il nazionalbolscevismo del KPD è il segno della capitolazione del partito di fronte all'avversario di classe, prima ancora che sul terreno dello scontro in armi (che non vi fu) su quello dei princìpi del movimento comunista.

 

La nazione tedesca e Versailles

Alla fine, il gruppo nazionalbolscevico di Amburgo fece come l'odiata SPD: si mise d'accordo con i generali. Era l'esito necessario delle premesse ideologiche dei suoi fondatori, in sintonia con quella che fu una vera e propria scuola controrivoluzionaria internazionalecombinante radicalismo democratico, produttivismo e operaismo, che finiva per attribuire alla classe operaia compiti nazionali e perfino, nella sua variante tedesca, a identificare la classe con la nazione, dato che il capitalismo sviluppato, a sentir loro, avrebbe ridotto tutti a proletari, fatta eccezione per qualche odioso banchiere (probabilmente ebreo). Lo scopo della rivoluzione diventava allora la Patria Socialista, uno Stato nazionale operaio modellato sulla base dell'azienda che sembrava dover legare in aeternum gli operai alla catena del lavoro.

Durante il putsch di Kapp, il gruppo non aderì alla parola d'ordine dello sciopero generale, come del resto fece inizialmente la Centrale del KPD con motivazioni diverse. In quella fase, gli amburghesi, che pure si collocavano tra i gruppi alla sinistra del partito di fatto estromessi dopo il congresso di Heidelberg, avevano già sviluppato ampiamente la loro teoria "nazionalbolscevica", per la quale l'avversione al governo SPD poggiava non tanto sull'accusa di tradimento della classe operaia quanto sul tradimento della nazione tedesca consumato con la sottoscrizione delle condizioni di Versailles. Queste premesse danno fondamento alle accuse, rivolte loro dal KPD, di aver tramato nella circostanza del putsch con ufficiali kappisti sulla base del comune rifiuto delle condizioni di pace e nella prospettiva di un'alleanza russo-tedesca contro l'Intesa. In quest'ottica, se si trattava di riprendere la guerra contro le potenze occidentali, da una parte andava evitato un rilancio della lotta di classe e ricostituita una coesione nazionale, dall'altra non si poteva prescindere dal ruolo decisivo dei quadri dell'esercito politicamente orientati a favore dell'opzione anti-occidentale e di alleanza strategica con la Russia. Da qui, la non adesione del gruppo di Amburgo allo sciopero contro Kapp e i contatti con i militari.

Di lì a poco, sarebbero seguite l'adesione al KAPD all'atto della sua fondazione (aprile) e la pronta espulsione in agosto dietro richiesta dell'Esecutivo dell'IC, come condizione per l'ingresso del neonato partito nell'Internazionale. Da quel momento, il gruppo nazionalbolscevico non si può più considerare interno al movimento comunista e  si indirizza verso posizioni di destra radicale (3). L'attività del gruppo di Amburgo aveva tuttavia affrontato, e risolto in termini borghesi, alcune questioni  che il movimento comunista doveva dirimere utilizzando la corretta lettura marxista: la questione della "maturità democratica" e istituzionale dello Stato tedesco uscito dalla guerra e la questione del rapporto con gli imperialismi vincitori.

Dopo la "rivoluzione di novembre", i governi SPD lasciarono intatto l'apparato repressivo e burocratico del vecchio Stato. I generali imperiali presero il pieno controllo di ciò che restava dell'esercito, altrimenti completamente disorganizzato e inutilizzabile ai fini repressivi; sopravvissero i particolarismi statali e il capillare burocratismo che caratterizzavano l'assetto statale del vecchio regime. Si conservò integro anche l'apparato burocratico e giudiziario del vecchio sistema nelle sue articolazioni statali e municipali, che poté quindi mantenere intatti privilegi, poteri e prerogative. Non per questo si può parlare per la Germania 1918 di "rivoluzione borghese incompiuta". Con la Repubblica di Weimar giungono al pieno sviluppo le forme politiche borghesi che svolgeranno la funzione di contrapporsi alla per altro debole spinta consiglista e all'azione diretta proletaria dei primi mesi del 1919: "La Germania conoscerà il vero parlamentarismo solo quando questo sarà diventato totalmente controrivoluzionario" (4). D'altra parte, il passaggio al pieno parlamentarismo può avvenire solo in virtù dell'alleanza tra la massima espressione della democrazia popolare, l'SPD, e la massima espressione della forza statale, la Reichswehr, che mantiene una completa autonomia rispetto al susseguirsi dei governi democratici.

Alla funzione controrivoluzionaria del parlamentarismo si affianca dunque il permanere del vecchio apparato, del tutto funzionale ai compiti di un moderno Stato capitalista (5). Ma se la questione della "maturità democratica" di Weimar non è in discussione, le arretratezze dell'apparato costituivano una buona "riserva" di parole d'ordine borghesi da recuperare al momento opportuno, per indirizzare la mobilitazione operaia verso obiettivi limitati e secondari, come quando nel 1923 tornò d'attualità la questione delle requisizioni dei beni principeschi. La stessa frammentazione statale si rivelò un efficace ostacolo all'unificazione delle lotte operaie nelle fasi decisive (1919, 1920), perché, in assenza di un fattore realmente unificante quale avrebbe dovuto essere il Partito di classe, induceva una frammentazione delle stesse lotte operaie: nel suo insieme, il movimento operaio tedesco penserà e agirà ancora a livello di Land, e la rivoluzione prenderà temporaneamente il potere in certi Laender, mai in tutto il Reich: quando lo sciopero si esauriva a Berlino, si infiammava nella Ruhr, ma nel frattempo la controrivoluzione armata aveva modo di concentrare le proprie forze e di colpire dove il proletariato osava alzare la testa. Lo stesso KPD nacque, non va dimenticato, come organizzazione federale e rimase almeno per tutto il 1919 un arcipelago di organizzazioni locali.

Per parte loro, gli amburghesi, come si è visto, ritenevano che una "rivoluzione politica" fosse già avvenuta con la caduta del regime imperiale; la questione della democrazia si poneva per loro nei termini di una rivoluzione "dal basso" a partire dai luoghi di produzione, mentre attribuivano grande importanza al superamento dell'articolazione dello Stato in Laender come presupposto per un'unificazione nazionale che ritenevano invece non pienamente compiuta. In definitiva, da socialdemocratici conseguenti, si proponevano di portare a compimento quello che la SPD a loro avviso non era stata in grado di realizzare: una rivoluzione nazionale e compiutamente democratica.

La “questione nazionale” continuò a condizionare gli avvenimenti tedeschi e gli indirizzi del KPD ben oltre la conclusione della parabola del gruppo di Amburgo. Il trattato di Versailles e le condizioni capestro cui venne sottoposta la "nazione" tedesca erano destinati a rinfocolare le spinte nazionalistiche in Germania. Per molti aspetti, la "rapina" di Versailles si rivelò in buona parte un mito, perché se è vero che l'intento dei vincitori, soprattutto della Francia, fu duramente punitivo, nei fatti né le perdite territoriali né le riparazioni scalfirono la superiorità della potenza tedesca. Inflazione e svalutazione del marco favorirono la produzione industriale rivolta all'export; la perdita di territori etnicamente misti finì per rafforzare la coesione nazionale e indebolire le tendenze separatiste in Baviera e RenaniaIl mito fu coltivato soprattutto da destra, per ovvi motivi, ma anche il movimento comunista, con poche eccezioni, e nonostante gli avvertimenti di Lenin sull'errore di insistere sulla lotta contro Versailles, ne fece una questione centrale. L'ammontare delle riparazioni fissato nel 1921 era addirittura superiore al patrimonio nazionale tedesco, ma fu in seguito fortemente ridotto creando le condizioni per la "politica di adempimento incondizionato" del governo Wirth. Alla fine la Germania "di fatto fece soltanto pagamenti limitati(6).

Tuttavia, questa è una valutazione retrospettiva, mentre è comprensibile che all'epoca fosse idea largamente diffusa che Versailles costituisse un attacco brutale alla Germania, un vero atto di rapina degli imperialismi vincitori ai danni della Germania sconfitta. Lo stesso KPD condivide questa valutazione e fa dell'abrogazione dei trattati un obiettivo specifico, una tra le fondamentali parole d'ordine degli anni Venti.

Ma fu Lenin nel 1919 e nel 1920 (ne L'estremismo) – per una volta d'accordo con i “sinistri” alla Gorter – a disapprovare energicamente l'opposizione del KPD alla firma del trattato di pace, con motivazioni che richiamavano quelle della pace di Brest Litowsk, lontanissime dunque dal pacifismo "al di sopra delle classi" degli Indipendenti. Il senso del ragionamento di Lenin è questo: in Germania stiamo lavorando per la rivoluzione comunista; bisogna mettere in conto che, se raggiungiamo l'obiettivo, il futuro governo sovietico tedesco dovrà accettare di sottomettersi per un certo tempo alle condizioni di pace; è giusto perseguire l'alleanza tra Germania e Russia sovietica, ma solo nel contesto di un rafforzamento del movimento rivoluzionario Internazionale, unico baluardo reale contro ogni imperialismo; al di fuori di questo contesto, l'opposizione alla pace di Versailles è manifestazione di "nazionalismo piccolo borghese", e allo stesso modo sarebbe stato un errore se i bolscevichi non avessero accettato le altrettanto, se non più dure, condizioni di Brest-Litowsk. Bisognava concentrarsi sulla rivoluzione in Germania: tutto il resto era secondario.

La stessa IC non poteva però non denunciare il carattere imperialistico del trattato, come del resto fece tutto il movimento comunista, con poche eccezioni. Al di là delle motivazioni, pur fondate su un punto di vista di classe, la denuncia di Versailles conteneva degli elementi che potenzialmente avrebbero potuto portare acqua al mulino del nazionalismo tedesco, se alla denuncia dell'intento predatorio degli imperialismi dell'Intesa non si accompagnava una inequivocabile presa di distanza da ogni concessione a pulsioni nazionali degli sconfitti e non si teneva fermamente il timone del partito nella rotta segnata dal marxismo rivoluzionario. Era dunque compito del partito di classe porre sempre con estrema chiarezza la questione nei termini dettati dall'internazionalismo proletario: Versailles come attacco non alla Germania, ma alla rivoluzione mondiale, come fattore di divisione nel proletariato mondiale. La posizione di Lenin nel maggio 1920 è chiarissima e non lascia spazio e equivoci, concessioni, o “compromessi”: per lui, l'abolizione del trattato di Versailles non deve essere una rivendicazione specifica del movimento comunista.

                                                                             ***

Anche sul fronte borghese l'accettazione del trattato non fu senza resistenze (giugno 1919). Il governo Scheidemann cadde e fu sostituito dal governo Bauer. La maggioranza dell'Assemblea nazionale, la SPD, l'USPD e il Centro si assunsero la responsabilità di accettare le condizioni, ma il governo voleva il consenso dei generali e lo ottenne soprattutto per iniziativa del generale Groener (ministro della Reichswehr continuativamente, in governi diversi), mentre Hindenburg, comandante supremo dell'esercito, si dimise per testimoniare l'ostilità di gran parte dei quadri dell'esercito alle condizioni imposte dall'Intesa. La rivolta di Kapp, espressione del capitalismo agrario dell'Est, si spiega proprio con l'opposizione di una parte dei quadri di comando dell'esercito all'"onta" del trattato e con la crisi di quel  rapporto tra SPD e alti comandi che aveva consentito la repressione sanguinosa della prima fase della rivoluzione tedesca nella primavera del 1919.

La socialdemocrazia tedesca era stata fino ad allora incline al patriottismo e avrebbe potuto opporsi a Versailles e mettersi credibilmente a capo di una mobilitazione "nazionale" e "democratica" chiamando a raccolta tutto il popolo (lo sostiene A. Rosenberg, nella sua “Storia della Repubblica di Weimar”, cfr. nota 24), ma sarebbe stato troppo rischioso per gli equilibri interni e internazionali. Una ripresa del conflitto avrebbe comportato necessariamente una mobilitazione popolare carica di incognite e l'appoggio alla Russia bolscevica nella prospettiva evocata dagli amburghesi. Messa in questi termini, sarebbe stata una continuazione della guerra imperialista di cui si sarebbe però  assunta le responsabilità non il partito rivoluzionario di classe, ma la socialdemocrazia borghese. Il KPD sarebbe stato allora libero di lanciare nuovamente la parola d'ordine di Lenin: "trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria".

Fu il gruppo di Amburgo, in quanto espressione di una tendenza socialdemocratica radicale, a sostenere la soluzione nazionale, rivoluzionaria, democratica e popolare, cercando l'alleanza dell'esercito a scopi di guerra invece che di repressione interna. I "comunisti" di Amburgo furono così gli anticipatori di una impossibile "terza via"i cui connotati divennero chiari in correnti successive della stessa matrice socialdemocratica, come quella di Otto Strasser, interna al NSDAP, o di Niekisch, non a caso identificate anch'esse come "nazionalbolsceviche", poi liquidate nei primi anni del regime nazista, dopo aver compiuto il loro servizio per la controrivoluzione.

 

Sciopero contro Kapp e insurrezione nella Ruhr: prove di unità "antifascista"

Agli inizi del 1920, ampi settori dell'esercito intendono chiudere i conti con la Repubblica democratica e con il movimento operaio, dalla SPD alla KPD ai sindacati, considerati i responsabili della rovina della nazione. Il tentativo fallisce per la straordinaria risposta di uno sciopero praticamente spontaneo, a Berlino e in tutta la Germania, che priva il governo putschista Kapp-Luttwitz di qualunque possibilità di operare. Il KPD dà risposte incoerenti: inizialmente non aderisce allo sciopero per non correre in soccorso del governo socialdemocratico nemico degli operai rivoluzionari; poi aderisce allo sciopero unitario fino alla dichiarazione di "opposizione legale" a un eventuale governo operaio proposto dal bonzo sindacale Legien. Fu questo uno dei primi segnali di oscillazione tattica del partito tedesco, costantemente in bilico tra tendenze "estremiste" e spinte all'unità con i partiti operai per la costruzione di un "partito di massa". In realtà, la “proposta Legien” fa il paio con i proclami dai toni "rivoluzionari" dell'appello della SPD allo sciopero in risposta al putsch: è uno specchietto per le allodole per USPD e KPD, per coinvolgerli in una lotta unitaria di difesa dell'ordinamento democratico di Weimar. Il KPD cade nella trappola, anche se tra sbandamenti e ripensamenti.

Le oscillazioni e le contraddizioni di questa fase esprimono ancora le resistenze a un indirizzo non completamente maturato, ma che prenderà corpo nei mesi successivi. La vicenda Kapp segna da questo punto di vista l'inizio di un percorso – che si rivelerà alla fine fallimentare, e il cui esito fu chiaramente previsto dalla Sinistra italiana – finalizzato al rafforzamento dell'organizzazione tramite appelli alle masse e alle loro organizzazioni per coinvolgerle in lotte per obiettivi parziali, nell'intenzione di costringerle in tal modo a rivelare i propri limiti e contraddizioni. A monte di questo percorso, c'è una concezione del Partito che gli assegna il compito di avvicinare progressivamente le masse alla rivoluzione fino a conquistarne la maggioranza, premessa necessaria per l'attacco decisivo... che non verrà mai. Da qui derivano non solo la passività e l'inazione, ma anche la tendenza a fare concessioni sul terreno della propaganda verso le masse, anche a rischio di contraddire i capisaldi fondamentali della dottrina. Entro questa tendenza, che a partire dalla Germania coinvolgerà progressivamente l'Internazionale, troverà posto anche l'utilizzo del nazionalismo come fattore di mobilitazione delle masse, col solo risultato di creare confusione e disorientamento tra i proletari e portare acqua al mulino dell'avversario di classe.

Ma se nel 1920 è ancora presto perché simili sbandate passino senza suscitare drastiche condanne (7), il KPD sta imboccando la via dei compromessi e degli accordi con i gruppi dirigenti USPD in vista di una unificazione. Lo squilibrio tra la consistenza della due formazioni è così evidente da comportare il pericolo di una assimilazione della componente comunista in un raggruppamento con prevalente connotazione centrista entro un percorso che privilegia nettamente l'aspetto organizzativo. Sarà questo indirizzo tattico, più della debolezza dell'organizzazione, a determinare il ruolo subalterno e politicamente nefasto del partito di fronte all'evento straordinario dell'insurrezione nella Ruhr.

La Ruhr è la principale concentrazione operaia e l'unica zona dove la reazione del proletariato, che non ha ancora conosciuto sconfitte importanti, ha saputo collegarsi e unificarsi. L'insurrezione si presenta come un potente moto spontaneo in risposta al putsch di Kapp, e probabilmente "la più importante mobilitazione militare della storia del movimento operaio, dopo quella russa" (8). Si costituiscono comitati d'azione e si forma un'"armata rossa" di circa 80-100.000 proletari, che tra il 15 e il 16 marzo costringe la Reichswehr ad abbandonare la regione. Il proletariato della Ruhr resiste anche dopo la cessazione del movimento nel resto del Reich, ma è isolato. In alcune situazioni, il movimento tende ad andare oltre la difesa delle "conquiste" di Weimar, ma nell'insieme, pur se armato, rimane entro questo limite politico. Lo sciopero termina il 20 marzo; il 25 il KPD e gli altri partiti operai firmano l'accordo di Bielefeld: in cambio di vaghi impegni (Reichswehr fuori dalla Ruhr, punizione dei putschisti, avvio della socializzazione), si decide lo scioglimento dell'”armata rossa” e la restituzione delle armi. Quando la gran parte dei proletari armati che si riconoscono nel sindacalismo rivoluzionario e nell'opposizione comunista rifiuta l'accordo, la direzione KPD giudica l'iniziativa avventurista e Levi al IV congresso KPD fa passare una risoluzione che equivale a un'aperta presa di distanza dai "disturbatori" del processo (pacifico) di unificazione del proletariato – che equivale ad una legittimazione di fatto dell'imminente repressione.

La responsabilità della disfatta nella Ruhr ricade completamente sulla SPD e sull'USPD, attivi sabotatori nei comitati di sciopero e sempre pronti a evocare le motivazioni "nazionali" della lotta. Tuttavia, pesa sulla Centrale la responsabilità di non aver denunciato le manovre della SPD e il suo inevitabile tradimento. Levi, accusando il governo Ebert-Bauer di essersi limitato all'appello allo sciopero generale e di non aver chiamato alle armi tutto il proletariato tedesco, rafforzava l'illusione che la SPD fosse un partito proletario e come tale capace di lanciare un segnale insurrezionale, e non integralmente al servizio del capitale, come aveva già abbondantemente dimostrato d'essere in passato e come si apprestava a confermare di lì a pochi giorni, dando il via libera all'intervento della Reichswehr.

L'insurrezione della Ruhr è uno dei passaggi della "rivoluzione tedesca" dove risulta più evidente l'assenza del partito rivoluzionario. Il KPD non era in grado, né organizzativamente né politicamente, di mettersi alla guida del proletariato insorto. Rimane passivamente alla coda del movimento e ne adotta i limiti politici, non riconosce il carattere internazionale e le potenzialità della lotta nella Ruhr, le contraddizioni che essa ha aperto negli equilibri inter-imperialisti; non riconosce che la Ruhr era potenzialmente una nuova Comuneche, come la Comune, viene schiacciata dall'esercito nazionale, con l'avallo degli eserciti vittoriosi. Avrebbe potuto rappresentare un passaggio cruciale anche nella probabile sconfitta militare dell'improvvisata “armata rossa”, per l'enorme significato politico di una sollevazione armata di classe nel cuore dell'imperialismo europeo. I presupposti c'erano tutti, per la combattività straordinaria del proletariato e le forme insurrezionali che assunse (9).

Invece accadeva che proprio i putschisti (i freikorps inquadrati ora nella democratica Reichswehr) si prendevano nella Ruhr una sanguinosa rivincita sulla batosta subita dopo il tentativo di Kapp, intervenendo questa volta in difesa di Weimar. A quel punto, l'arco democratico in difesa della repubblica – si potrebbe dire, "antifascista" ante litteram – si estendeva obiettivamente dall'estrema destra al KPD. La sconfitta degli operai rivoluzionari della Ruhr segna la sconfitta dell'intero proletariato tedesco e uno spostamento dei rapporti di forza a favore della borghesia, che non a caso riprende il controllo diretto dell'Esecutivo con il governo Ferenbach (Centro), interrompendo la serie dei governi di coalizione a guida SPD. La SPD aveva intanto fornito l'ennesimo servizio al Capitale, organizzando la repressione dell'insurrezione con il rinnovato accordo con la Reichswehr. Ne usciva rafforzata la democrazia per ciò che rappresenta storicamente: la forma più compiuta di dittatura della classe borghese. In questo senso, la "rivoluzione" di novembre trovava piena realizzazione. Il KPD compiva un altro passo verso il legalitarismo, presentandosi alle elezioni per il Reichstag, in un percorso che lo allontanava dalla componente proletaria più avanzata che si espresse con un esteso astensionismo.

 

Mentre la centrale KPD persegue il rafforzamento del partito non attraverso una netta demarcazione dagli altri partiti operai, ma attraverso la fusione con la loro "sinistra", eventi decisivi come l'esito finale dell'insurrezione nella Ruhr segnano un costante indebolimento della forza proletaria, priva di una vera direzione. La nascita del KAPD, che formalizza la scissione del movimento comunista tedesco nei giorni immediatamente successivi alla controffersiva della Reichswehr nella Ruhr, è da un lato una conseguenza dell'inconsistenza politica del KPD, dei suoi sbandamenti in occasione del putsch di Kapp, dell'incapacità di guidare l'insurrezione, ma è anche il prodotto della debolezza dell'intero movimento comunista tedesco. Il KAPD è indubbiamente più votato all'azione, più determinato a lottare per la rivoluzione, agisce per obiettivi di classe e assume iniziative fortemente connotate in senso internazionalista. Il II congresso del partito, nell'agosto 1920, considera imminenti la crisi finale del capitalismo e l'incendio rivoluzionario. Mentre l'Armata Rossa è alle porte di Varsavia, il KAPD tenta di applicare il modello dell'azione esemplare che indica alle masse le modalità e gli scopi della lotta: assieme alle formazioni anarcosindacaliste dell'AAU e della FAUD, organizza il sabotaggio dei trasporti che, attraverso la Germania, dovrebbero far pervenire alla Polonia gli aiuti dell'Intesa. Viene tentata anche un'azione insurrezionale che però, fatta eccezione per alcune località, fallisce (10). KPD e USPD non vi aderiscono, a conferma di un atteggiamento "aprioristicamente negativo" nei confronti del KAPD, manifestato apertamente dai rappresentanti del KPD al II congresso dell'IC nei confronti dei delegati KAPD.

Tuttavia, la nuova organizzazione propone una concezione del rapporto masse-partito che, per quanto in forma diversa, comporta gli stessi limiti di quella della KPD: in  entrambe le concezioni c'è un "andare verso le masse", il KAPD proponendosi come esempio per attivare le masse a una lotta che esse devono condurre in modo sempre più consapevole (partito “delle masse), il KPD  proponendosi di organizzarle in un “partito di massa” che al momento opportuno, dopo aver conquistato la fiducia della gran parte del proletariato, sarà in grado di agire in senso rivoluzionario. Nel primo caso, si limita la funzione del partito all'azione di un'avanguardia che segna al proletariato la strada da percorrere; nel caso del KPD, questa volontà di conquistare la "fiducia" della masse si apre all'utilizzo di parole d'ordine completamente estranee all'identità classista, internazionalista e rivoluzionaria, non escluso il richiamo al nazionalismo. Questa linea è forse in grado nell'immediato di irrobustire organizzativamente il partito, ma nel tempo ne demolisce i presupposti teorici e politici. Con l'esaurirsi dell'energia rivoluzionaria delle masse, l'esito sarà per entrambe le formazioni disastroso: il KAPD uscirà dall'IC e sparirà ben presto dalla scena, il KPD, allontanandosi progressivamente dai presupposti programmatici del movimento, e incoraggiando la stessa IC ad un'analoga direzione, fallirà completamente la prova dell'azione rivoluzionaria senza combattere (1923).

Nei primi mesi del 1920, causa l'indirizzo scissionista di Levi, Il KPD si trova ad avere un peso organizzativo quasi insignificantesul piano politico, esso è frutto di un contraddittorio connubio tra un purismo "estremista" che rifiuta di unirsi in una lotta comune con l'odiata SPD e timori di ricaduta nel "putschismo" avventurista che segnò i primi tempi del KPD. Il tratto caratteristico che ne emerge è l'inazione, comunque motivata. Nel dibattito al IV congresso KPD, Radek interviene contro le tendenze opportuniste nel partito; tuttavia, la direzione è ormai segnata ed è quella indicata da Levi: la “costruzione di un partito di massa”, attraverso percorsi che privilegiano gli accordi e gli incontri tra partiti operai.

 Al II congresso dell'IC, in luglio, le “21 condizioni di adesione” metteranno un argine all'ingresso nell'Internazionale di elementi e formazioni centriste e opportuniste, compresa l'USPD tedesca, ma i limiti non saranno abbastanza stringenti – ricordiamo l'insistenza della Sinistra italiana per il massimo rigore in quelle condizioni (11) – e il congresso avvalora l'apertura a formazioni di dubbia solidità rivoluzionaria. L'indirizzo dell'IC avrà l'effetto di legittimare in Germania la politica della Centrale Levi nei confronti dell'USPD. In dicembre, dalla fusione tra sinistra USPD e KPD nasce il VKPD, un “partito di massa” con 400.000 membri, in buona parte di estrazione operaia, ma in cui l'originaria componente spartachista e rivoluzionaria è quasi assente, e in cui non mancano segnali di una potenziale deriva nazionalista (12).  Nondimeno, è un partito incomparabilmente più forte nei numeri del piccolo KPD e proprio per questo, nella prima fase della sua esistenza, fa sorgere al suo interno e in alcuni settori dell'IC l'illusione di poterlo lanciare immediatamente nella battaglia finale, risolvendo in tal modo le difficoltà in cui in quella fase si dibatte la Russia sovietica (la rivolta di Kronstadt, l'adozione della NEP al X congresso del PCR). La capacità di iniziativa del partito sarà messa alla prova pochi mesi dopo il congresso di unificazione, con "l'azione di marzo".

 

1921-1922:  fronte unico nonostante tutto!

Ma prima che il partito si lanci in un'avventura votata alla sconfitta, l'inizio del 1921 vede ancora un'iniziativa "tattica" unitaria della Centrale KPD (ché solo di tali 'iniziative' era evidentemente capace, per altro lanciata dall'alto, senza alcuna preparazione dei militanti): con la "lettera aperta", il partito rivolgeva alle organizzazioni sindacali e ai tre partiti “operai” (SPD, USPD, KAPD) proposte per un'azione comune in difesa delle condizioni economiche del proletariato. L'idea era che gli obiettivi sarebbero stati condivisi da tutto il proletariato tedesco, ma solo i comunisti del KPD avrebbero saputo condurre con coerenza la battaglia, mentre gli altri partiti operai avrebbero inevitabilmente rivelato i loro limiti e le loro reticenze. L'iniziativa fu respinta e il risultato fu una campagna di radiazione dei comunisti dai sindacati. Nella discussione in seno all' Esecutivo dell'IC, prevarrà infine la valutazione positiva di Lenin sulla tattica sottesa alla “lettera aperta”, contro le valutazioni opposte di Zinoviev e Bucharin. La tattica in sé aveva un senso se condotta da forze rivoluzionarie sane, in grado di attivare il partito nella battaglia quotidiana per preparare nelle masse le condizioni per la presa del potere, senza rischiare di fare concessioni agli opportunisti e di trasformare una tattica rivoluzionaria in un modo di esistenza del partito entro e non contro il sistema capitalistico. Questo rischio c'era e si rivelò in seguito reale, ma era già leggibile nell'estensione dell'appello a partiti controrivoluzionari come l'USPD e la SPD e nella condanna delle "scissioni meccaniche" modello Livorno da parte del segretario Levi.

Che questa tendenza di destra contenesse in sé tutti i prodromi di successive derive della peggior specie, e che le questioni sollevate dalla "lettera aperta" non fossero riducibili a contrasti sulla tattica, ma toccassero in realtà i presupposti teorici e di principio del movimento comunista, risulta chiaro dall'intervento di Levi a una riunione di partito in cui arrivò a sostenere che "non accade più oggi che potenze imperialistiche affrontino potenze imperialistiche, ma sono le nazioni oppresse del mondo intero ad affrontare gli oppressori capeggiati dagli Stati dell'Intesa" [...] Perciò  "era tempo che gli oppressi di tutti i paesi [...] affrontino in lotta i propri oppressori" (13)Evidentemente, il nucleo della "lettera aperta" conteneva tutto il percorso diritorno alle concezioni nazionalbolsceviche, passando in primo luogo per la recuperata unità dei partiti operai, il cui abbraccio non poteva essere su base classista – perché su questa base si provocano le scissioni "meccaniche" come quella "deprecabile" di Livorno! –  ma sulla base assai più larga delle concessioni all'ideologia democratica, popolare, nazionale, le sole in grado di "unificare" la nazione oppressa che si pretendeva fosse la Germania.

 

Non è qui il luogo per ripercorrere le vicende del KPD in quegli anni cruciali, dal 1921 al 1923, di cui interessa rilevare una "continuità nazionalbolscevica" che riemerge nei momenti decisivi, a riprova della assenza nel partito, in tutte le sue componenti e tendenze, di una solidità dottrinaria che lo rendesse immune da simili derive. Fu questa debolezza a portare il partito tedesco a oscillare tra un indirizzo tattico votato all'inazione e al compromesso e la propensione opposta, ugualmente votata alla sconfitta, di "forzare la rivoluzione". Il disastro dell'"azione di marzo" – una mobilitazione proletaria difensiva in una regione occupata da forze di polizia, forzata dal KPD a trasformarsi in azione insurrezionale senza alcuna preparazione – fu il prodotto di entrambe le tendenze, sia dell'impreparazione alla battaglia ereditata dalla prima, sia della propensione ad attaccare sempre e comunque, secondo i dettami della "teoria dell'offensiva" della seconda (14).

L'effetto della dura sconfitta del marzo, anche in seguito alle deliberazioni del III congresso internazionale e agli sforzi dell'IC, fu di riportare il partito tedesco ad un lavoro paziente di preparazione e di andata "verso le masse". Una correzione necessaria, rispetto agli eccessi della “teoria dell'offensiva”, ma che non poteva modificare la natura di un partito diviso tra due anime tanto inconciliabili quanto simmetriche e obiettivamente convergenti: una destra che continuò a essere prevalente anche dopo l'espulsione di Levi e una "sinistra" interna frazionista, che faceva del radicalismo demagogico (il giudizio è di Lenin) l'arma polemica contro i vertici del partito e della stessa Internazionale (accusata di fare gli interessi russi), nella presunzione di rappresentare la sola vera tendenza rivoluzionaria. Forse già questo era segno del nazionalismo ora aperto ora sotterraneo che percorse la storia del partito fin delle origini. I "sinistri" del KPD rimasero sempre cultori della "teoria dell'offensiva" rigidamente interpretata, e altrettanto rigidamente ostili alla tattica del “fronte unico”: ma non erano esenti da un esercizio "disinvolto" della tattica. Nel 1923 non si sarebbero fatti troppi scrupoli nell'utilizzare toni apertamente nazionalistici in occasione dell'occupazione francese della Ruhr. Evidentemente, per questi “rivoluzionari puri”, ogni espediente tornava buono pur di scatenare una qualche "offensiva" proletaria: anche far propri gli argomenti del nemico di classe.

Se è vero che la polemica della “sinistra” tedesca nei confronti dell'IC non si fondava su basi coerentemente rivoluzionarie, né nelle forme né nei contenuti, è però indubbio che nel 1921 maturarono svolte importanti in seno all'IC e che nel corso del 1922 queste condussero a un progressivo allontanamento dai princìpi fondanti del movimento comunista. Le sconfitte del proletariato nel 1920 mutano la prospettiva con cui i bolscevichi guardano – nel breve periodo – alla Germania. Alla fine del 1920, Lenin, davanti all'VIII congresso dei Soviet, si pronuncia sulla questione tedesca mettendo al primo posto il problema della sopravvivenza stessa del regime rivoluzionario in Russia. La Germania non cessa di essere considerata l'epicentro della futura rivoluzione mondiale, ma, in quanto stato capitalista e giocando sui contrasti inter-imperialistici, può rappresentare un aiuto alla Russia dei soviet in gravi difficoltà, impegnata nella NEP. L'obiettivo dei bolscevichi è resistere, aspettando il momento in cui si riproporranno le condizioni per una nuova ondata rivoluzionaria. In questo contesto, maturano una serie di accordi russo-tedeschi, culminanti nel 1922 con il “Trattato di Rapallo”, che assegna alla Germania la clausola di "nazione più favorita" e assume un notevole significato politico per l'abbandono delle riunioni ufficiali della Conferenza di Genova da parte di entrambe le delegazioni. Tanto la NEP quanto Rapallo sono imposti dalle necessità del momento e incontrano molte resistenze anche in seno all'Esecutivo dell'IC; ma da ciò a concludere che rappresentino l'abbandono dell'internazionalismo rivoluzionario in nome degli interessi della Russia sovietica ne corre parecchio. E' invece di questo avviso la "sinistra" tedesca, secondo la quale l'IC già nel '21 agiva come strumento dell'imperialismo russo orientato all'alleanza con l'imperialismo tedesco risorgente, e che la tattica del "fronte unico" – che avrebbe dovuto attrarre anche le masse piccolo-borghesi col richiamo del nazionalismo – era finalizzata a creare le condizioni politiche interne per promuovere l'alleanza stessa. Che la situazione presentasse potenzialmente dei seri pericoli per la continuità del programma comunista e ponesse all'ordine del giorno della riflessione del partito rivoluzionario la fondamentale questione della tattica, specie in una fase di stasi e arretramento, è fatto indiscutibile: ma proprio per questo era vitale che le sezioni nazionali non entrassero in sterili polemiche estremiste, bensì si disponessero a sostenere l'IC in un momento decisivo. Fu questo l'orientamento del PCd'I che, in vista del IV congresso, propose il "Progetto di tesi" sulla tattica dell'Internazionale Comunista (15).

 

Ritornando alla situazione in Germania, Rapallo testimonia che una frazione della borghesia tedesca intende giocare la carta di un rapporto privilegiato con la Russia per indurre l'Intesa a più miti consigli. Come dice Lenin, la borghesia tedesca odia la Russia rivoluzionaria, ma per necessità è indotta a un rapporto con essa. La borghesia tedesca non si apre a est per terrore della rivoluzione, ma non può essere filo-Intesa; la responsabilità dell'arrendevolezza verso le pretese dei vincitori è fatta ricadere tutta sulle spalle della SPD e della democrazia di Weimar. L'uccisione di Rathenau, uno dei principali artefici di Rapallo, è un favore fatto alle potenze occidentali che vedono allontanarsi il pericolo di un'alleanza russo-tedesca. L'attentato testimonia la forza delle organizzazioni nazionalistiche, ma rafforza la stessa democrazia weimeriana con la "legge di difesa della Repubblica” (cfr. più avanti). Si consolidano tanto l'apparato legale, incentrato sulla democratica Reichswehr e sul teatrino parlamentare, quanto l'apparato illegale borghese che utilizza la violenza omicida contro i "nemici della Germania" e si prepara alla prima prova di forza in Baviera l'anno successivo, mentre la pur ancora piccola NSDAP fa uso di alcune parole d'ordine "operaie" dell'avversario di classe. Il risultato delle svolte interne e internazionali è di spostare il baricentro della lotta politica dall'alternativa dittatura borghese/dittatura proletaria a quella dittatura/democrazia (nelle sue numerose accezioni). Il KPD, che già con la vicenda Kapp ha fatto esperienza di "blocco antifascista", non è in grado di mantenere saldo il timone nella prospettiva classista e rivoluzionaria. Già dopo l'attentato a Erzberger (agosto 1921), il suo organo di stampa, la “Rothe Fahne”, arriva a dichiarare che "la classe operaia ha il diritto e il dovere di assumere la difesa della repubblica nei confronti della reazione..." (16). L'anno seguente, "in Germania il corso precipitoso verso posizioni a dir poco equivoche e intermedie aveva fatto passi da gigante: estenuanti trattative con la socialdemocrazia per una manifestazione comune, poi naufragata, ai funerali di Rathenau; finale intervento isolato del partito al grido di 'repubblica! repubblica'" (17).

Il declino della rivoluzione tedesca verso l'antifascismo (il termine diviene popolare in Germania dopo la marcia su Roma) è una tendenza, non ancora un dato definitivo. Tuttavia, l'IC fatica a fronteggiarlo, alle prese con le difficoltà in Russia e per l'evolvere della situazione internazionale, né certo gli indirizzi tattici del KPD – fronte unico politico e governo operaio – forniscono un sostegno rivoluzionario e internazionalista ai compagni russi.

 

Nel corso del 1921, nel contesto di una controffensiva internazionale delle forze capitaliste che costringe il movimento operaio sulla difensiva, matura la svolta decisiva dell'Esecutivo, che il 28 dicembre 1921 vota le “Tesi sul fronte unico proletario”. Esse propongono, da un lato, il sacrosanto richiamo alla lotta comune di tutti i proletari su obiettivi contingenti, nella prospettiva di una ripresa della direzione offensiva della lotta sotto la guida del partito rivoluzionario; dall'altra – riprendendo le iniziative del KPD – estendono l'appello unitario ai partiti sedicenti "operai", in vista di accordi e iniziative comuni, fino a contemplare la possibilità dell'appoggio a governi socialdemocratici. E' da questo momento che inizia il dissenso della Sinistra italiana. I richiami formali a mantenere in ogni iniziativa "l'indipendenza" del partito non sono sufficienti, per la Sinistra italiana, a impedire che il maneggio disinvolto della tattica induca la trasformazione e lo snaturamento del partito stesso, la cui identità si costituisce proprio sui fatti di cui si rende protagonista e sulla coerenza delle azioni in rapporto ai princìpi e agli scopi finali.

Nel corso dello stesso Esecutivo, vengono redatte le “Tesi sulla questione delle riparazioni”da cui si evince che per l'IC la risposta difensiva del proletariato tedesco all'affamamento cui lo condannavano Versailles e la criminale politica inflattiva del governo e dei centri di potere finanziario sarebbe dovuta passare attraverso un coinvolgimento dei socialdemocratici in governi "operai", quando tutta la vicenda tedesca del dopoguerra dimostrava, oltre alla natura controrivoluzionaria della SPD, anche l'incapacità delle coalizioni da essa guidate di difendere la condizione operaia.

In applicazione della tattica del ffronte unico, l'Esecutivo Allargato di febbraio-marzo 1922 accetta di partecipare a una conferenza delle tre Internazionali a Berlino e adotta la nuova parola d'ordine del "governo operaio", proposta dai delegati tedeschi. Prendendo a modello l'appoggio del KPD alle coalizioni governative SPD-USPD in Sassonia e Turingia, il "governo operaio" viene proposto come modello di tattica internazionale, le cui caratteristiche e modalità saranno precisate nel corso del IV congresso dell'IC.

La Sinistra "italiana" giudicò il passaggio "gravissimo", perché "dal campo dei rapporti fra partiti il fronte unico politico rischia di essere trasferito sul piano dei rapporti con lo Stato, il terreno specifico della nostra opposizione permanente e totale. Il delegato tedesco al Congresso di Roma del PCd'I parla senza veli di un 'governo operaio', cioè socialdemocratico, come eventuale 'governo antiborghese' da appoggiare non solo sul terreno parlamentare, ma, occorrendo, su quello della coalizione ministeriale" (18).

 

Purtroppo, l'interpretazione politica della tattica del “fronte unico” e la parola d'ordine del "governo operaio" – da applicare anche in Italia assieme a "rivoluzionari" della stoffa di Serrati! – verranno pienamente assunte dall'IC al IV congresso, pur con tutte le precisazioni, i distinguo soppesati col bilancino per non far emergere la contraddizione tra l'indirizzo tattico e gli obiettivi strategici che costituiscono la ragion d'essere del movimento. Le "Tesi sulla tattica" presentate dal PCd'I al IV congresso mondiale e poi al V saranno rinviate a discussioni future e poi archiviate: era stato un tentativo doveroso, rivelatosi purtroppo vano, di riportare la discussione sul terreno dei principi e su quelli costruire la tattica dell'IC (19).

Con le clausole vessatorie di Versailles, le potenze vincitrici e principalmente la Francia agiscono per trarre il massimo profitto dalla situazione e, sotto la minaccia di un nuovo intervento militare, avanzano richieste sempre più insostenibili e dalle ripercussioni pesantissime sulle condizioni di vita nella Germania sconfitta. La Renania è stabilmente occupata, mentre la Ruhr è oggetto delle mire francesi che operano per la sua separazione dalla Germania. Le elezioni a metà del 1920 segnano la sconfitta della socialdemocrazia, sulla quale gravano le responsabilità della politica delle riparazioni, e l'inizio di un biennio retto dalla democrazia cattolica (governo Fehrenbach). Contemporaneamente, inizia la fase di progressiva svalutazione del marco-carta, con un processo inflattivo che destabilizza completamente la situazione interna e consente al grande capitale di procedere a una colossale espropriazione di beni reali dei ceti medio e piccolo borghesi, di indebitarsi gratuitamente dalle banche private e più ancora dalla Reichsbank, di pagare tasse irrisorie, di ridurre drasticamente il valore dei salari reali e di guadagnare enormemente in competitività internazionale, incassando dall'export valuta pregiata. Lo Stato, per provvedere al finanziamento del fabbisogno corrente, emette buoni del Tesoro scontati a tassi crescenti e provvede a nuove emissioni di banconote. Con queste modalità, il grande capitale si prende una crudele rivincita dopo gli spaventi subiti per l'iniziativa proletaria nel biennio precedente.

Nel marzo 1921, alla Conferenza di Londra, il governo tedesco respinge la richiesta dell'Intesa del pagamento di un debito astronomico: per tutta risposta, le truppe dell'Intesa occupano Düsseldorf e Duisburg, poi impongono un ultimatum che prevede, in caso di rifiuto, l'occupazione della Ruhr. Il governo Fehrenbach rifiuta l'ultimatum e si dimette. Con il cancellierato Wirth, sostenuto da una coalizione formata da Centro, democratici, SPD, ha inizio la cosiddetta "politica d'adempimento", cioè l'impegno di pagare le riparazioni richieste per dimostrare la buona volontà della Germania e nello stesso tempo l'impossibilità per il paese di provvedervi, mettendo l'Intesa di fronte alla necessità di fare delle concessioni. Era una politica evidentemente suicida, destinata a rafforzare anziché indebolire l'accanimento francese. Nell'ottobre 1921, il plebiscito in Alta Slesia si pronuncia a favore della Germania, ma il Consiglio della Società delle Nazioni decide la spartizione del territorio tra Germania e Polonia.

La politica governativa e le penalizzazioni territoriali alimentavano la destra nazionalista, comprendente, oltre al tradizionale partito popolare tedesco (monarchico), una rete di organizzazioni militari illegali costituite da membri dei disciolti freikorps, e organizzazioni studentesche radicalmente ostili alla repubblica di Weimar. Per tutte queste formazioni, la bandiera nero-rosso-oro di Weimar simboleggiava la collaborazione delle tre forze che avevano tradito il paese: il Centro cattolico, la socialdemocrazia e una fantomatica “Internazionale giudaica”. Questa visione unificava l'odio verso la democrazia, il socialcomunismo e il grande capitale ebraico in una prospettiva nazionalrivoluzionaria a sfondo razziale, di cui si fece portatore il NSDAP di Hitler, fondato a Monaco nel 1920, il cui scopo principale in origine fu di allontanare i lavoratori tedeschi dalle organizzazioni socialiste e comuniste.

La Reichswehr intratteneva rapporti amichevoli con le formazioni segrete nazionaliste e ne garantiva la protezione dalle iniziative della magistratura e dai tentativi di ottenere il loro effettivo scioglimento. Esse furono utilizzate anche per scopi militari (repressione degli insorti polacchi in Alta Slesia, presidio dei confini con la Polonia), ma rappresentavano anzitutto una forza armata adatta alla repressione interna e alla messa in atto di azioni terroristiche. Nell'agosto 1921, viene assassinato Erzberger; nel giugno 1922, il ministro Rathenau. Quest'ultimo attentato era stato preceduto da centinaia di atti di violenza politica ad opera delle associazioni paramilitari nazionaliste, con la  complicità di apparati dello Stato e della Reichswehr. L'indignazione suscitata nelle masse da questi eventi spinse il KPD, nella solita prospettiva del fronte unico, a lanciare parole d'ordine che retrospettivamente si possono definire “antifasciste”, reclamanti misure contro le forze nazionaliste occulte e palesi. Questa volta, SPD, USPD e i sindacati AFA e ADGB si lasciano coinvolgere – quello della democrazia è sempre il loro terreno – e viene proclamato uno sciopero unitario per il 27 giugno. Si torna a parlare del "governo operaio" come via d'uscita politica alla crisi in corso, e l'idillio unitario partorisce l'"accordo di Berlino" che accoglie una serie di richieste di provvedimenti anti-monarchici presentate al governo Wirth. Lo sciopero ha un grande successo, ma ancora una volta la possente forza proletaria è messa al servizio di scopi altrui e maturano le premesse per una rapida fine dello spirito unitario. La KPD spinge per la costituzione di organismi del fronte unico nei sindacati e di comitati unitari e propone un nuovo sciopero generale a sostegno della prospettiva del governo operaio. Su questo terreno, la SPD si rifiuta di collaborare e in pochi giorni, assieme a USPD e sindacati, denuncia l'unità d'azione con i comunisti. Intanto, il Reichstag approva la "legge in difesa della repubblica" che affida a polizia e tribunali il compito di difendere le istituzioni repubblicane. Il KPD è l'unico partito a non firmarla, avvertendone la funzione essenzialmente anti-proletaria: ma in definitiva questo fu il risultato dell'ennesima iniziativa di "fronte unico". Com'era facilmente prevedibile, il tribunale speciale istituito dalla legge finì per comminare innumerevoli condanne ai "sovversivi comunisti”, mentre si rivelò assai benevola nei confronti delle associazioni segrete nazionalistiche.

Nella circostanza, il KPD era rimasto inevitabilmente irretito nelle conseguenze dell'appello unitario, il cui significato politico era inequivocabilmente antifascista e di difesa della repubblica democratica. Finché il partito era rimasto su questo terreno, il fronte unico aveva funzionato, ma non appena il KPD richiese ai... compari di superare di un passo questo limite, proponendo iniziative di stampo anche solo vagamente classista, il fronte unico finì come doveva finire: a pezzi. Era la dimostrazione palese dell'impossibilità di separare la tattica dagli scopi ultimi, ritenendo di poterli perseguire semplicemente limitandosi a dichiararli, magari mille e mille volte, senza farli vivere in ogni azione del partito, non per ossequio alla coerenza, ma per coscienza del vincolo di necessità che lega ogni atto allo scopo finale, tanto più in un partito che ha tra i suoi fondamenti teorici il principio materialista che l'azione precede il pensiero. All'ennesima riprova della natura controrivoluzionaria della socialdemocrazia – e quanti esempi ve ne furono in quegli anni! –  il KPD, invece di interrogarsi e rivedere tutte le questioni sul tappeto, insistette sulla tattica del "fronte unico nonostante tutto" sulla base del rispetto degli accordi di Berlino.

 

Forza organizzativa, debolezza tattica

Tuttavia, la situazione del KPD andava migliorando sotto l'aspetto organizzativo. Fra il 1921 e il 1922, gli iscritti al partito, composto per il 90% di operai in maggioranza giovani, aumentarono di circa 100.000 unità. Cresceva l'influenza nei sindacati e nel movimento dei consigli di fabbrica, che nel corso del 1922 riprendeva vigore al di fuori dell'organizzazione ufficiale sancita dalla Costituzione di Weimar. Dopo l'assassinio di Rathenau, il partito sviluppò con successo l'attività di comitati di controllo proletari per la lotta contro il carovita e la vigilanza nei confronti dei preparativi reazionari. La presenza del partito crebbe notevolmente anche nei comitati dei disoccupati, aperti per loro stessa natura alle tendenze più radicali. La crescente influenza del partito nelle lotte economiche fu soprattutto la conseguenza del sostegno dato ai due grandi scioperi che scoppiarono nei primi mesi del 1922: dei ferrovieri e dei metallurgici. Il KPD fu l'unico partito incondizionatamente al fianco degli operai, lavorò per l'estensione della lotta alle altre categorie, organizzò azioni di solidarietà e di sostegno finanziario, sostenne la volontà degli operai di continuare la lotta contro i continui tentativi dei burocrati sindacali di sabotarla. La lotta in effetti si estese temporaneamente ad altri settori, ma non si generalizzò e si concluse con soluzioni di compromesso.

Non si può dunque negare al partito il merito – unico tra le organizzazioni operaie – di aver lottato al fianco dei lavoratori e di averne sostenuto con determinazione gli obiettivi immediati. La rinnovata forza organizzativa del partito, il suo radicamento, se da una parte erano il risultato della parte "buona" della tattica del fronte unico (la partecipazione agli organismi di massa proletari e alle loro battaglie), dall'altra erano la conseguenza del precipitare della crisi economica e sociale (che comportava una istintiva radicalizzazione) e della crisi della socialdemocrazia, ormai completamente screditata agli occhi dei settori più avanzati del proletariato alla disperata ricerca di una guida e un fineMa l'obiettivo tattico proposto dal KPD in questa fase rimane il "governo operaio" insieme ai traditori di sempre. L'accordo di Berlino seguito all'attentato a Rathenau costituì un passaggio decisivo in questa politica fallimentare che condannava il partito alla sconfitta e paradossalmente fornì alla socialdemocrazia, sempre più in difficoltà, gli argomenti per riunificarsi (settembre 1922) e  proclamarsi unica legittima forza unitaria dei lavoratori, contro il "settarismo" dei comunisti. Tutta la forza potenziale accumulata nelle battaglie quotidiane si rivolgeva infatti a un obiettivo che legava le sorti del partito a quelle degli altri partiti "operai", ne svalutava la differenza specifica, confondeva gli obiettivi, allontanava lo scopo ultimo spostandolo a un momento successivo al raggiungimento di una "tappa" intermedia. Al proletariato tedesco non mancò dunque l'organizzazione, mancò la guida politica organizzata in grado di indirizzare la forza proletaria verso scopi sì immediati, ma coerenti con l'obiettivo finale e con i princìpi del movimento comunista.

Il problema di partecipare o sostenere "governi operai" si era già posto concretamente in Sassonia alla fine del 1920 e in Turingia nel settembre 1921. Erano state scelte orientate al "male minore", che però comportavano notevoli conseguenze sul piano politico, coinvolgevano il KPD in una politica moderata e votata alla conservazione dell'esistente e si riflettevano sulla stessa situazione del partito, orientandolo sempre più verso scelte "concrete" e di opportunità che lo allontanavano dalla giusta direttrice (20). Le risoluzioni finali del IV congresso dell'IC avevano confermato la tattica del "fronte unico" e la parola d'ordine del "governo operaio" come "conseguenza inevitabile di tutta la tattica del fronte unico". Esse tuttavia avvertivano dei pericoli insiti in un'errata interpretazione di questa tattica, insistevano sulla forza e indipendenza del partito di classe come condizioni essenziali per la sua applicazione e concludevano che l'unico autentico “governo operaio” è quello costituito dal solo partito comunista.

Ma la possibilità di una interpretazione più elastica e "possibilista" venne colta al volo dalla direzione del KPD, quando la crisi del governo Wirth (novembre 1922) fece uscire la questione dall'ambito della teoria, rendendola improvvisamente attuale, questa volta nel contesto del Reich. Il KPD redige allora un appello ai lavoratori tedeschi in cui propone gli obiettivi di un possibile governo operaio, precisando però che questo dovrebbe fondarsi non su coalizioni parlamentari ma sulla forza organizzata del proletariato. La partecipazione al governo, e non una semplice "opposizione legale" del partito, inizialmente esclusa, viene in seguito considerata possibile, a certe condizioni (21).

La sinistra del partito accusa di opportunismo l'indirizzo tattico elaborato dalla Centrale, ma la critica si fonda essenzialmente sull'orientamento ostinatamente e pregiudizialmente "offensivo" del gruppo, che porta alcuni settori del KPD a lanciarsi nell'azione, con esiti disastrosi (22). Sul finire del 1922, le sconfitte operaie rinvigoriscono l'arroganza dei capitalisti che passano, loro sì, decisamente all'offensiva: ai coraggiosi tentativi di resistenza operaia, come uno "sciopero selvaggio" di sei settimane alla Badische Anilin per reazione al licenziamento di tre delegati del consiglio di fabbrica, i padroni rispondono con migliaia di licenziamentiSono tutti segni dell'approssimarsi della resa dei conti nel conflitto proletariato-borghesia in Germania: la borghesia è forte dei suoi successi economici e politici, ed è organizzata politicamente e militarmente; il proletariato è indebolito dalle sconfitte degli anni precedenti, ma non è ancora domato; le sue organizzazioni immediate sono forti, come è ancora forte la volontà di lottare. Le vicende drammatiche del 1923 confermeranno che il fattore decisivo che mancò in tutte le fasi della rivoluzione tedesca fu la guida cosciente del partito. Assieme all'insistenza sulla tattica fallimentare del governo operaio e del fronte unico politico, nel 1923, in seguito all'occupazione francese della Ruhr, il KPD agiterà la “questione nazionale tedesca come fattore rivoluzionario”: si approprierà di parole d'ordine borghesi, capitolando sul terreno dei principi all'avversario di classe.

1923

Nel novembre 1922, dunque, la caduta del governo del Centro cattolico pone fine alla "politica di adempimento". Il nuovo governo Cuno – espressione della destra – adotta una linea di maggiore resistenza alle richieste dell'Intesa, con l'appoggio di tutti i partiti rappresentati al Reichstag, tranne il KPD. Da parte sua, il governo francese di Poincaré, dopo un ultimatum con il quale esige i pagamenti stabiliti, ordina l'occupazione della Ruhr. L'esercito franco-belga entra nella regione l'11 gennaio.

L'intervento militare mirava a garantire le forniture carbonifere alle industrie siderurgiche in Lorena e ciò minacciava in primo luogo l'industria carbonifera della Gran Bretagna, che si dichiarò contraria all'intervento. Ma la questione riguardava principalmente i rapporti di forze in Europa e nel mondo: dopo il 1919, i francesi avevano incoraggiato la nascita di un movimento separatista in Renania con l'obiettivo di creare uno stato indipendente, base di un dominio francese in Europa e di un'asse economica franco-tedesca che avrebbe marginalizzato la Gran Bretagna. Allo scopo, erano in corso trattative per stabilire le percentuali di partecipazione a un trust franco tedesco, nel corso delle quali l'industriale e uomo politico di punta Hugo Stinnes aveva dichiarato di non essere disposto ad accontentarsi del 40% riservato al capitale tedesco. Il quadro dei rapporti inter-imperialisti fu ben sintetizzato dall'economista Eugen Varga: "di fronte al sistema continentale imperialista francese si erge sempre più compatto il sistema del mercato mondiale anglo-americano" (cit. in Broué, p.641).

Il governo tedesco risponde all'occupazione col blocco dell'apparato amministrativo della regione e delle attività economiche, in particolare delle miniere. Si verificano immediatamente scioperi nelle miniere e nelle ferrovie, ai quali le autorità militari di occupazione rispondono assumendo direttamente la gestione delle ferrovie e espellendo 1400 ferrovieri tedeschi. Il governo Cuno e la Reichswehr coordinano l'intervento di estremisti nazionalisti e di ex corpi franchi per azioni di sabotaggio nelle zone occupate che hanno lo scopo di sollevare la popolazione tedesca contro gli occupanti. Mentre la SPD appoggia incondizionatamente la nuova Union Sacrée, il KPD lancia l'appello alla lotta senza distinzioni contro la borghesia francese e tedesca, che continuano a fare affari sulla pelle dei proletari, e avverte il proletariato di non cadere nella trappola del nazionalismo su cui specula la borghesia tedesca per garantirsi il "50% di Stinnes". Se il governo Cuno incoraggia gli scioperi di solidarietà con i padroni delle industrie oggetto di interventi repressivi, la propaganda francese cerca di speculare sull'avversione dei proletari della Ruhr contro i loro padroni, affermando che l'intervento militare è rivolto contro i borghesi, non contro gli operai. In questa prima fase della complessa e durissima "partita a tre" che si gioca nella Ruhr (capitale tedesco, capitale francese, proletariato rivoluzionario), il KPD mantiene ancora la rotta nell'unica direzione possibile: lotta di classe, internazionalismo proletario. Il proletariato della Ruhr si pone spontaneamente su questo terreno: manifesta contro la disoccupazione e la miseria, desolidarizza con i propri padroni, insorge contro gli occupanti che non garantiscono gli approvvigionamenti. Si mostra sordo alle sirene nazionaliste, ma le azioni di sabotaggio dell'estrema destra provocano durissime ritorsioni degli occupanti che non esitano a ricorrere alle armi, e ciò rinfocola l'odio nazionale che rischia col tempo di offuscare la discriminante dell'appartenenza classista. La solitudine e l'accerchiamento del proletariato possono essere spezzati solo dall'aiuto attivo del proletariato francese: l'IC lavora per organizzare una conferenza a Francoforte per una campagna europea contro l'occupazione; nello stesso tempo, cerca attivare il PCF per iniziative di solidarietà internazionalista, mentre il KPD organizza azioni di propaganda internazionalista tra le truppe di occupazione. Tutti questi sforzi portarono a scarsi risultati. Se di fatto, non si verificarono importanti manifestazioni di solidarietà internazionalista con il proletariato della Ruhr, assieme ad altri fattori non potè non avere un peso l'affiorare, nel dibattito interno al KPD dei mesi precedenti, di accenti nazional - rivoluzionari.

La situazione presentava difficoltà obiettive che riproponevano, in alcuni settori del KPD e dell'IC, la tendenza – già sperimentata e teorizzata – a cercare scorciatoie che si adattassero alle situazioni concrete, dalle quali trarre parole d'ordine estranee alla tradizione classista e internazionalista da utilizzare per scopi rivoluzionari. A metà febbraio, esce sulla rivista "Die Internationale" un articolo di Tahlheimer che assegna alla resistenza della borghesia tedesca "suo malgrado un ruolo obiettivamente rivoluzionario" e considera la sconfitta dell'imperialismo francese nella Ruhr "un obiettivo comunista" (cit. in Broué, p.646)Una posizione del genere comportava un impegno del partito a lottare fianco a fianco con la propria borghesia per obiettivi nazionali, salvo poi, in un secondo momento, abbattere il potere della borghesia e affrontare l'imperialismo straniero. Anche qui, come nella tattica del "governo operaio", compare l'idea di una “tappa intermedia nella prospettiva della conquista del potere”.

L'articolo non può non provocare reazioni molto forti nel partito, a cominciare dalla solita Ruth Fischer che vi vede la longa manus di Mosca e la riprova – dopo Rapallo – che questa si sia convertita alla prospettiva "nazionalbolscevica" di un'alleanza strategica col nazionalismo e il militarismo tedeschi (23). In realtà, la logica in cui si muove l'Esecutivo rimane ancora quella di intervenire sulle contraddizioni tra gli imperialismi per rafforzare il corso della rivoluzione mondiale, ma è anche vero che le iniziative tattiche messe in atto dall'IC e più ancora dal KPD costituiscono i presupposti di una degenerazione che è ancora di là da venire e che la Fischer ritiene invece un fatto compiuto.

Intanto, mentre la tensione tra la popolazione civile e gli eserciti occupanti sale e la repressione infierisce, i padroni sono assai più accomodanti e si oppongono sia allo sciopero generale sia al blocco della produzione. L'estrazione di carbone non fu mai sospesa, perché i padroni quando si tratta di scegliere tra il profitto e la patria non hanno tentennamenti: "la cosiddetta 'resistenza passiva' tedesca dell'anno 1923 è quindi una autentica leggenda" (24). Anche le annunciate intenzioni di Cuno di bloccare l'inflazione trovarono l'opposizione dei settori del capitale industriale e finanziario che lucravano grazie all'export, alle speculazioni di borsa, alla caduta verticale dei salari, alla spoliazione delle classi medie completamente private dei loro risparmi e costrette ad alienare i propri beni (dimostrazione che, dall'accumulazione originaria al compimento della sua evoluzione storica nella forma concentrata e anonima dei grandi gruppi azionari, il Capitale si rivela nemico della proprietà privata individuale e opera per il suo annientamento). Il grande capitale fu artefice di una violenta offensiva di classe contro la grande maggioranza della popolazione tedesca, creando i presupposti per una proletarizzarione di massa che sembrava dovesse preludere inevitabilmente ad una esplosione rivoluzionaria.

In questo quadro catastrofico che unisce occupazione militare e crisi sociale estrema, si salda una obiettiva alleanza tra borghesia tedesca e borghesia francese. Negli anni precedenti – nel 1920 in particolare, ma si può risalire fino al grande sciopero spontaneo dei minatori del 1889 – il proletariato della Ruhr si era rivelato il più combattivo e organizzato della Germania, al punto da mettere in scacco la Reichswehr per un periodo relativamente lungo, facendo apparire lo spettro della rivoluzione proletaria ben oltre i confini tedeschi. L'occupazione della Ruhr sottopose quel proletariato ad una doppia pressione: militare (con il suo portato di repressione e controllo del territorio) e ideologica (con il nazionalismo estremista che agiva per deviare l'attenzione sulla questione della resistenza nazionale). Ciò significava attaccare militarmente e ideologicamente la forza del proletariato tedesco nel suo centro vitale, isolarlo e nel contempo privare il resto del proletariato tedesco dell'apporto fondamentale del suo settore tradizionalmente più combattivo, proprio nel momento in cui era più forte la pressione sulle condizioni di vita operaie – e non solo operaie – in tutta la Germania. Se è poco verosimile che questo sia stato il frutto di un "piano" concordato tra borghesie, nondimeno si può affermare che nella Ruhr si svolse un'operazione dell'imperialismo mondiale contro il cuore del proletariato internazionale. La questione che si trattasse del proletariato "tedesco" della Ruhr era dunque del tutto secondaria rispetto alla sua disposizione a porsi sul terreno rivoluzionario e internazionalista come aveva dimostrato nel 1920 e nel corso dei moti di classe nel 1923, sui quali lo storico Nolte commenta: "Disordini come questi possono aver contribuito a che nessuna delle due parti andasse 'jusqu'au bout' [fino in fondo – NdR], come da parte francese lo richiedeva Charles Maurras e da parte tedesca Adolf Hitler: i Francesi non intrapresero una 'marcia su Berlino' e i tedeschi non trasformarono la regione della Ruhr in un inferno di fiamme" (25).

Lo svolgersi della crisi della Ruhr rimane probabilmente uno dei fattori decisivi nel fallimento dell'ultimo tentativo del proletariato rivoluzionario in Europa a conclusione del ciclo 1917-1923, il cosiddetto "ottobre tedesco". A questo fallimento diede senz'altro un contributo determinante lo sbandamento che a un certo punto coinvolse l'insieme del KPD, in ossequio a parole d'ordine che intendevano sfruttare le tensioni nazionali per obiettivi di classe. La vera sconfitta si consumò nella Ruhr, e a cedere non fu il generoso proletariato che ancora una volta fu esemplare, ma la sua guida politica che, rincorrendo gli aleatori vantaggi di una propaganda interclassista, sacrificò il principio elementare dell'internazionalismo proletario. La vera guerra che si combatté nella Ruhr fu tra nazionalismo e internazionalismo, fu uno scontro tra rivoluzione e controrivoluzione, e proprio sul terreno dei principi il KPD cedette le armi (26) .

 

Intanto, in marzo, mentre la Ruhr è in fiamme, in Sassonia si creano le condizioni per la costituzione di un governo operaio retto dal socialdemocratico di sinistra Zeigner. Il KPD, con l'approvazione della Centrale, sostiene il governo ponendo alcune condizioni, ma rinunciando ad altre più radicali. La Centrale approva l'operato dei comunisti sassoni, ma dalla sinistra del distretto Berlino-Brandeburgo arriva l'accusa di opportunismo alla politica seguita in Sassonia e la proposta della parola d'ordine della "repubblica operaia della Ruhr", da dove sarebbe potuto partire il segnale rivoluzionario per tutta la Germania. La Centrale di Brandler viene accusata, non senza ragione, di sostenere la democrazia e "strizzare l'occhio alla Costituzione di Weimar". Di rimando, la Zetkin, per la Centrale, rispolvera i rischi di avventure "putschiste". La risoluzione della Centrale prevale infine con una maggioranza minima. Su queste due questioni – governo operaio e Ruhr – , il KPD è nettamente spaccato e rischia la scissione. D'altra parte, le accuse lanciate dalla sinistra sono, nei toni e nella sostanza, di una durezza inaudita, mettono in discussione ogni disciplina interna e sono obiettivamente frazioniste. Interviene l'Esecutivo dell'IC, convocando a Mosca i rappresentanti dell'opposizione di sinistra. La risoluzione uscita dall'incontro (non c'era Lenin, colpito dalla malattia) e apparsa sulla “Rote Fahne” del 13 maggio, riconosce l'esistenza nel KPD di deviazioni "di destra" e "di sinistra" e tenta in questo modo di ricucire la lacerazione nel Partito. Nella sostanza, però, dà un giudizio positivo sulla politica seguita in Sassonia e considera un limite che il KPD non si sia impegnato per estenderla a scala nazionale; la parola d'ordine della "repubblica operaia della Ruhr" viene sconfessata, mentre la tesi del ruolo obiettivamente rivoluzionario della borghesia tedesca vittima di Versailles viene fortemente ridimensionata. Tuttavia, la risoluzione non è priva di accenni a una tattica rivolta ai sentimenti nazionalistici delle masse tedesche, alle quali il KPD deve spiegare pazientemente che "solo la classe operaia, dopo la vittoria, sarà in condizione di difendere il suolo tedesco, i tesori della civiltà tedesca, l'avvenire della nazione tedesca" (27). Il"compromesso di Mosca" si concretizza nella cooptazione di alcuni esponenti della sinistra nella Centrale che ridanno una compattezza formale al partito.

In maggio, mentre alcuni preoccupanti segnali sembrano annunciare l'imminenza di un intervento militare dell'Intesa contro la Russia, la Germania è attraversata da grandi dimostrazioni in sua difesa. A metà del mese, Radek ha appena dichiarato a nome della Centrale che non esistono ancora "le condizioni preliminari, la volontà rivoluzionaria della maggioranza dei proletari" per instaurare la dittatura del proletariato, che nella Ruhr esplode una violenta sommossa contro l'aumento dei prezzi seguito all'ennesima ondata speculativa. E' uno sciopero spontaneo e selvaggio, fuori dal controllo dei sindacati e dello stesso KPD. Il movimento rifluisce dopo due settimane con la concessione di un consistente aumento dei salari: una conquista assolutamente priva di valore nel contesto dell'inflazione a mille, ma accettata dalla Centrale e dalla stessa sinistra, evidentemente paga del "compromesso di Mosca", come condizione per la ripresa del lavoro.

Broué (p.658) riporta stralci della lettera che l'alto funzionario tedesco Lutterbeck indirizzò al comando francese, sollecitandolo a intervenire per reprimere la sommossa della Ruhr che rischiava di contagiare l'intera Germania e lo stesso esercito francese che "non è costituito solo da materiale inanimato, fucili, mitragliatrici e carri armati; uomini con occhi e orecchie portano queste armi"; o almeno – chiede il funzionario – "lasciare libere le autorità tedesche di compiere il proprio [dovere, NdR]... Mi permetto di ricordare a questo proposito che, al tempo della sollevazione della Comune di Parigi, il comando tedesco fece del suo meglio per venire incontro alle esigenze delle autorità francesi in vista della repressione".

L'aspetto paradossale è dover riconoscere che in un frangente decisivo come questo la borghesia si mostra a suo modo più "internazionalista" del partito proletario e della stessa IC; quantomeno dimostra di saper riconoscere immediatamente il carattere internazionale e decisivo della partita che si sta giocando nella Ruhr, mentre il KPD e la stessa IC manifestano una completa passività su questioni così vitali e un agitarsi su prospettive che si riveleranno altrettanti vicoli ciechi, come i “governi operai”. Ripercorrendo questi eventi, si conferma la netta impressione che la "temperatura delle masse" fosse qui giunta al punto critico e che fosse venuto il momento, pena la dispersione dell'energia accumulata, di lanciarsi nella battaglia per il potere con "audacia, audacia e ancora audacia".

 

Assieme alla acutissima polarizzazione sociale – da un lato enormi masse proletarizzate e immiserite, dall'altro la creazione di enormi ricchezze speculative – , la crisi azzerava l'influenza della socialdemocrazia e dei sindacati, abilitati a campare in una situazione di rapporti capitalistici "normali", garanti del "giusto prezzo" del lavoro, dei "diritti", e così via. I sindacati si sfasciavano anche organizzativamente, perché migliaia di burocrati e funzionari erano pagati con carta straccia come tutti i salariati. Nessuna "conquista" parziale si poteva porre all'ordine del giorno, ma solo la presa del potere politico, la dittatura proletaria. Se la crisi stessa si era fatta carico di sgombrare il campo dai tradizionali nemici entro le file proletarie, anche la politica del "fronte unico" poteva essere interpretata a maggior ragione solo in un modo: "dal basso", a diretto contatto col proletariato, escludendo i dirigenti traditori. Nel corso del 1923, le file del KPD si ingrossano costantemente, si rafforza la presenza delle "frazioni comuniste" nei sindacati, crescono gli organismi di massa controllati dal partito (consigli di fabbrica rivoluzionari, comitati di controllo). Le “centurie proletarie”, base della struttura militare del partito, appaiono dal marzo 1923, dapprima nella Ruhr, poi in altre località. In maggio, vengono dichiarate illegali, tranne che in Sassonia e Turingia dove conoscono il massimo sviluppo, ma sono disarmate. Pur formate in prevalenza da militanti comunisti, si propongono come organismi del "fronte unico", non come milizia di partito. Si tratta di un limite enorme che le qualifica come organismi di difesa, non finalizzati alla conquista del potere.

Per contro, l'estrema destra nazionalista che in questa fase ottiene un consenso sempre più ampio tra le masse di piccola borghesia proletarizzata, dispone di strutture militari di tutto rispetto, naturalmente finanziate dal grande capitale e sotto lo sguardo quanto meno tollerante della Reichswehr (che per suo conto organizza più o meno segretamente strutture militari formalmente illegali, raggruppate nella cosiddetta "Reichswehr nera"). Il 1° settembre, a Norimberga, le SA hitleriane sfilano in 70mila, armate fino ai denti.

La forza crescente dei nazional-rivoluzionari significava che la borghesia stava approntando tutti gli strumenti, legali e illegali, per fronteggiare l'attacco proletario o passare all'attacco a sua volta, e che l'esercito nemico si stava preparando per la decisiva battaglia di classe. La forza, indubbiamente temibile, dell'avversario, e in particolare della sua componente fascista, fu presa dalla Centrale – fortemente impregnata di “antiputschismo” alla Levi (di cui Brandler ripeterà la traiettoria) - come pretesto per non prendere l'iniziativa e attardarsi su percorsi di "rafforzamento". Anche ammesso che nel 1923 i rapporti di forza fossero in assoluto svantaggiosi, è sempre al più debole che conviene attaccare, specie per un partito che ha come arma fondamentale, prima ancora di quelle materiali (dove le forze rivoluzionarie saranno sempre in inferiorità), la chiarezza del programma e la solidità dei princìpi (28).

 

La "linea Schlageter"

La risposta del partito alla crescente influenza del nazionalismo radicale sta nel rivolgersi alle masse piccolo-borghesi per convincerle che solo l'alleanza del proletariato potrà dare una soluzione alla “questione nazionale tedesca”. Dalla metà di maggio, negli stessi giorni in cui esplode la rivolta di classe nella Ruhr, il KPD si fa carico apertamente della “questione nazionale”, lancia appelli alle masse orientate in senso nazionalista, tanto che la rivista nazionalista "Gewissen" pubblica commenti compiaciuti sul "senso nazionale" dei comunisti. Poiché  Zinov'ev considererà questi articoli "il più grande complimento" e il riconoscimento della natura "non corporativa" del partito, si ha l'impressione che lo sbandamento sia totale anche a livello di Esecutivo dell'IC (per spiegare questa crisi, vanno tenute in considerazione sia la lotta contro Trotsky condotta in questo periodo dai "triumviri" nel partito russo sia le enormi difficoltà interne).  All''Esecutivo allargato che si tiene in giugno, e che pone all'ordine del giorno il "pericolo fascista", Radek sottolinea l'importanza della "questione nazionale" in Germania e propone l'adozione di una linea dichiaratamente "nazionalbolscevica": "E' significativo che un giornale nazionalsocialista prenda nettamente posizione contro i sospetti di cui i comunisti sono oggetto: esso li addita come un partito combattivo che diventa sempre più nazionalbolscevico. Il nazionalbolscevismo rappresentava nel 1920 un tentativo a favore di certi generali; oggi esprime l'unanime convinzione che la salvezza è nelle mani del partito comunista. Solo noi siamo in grado di trovare una via d'uscita alla situazione attuale della Germania. Porre la nazione in primo piano significa, in Germania come nelle colonie, compiere un atto rivoluzionario" (cit. in Broué, p.674).

Il giudizio di Radek sul gruppo di Amburgo appare eccessivamente – e forse volutamente – riduttivo. Prima di entrare in contatto con i comandi della Reichswehr, i nazionalbolscevichi hanno sviluppato una concezione organica e coerente di "socialismo nazionale" che Radek tre anni dopo riprende in termini di tattica, come fattore decisivo e irrinunciabile di mobilitazione delle masse. Non c'è una netta distanza politica tra le due concezioni, se non nel senso che la prima si presentava già bell'e pronta nel suo anti-marxismo, mentre la seconda matura nel progressivo degenerare del movimento comunista tedesco e internazionale attraverso una serie di svolte tattiche. Radek avrebbe piuttosto dovuto riconoscere, alla luce delle nuove parole d'ordine nazionali, che gli amburghesi avevano saputo prevedere fin dal 1919, anno della ratifica di Versailles, le ripercussioni di quei trattati sulla situazione tedesca: ma ammetterlo significava rimettere in discussione tutta la storia del KPD, a partire da Heidelberg.

All'Esecutivo allargato di giugno questa linea comunque passa con poche voci di dissenso. Radek insiste sulla tesi di una Germania ridotta al livello di una colonia per giustificare il ruolo del KPD di guida dell'"antagonismo nazionale" delle masse piccolo-borghesi proletarizzate. Il rapporto della Zetkin sottolinea la minaccia costituita dal fascismo e critica il PCd'I per averlo ridotto a movimento terroristico senza coglierlo nel suo significato sociale: le era sfuggito che il PCd'I aveva svolto un ampio rapporto al IV congresso dell'IC, nel quale il fascismo veniva presentato come un fenomeno essenzialmente politico, capace di interpretare abilmente gli umori delle mezze classi (29). Nella discussione sul rapporto Zetkin, Radek pronuncia il celebre discorso su Schlageter "Pellegrino del nulla", dove traspare, qui sì, molto chiaramente, la sostanziale incomprensione del fascismo tedesco. Schlageter, martire della Ruhr, viene portato ad esempio del nazionalista idealista, convinto di fare il bene del popolo: "Se i fascisti tedeschi che vogliono servire lealmente il loro popolo non comprendono il senso del destino di Schlageter, egli sarà morto davvero invano..." (30). Bisognava dunque, secondo questa visione, rivolgersi alle masse nazionaliste, costituite nella grande maggioranza da lavoratori, per portarle sulla strada della rivoluzione comunista. Si legge dunque nel discorso di Radek:

"Tuttavia noi crediamo che la grande maggioranza delle masse agitata da sentimenti nazionalistici appartengono non al campo del capitale ma al campo del lavoro. Noi vogliamo cercare e trovare la via per raggiungere queste masse e ci riusciremo. Noi faremo di tutto perché uomini come Schlageter, pronti a donare la loro vita per una causa comune, non diventino pellegrini del nulla, ma pellegrini di un avvenire migliore per l'umanità intera, perché essi non spargano il loro sangue generoso a profitto dei baroni del ferro e del carbone, ma per la causa del grande popolo lavoratore tedesco, il quale fa parte della famiglia dei popoli che lottano per la loro liberazione" (cit. in Broué, p. 676).

In questo passaggio, Radek riprende un carattere fondamentale dell'ideologia degli amburghesi i quali sostenevano che ormai il "popolo tedesco” era costituito nella stragrande maggioranza da proletari, dominati da un'esigua minoranza di rappresentanti del grande capitale. Nel linguaggio che si adegua a esprimere i nuovi contenuti, l'uso di termini classisti come "proletariato" si riduce per lasciare il posto a quello di "popolo lavoratore", ecc.: ma ciò che è importante sottolineare è che in questa concezione, se da un lato vi è una sopravvalutazione del fascismo come minaccia militare e soprattutto ideologica, parallelamente viene sottovalutata la capacità della borghesia nel suo insieme di organizzarsi come classe, con tutti gli strumenti a disposizione, per agire con determinazione in senso controrivoluzionario. Il fascismo era il frutto di una reazione della borghesia alla minaccia proletaria, ed era inevitabile che, nella polarizzazione che caratterizza sempre una crisi rivoluzionaria, componenti importanti di piccola borghesia e anche settori operai subissero l'influenza dell'ideologia nazionalista, propagandata dai mezzi potentissimi a disposizione del capitale.

L'errore fatale dell'IC in quella fase non fu evidentemente nell'iniziativa di rivolgersi alle masse piccolo-borghesi influenzate dal nazionalismo, ma nel porsi sul terreno del nemico di classe dal punto di vista ideologico, contrabbandando i princìpi in vista di un successo immediato nello scontro politico. Un simile atteggiamento ha un solo nome: opportunismo. Quattro anni dopo l'espulsione del gruppo di Amburgo, le tesi nazionalbolsceviche avevano trovato accoglienza nel partito tedesco e nell'IC.

 

Note

1- Fattori di razza e nazione nella teoria marxista, Milano, 1976, pag.75.

2- Idem, pag.108.

3- "Con elementi nazionalisti, radicali, fascisti di sinistra, fonderanno dapprima la 'Kommunistischen Bunden', poi, un istituto per lo studio del Comunismo tedesco. Nel 1923 finiranno con l'avere frequenti contatti coi nazisti nell'illusione, abbastanza diffusa, che il nazismo delle origini operi in senso anti-capitalista  (E.Rutigliano, Linskommunismus e rivoluzione in Occidente, Dedalo libri, nota 22, pag.267). Friz Wolffheim, formatosi nelle combattive schiere degli IWW d'America, poi fondatore con Laufenberg della corrente nazionalbolscevica tedesca, arriva nel 1923 all'aperto anticomunismo (Broué, Rivoluzione in Germania, Einaudi, 1977, p.686).

4- Authier-Barrot, Sinistra comunista in Germania, Salamandra, 1981, p.19.

5- Vedi in proposito “Guerra e rivoluzione”, “battaglia comunista”, n.10, 1950.

6-  E. Nolte, La Repubblica di Weimar, Christian Marinotti ed., 2006, pag.101.

7- Al IV congresso del KPD, poche sono le voci che prendono le difese dell'idea di un "governo operaio", qualificato da Béla Kun come '"utopia reazionaria", mentre Radek denuncia il "cretinismo governativo" alla base della "dichiarazione di opposizione legale".

8- "Revue internationale", n.90, III trimestre 1997 (rivista ciclostilata di un gruppo internazionalista danese).

9- Sull'argomento vedi E. Nolte, Nazionalismo e bolscevismo, Sansoni, pp.75-76.

10- E.Rutigliano, Linskommunismus e rivoluzione in Occidente, cit. p.37.

11- Al riguardo, rimandiamo sempre al II volume della nostra Storia della sinistra comunista, cit.

12- Su questa fase, vedi Storia della sinistra comunista, Vol. III, ed. Il programma comunista, cap. VI, pp.332-340.

13- Cfr. Storia della sinistra comunista, Vol. III, nota 30, p.345.

14- Sull'"azione di marzo" e la "teoria dell'offensiva" vedi Storia della sinistra comunista, Vol.III, p.360 e seguenti.

15 - Le tesi sono riportate in In difesa della continuità del programma comunista, edizioni Il programma comunista. Su Rapallo, vedi Storia della sinistra comunista, Vol. IV, p.312-317, e Vol. V (in preparazione).

16- Cit. in O. Flechtheim, Il partito comunista tedesco (KPD) nel periodo della Repubblica di Weimar, Jaca Book, 1970, p.187.

17- In difesa della continuità del programma comunista, cit., pag. 60-61. Nello stesso testo, cfr. i riferimenti al dissenso del PCd'I sulla tattica (p. 32) e alla questione delle riparazioni (nota 8, p.32).

18- In difesa della continuità del programma comunista, cit. pp.57- 58. "Domandiamo – risponde nell'occasione Bordiga al rappresentante tedesco – se si vuole l'alleanza coi socialdemocratici per fare ciò che essi sanno, possono e vogliono fare, oppure per chiedere loro ciò che non sanno, non possono e non vogliono fare", e dichiara lapidariamente che "tale atteggiamento si oppone a tutti quanti i principi fondamentali del comunismo. Perché, se accettassimo questa formula politica, verremmo a lacerare la nostra bandiera sulla quale è scritto: ''Non esiste governo proletario che non sia costituito sulla base della vittoria rivoluzionaria del proletariato''".

19- “Proprio perché il partito non è una macchina bruta, né un esercito passivo ma un organismo che è sì fattore ma anche prodotto degli eventi storici, la tattica reagisce sulla collettività che la pratica modificandola – se discordante dalle basi programmatiche – nella sua struttura, nella sua capacità di agire, nei suoi modi di operare, e, alla lunga, nei suoi stessi principi, per quanto accanitamente e sinceramente ci si proponga di difenderli”, in In difesa della continuità..., cit. p.55. Vedi anche le “Tesi di Roma (marzo 1922), nello stesso testo, e "Arciboiata: il socialismo nazionale" in “Battaglia comunista”, n.16/1950. Il PCd'I aderì pienamente alla tattica del fronte unico e si attivò per applicarla con tutti i mezzi, intendendolo nell'unica accezione possibile per un partito rivoluzionario: fronte unico sindacale. L'azione del partito è rivolta ai proletari senza distinzioni e dunque passa attraverso una sua presenza nelle organizzazioni economiche, non attraverso rapporti con loro rappresentanze politiche. Il rifiuto categorico di quest'ultima opzione deriva dalla certezza che l'isolamento (organizzativo e dottrinale) del partito di classe non è un fattore di debolezza, ma di forza. L'armamento teorico e dottrinale, la sua identità politica, rappresentano l'elemento decisivo in vista della vittoria finale assai più dell'aspetto organizzativo in sé, anche dal punto di vista dell'eventuale inquadramento militare. La forza militare del partito è in funzione della sua forza dottrinale, non viceversa, e da questo punto di vista gli eventi del 1923 tedesco sono evidentissima conferma. Vano è dunque, nelle fasi di debolezza, difficoltà, sconfitta, cercare di rompere l'isolamento del partito attraverso possibili alleanze con formazioni politiche, perché ciò comporta necessariamente fare concessioni dottrinali, avvalorarne l'affinità agli occhi delle masse, aderire a parole d'ordine altrui, confondersi con altri organismi, porsi come uno dei partiti operai e non come il partito di classetutto ciò equivale a disarmare il partito. La Sinistra “italiana” intervenne nell'IC su queste fondamentali questioni senza mai cedere su nulla che riguardasse i princìpi, fino al 1926 (congresso di Lione), quando ormai l'IC aveva imboccato definitivamente una direzione che la portava fuori dal solco tracciato dal marxismo rivoluzionario. E fece questo senza mai rompere con la disciplina internazionale, non certo per adesione a un concetto formale di disciplina, ma perché cosciente che il processo degenerativo che si andava compiendo nell'IC non dipendeva da errori e deviazioni di gruppi, se non addirittura di persone, ma da forze sociali e storiche che indirizzavano materialisticamente le scelte che andavano maturando. Erano queste l'effetto delle sconfitte subite in Germania tra il 1920 e il 1921, alle quali si sarebbe potuto ancora porre rimedio – passando al momento opportuno alla controffensiva – se l'IC avesse mantenuto la rotta stabilita nei primi due congressi (e in parte nel terzo) e non si fossero cercate scorciatoie e soluzioni di compromesso nell'illusione di farne utile strumento per superare le fasi di difficoltà. Fu la Sinistra "italiana", e solo essa, che in questo processo si assunse il compito di salvaguardare per l'avvenire il nucleo fondante del movimento. In quel frangente decisivo, furono invece le "parole d'ordine" lanciate dalla Germania a far breccia nell'Internazionale e a deviarla dal solco storico del movimento comunista.

20- Il congresso internazionale aveva riproposto la centralità della questione tedesca nella prospettiva della rivoluzione mondiale. Radek presentò un programma di transizione orientato alla creazione di un capitalismo di Stato. La fase attuale – scriveva nel suo rapporto – vedeva il capitalismo all'offensiva e bisognava proporre degli obiettivi  immediati che rilanciassero la lotta difensiva del proletariato e facessero da "trampolino di lancio" dell'assalto finale al potere. La prospettiva di Radek trovò una sponda nel rappresentante della Centrale tedesca che insistette sulla parola d'ordine del fronte unico, attribuendo un valore positivo all'accordo di Berlino e agli accordi di vertice con la socialdemocrazia. Bucharin e Zinov'ev erano invece orientati ad appoggiare le critiche della sinistra tedesca e a interpretare la questione del “governo operaio” come pseudonimo di dittatura proletaria, mentre Radek lo definisce come "un possibile passaggio verso al dittatura proletaria" (cfr. Broué,Rivoluzione in Germania, cit., p.624).

21- Tale passaggio sarebbe avvenuto su indicazione di Radek, che affermò di esprimersi a titolo personale. A suo dire, Lenin aveva approvato, ma con riserva, perché male informato. (cfr. Broué, Rivoluzione in Germania, cit., p.611.) Al congresso di Lipsia (fine gennaio 1923), Brandler  presentò le "Tesi sulla tattica del fronte unico e del governo operaio", come tentativo di applicazione delle risoluzioni del congresso internazionale: in esse, si ritrova tra l'altro l'idea che della rivoluzione ha lo spartachismo – come completamento di un processo, e non come conquista violenta del potere politico – applicata alla tattica del fronte unico: "Il fronte unico rivoluzionario organizzato nei consigli operai politici per il rovesciamento della borghesia non si situa al principio ma alla fine della lotta per conquistare le masse al comunismo" (cit. in Broué, Rivoluzione in Germania, p.630). Le Tesi riprendono la parola d'ordine del “governo operaio” più o meno nei termini delle risoluzioni del IV congresso dell'IC, ma con una rilevanza che le assegna una posizione centrale nella tattica del partito: è una possibilità che il partito deve saper valutare in ragione della situazione generale e che non esclude in via di principio di parteciparvi direttamente, a due condizioni – l'armamento del proletariato e il riconoscimento del ruolo legislativo degli organismi del fronte unico proletario (consigli operai), da intendersi come il vero fondamento di un autentico “governo operaio”.

22- I dirigenti del distretto di Berlino-Brandeburgo promuovono per il 15 ottobre a Berlino un assalto contro una riunione di estrema destra, che finisce male in seguito all'intervento della polizia: un morto, cinquanta feriti e numerosi arresti tra i militanti comunisti, sui quali sarà sperimentata la nuova legge di difesa della repubblica.

23- La Fischer portava a sostegno della sua tesi un passaggio di un discorso di Bucharin al IV congresso (riportato in Broué, cit. p. 647). Vedi anche l'osservazione – condivisibile – di Broué (nota 41, p.650) a proposito della distorsione retrospettiva delle valutazioni della Fischer e altri sinistri. Non altrettanto condivisibile la sua tesi a proposito dell'articolo di Thalheimer, secondo la quale egli avrebbe inteso polemizzare con gli estremisti, "sempre alla ricerca di una scorciatoia per accelerare la crisi rivoluzionaria". Anche quella proposta da Thalheimer era senz'altro una scorciatoia, e delle più nefaste.

24-  A. Rosenberg, Storia della Repubblica di Weimar, ed. Leonardo, 1945, p.153.

25- E. Nolte, La Repubblica di Weimar, cit. p.120

26 - Sappiamo che la "questione nazionale" non è mai stato un tema di facile soluzione entro il movimento comunista, e che le stesse tesi del II congresso dell'IC non vi avevano dato una "sistemazione compiuta", ma in nessun caso il rapporto di oppressione che lega ad esempio l'Irlanda al Regno Unito può essere esteso ai rapporti tra Paesi imperialisti:  "il pericolo era ed è […] di estrapolare questi casi-limite applicandoli, come nel 1923, alla Germania ultracapitalistica, e trarne pretesto per 'appoggiare' come potenzialmente rivoluzionaria la agitazione nazionalista e perfino nazista contro l'occupazione francese della Ruhr e contro le clausole jugulatorie della pace di Versailles". La sinistra italiana lanciò "per prima l'allarme sulla falsa trasposizione della grandiosa prospettiva 1920 al caso di paesi ultracapitalisti, in cui 'la questione nazionale e l'ideologia patriottica sono diretti espedienti controrivoluzionari, tendenti al disarmo di classe del proletariato'" (Storia della sinistra comunista.Vol. III, p.640-42).

27- In Broué, Rivoluzione in Germania, cit.p. 657, ripreso anche a p.673.

28- Sul 1923 tedesco, si rimanda agli scritti di Trotsky, La rivoluzione permanente, Einaudi 1967, e La III Internazionale dopo Lenin, Schwartz editore, 1957.

29-  La Sinistra “italiana” aveva compreso pienamente la natura politica e sociale del fascismo e aveva ampiamente sviluppato il tema in un rapporto al IV congresso dell'IC (novembre 1922): "Ma il terzo fattore non gioca un ruolo meno importante nella genesi del potere fascista. Per creare accanto allo Stato un'organizzazione reazionaria illegale, occorreva arruolare elementi diversi da quelli che l'alta classe dominante poteva fornire dai suoi ranghi. Li si ottenne rivolgendosi a quegli strati delle classi medie che già abbiamo citato, e allettandoli con la difesa dei loro interessi. E' questo che il fascismo cercò di fare e che, bisogna riconoscere, gli è riuscito. Esso ha attinto partigiani negli strati più vicini al proletariato, come fra gli insoddisfatti della guerra, fra tutti i piccolo-borghesi, semi-borghesi, bottegai e mercanti e, soprattutto, tra gli elementi intellettuali della gioventù borghese che, aderendo al fascismo, ritrovano l'energia per riscattarsi moralmente e vestirsi della toga della lotta contro il movimento proletario e finiscono nel patriottismo e nell'imperialismo più esaltato. Questi elementi apportarono al fascismo un numero notevole di aderenti e gli permisero di organizzarsi militarmente."  (“Rapporto del PCd'I sul fascismo al IV congresso dell'IC”, novembre 1922, di prossimo inserimento nel nostro sito). Il PCd'I sostenne la necessità che il Partito operasse in direzione delle classi medie per sottrarle all'influenza della borghesia; nello stesso rapporto, il successo del fascismo tra le classi medie rurali viene attribuito ad una carenza politica del partito socialista: "Come si è già detto, i fascisti approfittarono del fatto che i socialisti non avevano mai avuto una loro politica agraria, e che certi elementi delle campagne, non direttamente appartenenti al proletariato, avevano interessi divergenti da quelli rappresentati dai socialisti. Il fascismo, pur utilizzando e dovendo utilizzare tutti i mezzi della violenza più selvaggia e brutale, seppe anche unire questi mezzi all'impiego della più cinica demagogia, e creare, con i contadini e perfino con salariati agricoli, delle organizzazioni di classe. In un certo senso, prese addirittura posizione contro i proprietari fondiari. Si sono avuti esempi di lotte sindacali dirette da fascisti, che mostravano una grande somiglianza con i metodi precedentemente seguiti dalle organizzazioni rosse. Noi non possiamo affatto considerare questo movimento, che crea con la costrizione e col terrore un'organizzazione sindacale, come una forma della lotta contro i datori di lavoro, ma d'altra parte non dobbiamo concludere che esso rappresenti un movimento degli imprenditori agricoli in senso proprio. La realtà è che il movimento fascista è un grande movimento unitario della classe dominante, capace di mettere al proprio servizio, utilizzare e sfruttare, tutti i mezzi, tutti gli interessi parziali e locali di gruppi di datori di lavoro agricoli e industriali " (Idem). E' chiaro che per il PCd'I riconoscere la necessità di un'azione politica verso le classi medie non poteva portare il partito ad assecondarne i pregiudizi nazionali e la ristretta visione.

30- La vicenda di Leo Schlageter rientra nei tentativi di gruppi nazionalisti tedeschi (corpi franchi, Reichswehr nera e altri) di fomentare una sollevazione nazionale nella Ruhr con attentati e sabotaggi contro gli occupanti. Schlageter, accusato di aver fatto saltare una linea ferroviaria, fu processato da un tribunale militare francese e condannato a morte. La propaganda di destra ne celebrò il martirio, mentre settori del KPD e dell'IC lo presero ad esempio di eroico sacrificio meritevole di miglior causa.

We use cookies

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.