DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Parte II.

Miseria della filosofia gramsciana

“La filosofia e lo studio del mondo reale sono tra loro

in rapporto come l’onanismo e l’amore sessuale”

Marx, Engels, L’Ideologia tedesca.

 

1. Gramscismo tenace e risorgente

Per i marxisti nessuna buona strategia e nessuna buona tattica possono scaturire da una “filosofia” eterodossa da un punto di vista del materialismo dialettico. Concepiamo la teoria rivoluzionaria del proletariato come un tutto unico, un unico corpo di dottrina e di prassi che descrive tutto il ciclo storico della società umana e ne anticipa l’inevitabile rottura rivoluzionaria. Dalla dimostrazione che la filosofia di Gramsci è tutto fuorché marxismo, ne consegue per necessità che, nonostante le affermazioni da lui fatte a Lione[1] o successive, secondo le quali il marxismo è «una filosofia che è anche una politica e una politica che è anche una filosofia»[2], la sua politica non fu né poteva essere fusa d’un pezzo solo con il programma autenticamente rivoluzionario che solo la Sinistra, in quel tempo, seppe coerentemente portare avanti sull’arena internazionale, e che nel secondo dopoguerra ha continuato strenuamente a difendere, sia pure in condizioni estremamente difficili di esistenza. Per la nostra scuola il materialismo storico e l’idealismo sono separati da un abisso – che non è solo fatto teorico, di correnti filosofiche; ma è un fatto di classe, meglio ancora, di lotte di classe. E ciò, tanto più è vero, in quanto noi riconosciamo facilmente il materialismo storico pulsare e combattere contro le ideologie idealistiche, anche in quelle antiche lotte di classe che, secoli o millenni prima del marxismo, contrapposero gli schiavi romani ai loro padroni, o i contadini tedeschi del XVI secolo, o i piccolo-borghesi, gli artigiani e i contadini poveri inglesi del XVII , contro i principi e i signori feudali, pur apparentemente sotto le bandiere del cristianesimo primitivo e della teologia riformata.

Perché, dunque, occuparsi oggi del pensiero filosofico di Gramsci? Da quanto si è detto, perché contrastarlo sul suo stesso terreno non è per noi un lusso teorico, ma una necessità vitale sulla quale ristabilire quei principî sulla cui base solamente sarà possibile condurre una battaglia non più criticamente ideologica, ma criticamente armata. Più precisamente, per le seguenti ragioni:

Innanzi tutto, perché Gramsci ha dato una interpretazione del marxismo destinata ad avere un’eco internazionale di gran lunga maggiore delle sue stesse aspettative. Essa è al centro di una vera e propria ondata ideologica che, ben orchestrata, trova facile humus in tutti gli strati sociali, nei paesi avanzati e in quelli in via di sviluppo. Studi su Gramsci e il gramscismo oggi saltano fuori dappertutto come funghi. Si tratti del Gramsci operaista e consiliarista; di quello dell’Internazionale in via di stalinizzazione e della fase detta “bolscevizzazione”; di quello anticipatore dei fronti unici e delle Costituenti nazionali; di quello delle alleanze con i contadini; di quello che corteggia gli intellettuali piccolo-borghesi; del Gramsci filosofo; del Gramsci letterato; del Gramsci anti-scientifico, antimaterialista, antiamericanista (o americanista? Non si è mai ben capito), chiunque ha potuto ritagliarsi su misura “il proprio Gramsci” prendendolo a modello di ogni ideologia controrivoluzionaria, su scala locale, regionale, nazionale ed internazionale.

Si pensava che l’Istituto Gramsci fosse stato sufficiente a spargere i germi del gramscismo in giro per il mondo, ma non è così. L’ultima creatura, in linea con i tempi, è l’International Gramsci Society, costituita a Roma nel 1988, con sede in Italia e negli Usa. Essa dichiara appunto che il pensiero di Gramsci può fornire alle più diverse tipologie di intellettuali, meglio se animati da pruriti cerebrali differenti, un sorprendente terreno di incontro, anzi, di identità.

Nessuna sorpresa, invece, nell’apprendere che a La Habana (e poteva essere altrove?) esiste una cattedra di studi gramsciani (non sappiamo se il concupito posto sia ancora in attesa di assegnazione; baroni nostrani “di sinistra”, fatevi sotto!). Nessuna sorpresa nello scoprire il fiorire di “comitati”, “convegni”, “istituti” da tutte le parti del mondo. Questo non è il segno di una marea rivoluzionaria montante. Questa è piuttosto la voce dell’opportunismo controrivoluzionario, bene avviluppato nel proprio sudario intellettuale socialdemocratico, che oggi parla anche con l’ideologia di Gramsci, domani, come ieri ricorrerà alle fucilate contro il proletariato insorto, come fu in Ungheria, in Germania, in Cina nel primo dopoguerra, nelle comuni di Varsavia e di Berlino nel secondo.

In secondo luogo, perché oggi il ricorso al dettato filosofico di Gramsci, spudoratamente definito da epigoni varicolori come “materialista”, crea ulteriore confusione tra le file del proletariato nel faticoso percorso del ristabilimento dottrinale[3]. Confusione quando si vogliano seguire le concezioni gramsciane sulla funzione storica del proletariato: «La classe operaia – scriveva Antonio - è l’unica forza che rappresenti gli interessi della nazione italiana nel quadro delle libertà e della cooperazione internazionale ... è oggi l’unica forza nazionale che possa salvare l’Italia dall’abisso in cui l’hanno spinta ... i capitalisti avidi solo di arricchimento individuale e di strapotere politico»[4]. O altrove: «Oggi la classe “nazionale” è il proletariato, è la moltitudine degli operai e contadini, dei lavoratori italiani, che non possono permettere il disgregamento della nazione, perché l’unità dello stato è la forma dell’organismo di produzione e di scambio costruito dal lavoro italiano, è il patrimonio di ricchezza sociale che i proletari vogliono portare nell’Internazionale Comunista»[5].

Non è, tutto ciò, fare confusione tra obiettivi della rivoluzione borghese e quelli della rivoluzione proletaria? Non significa in questo modo confondere l’organizzazione capitalistica della produzione (italiana o meno) con l’economia socialista, nella quale ci faremo beffe di qualsiasi inno alla ipertecnologia mirante all’iperproduttività, dal momento che tale economia sarà realizzata solo grazie ad uno sgonfiamento di enormi e pletorici settori della odierna produzione?

In terzo luogo perché, nonostante le precisazioni precedenti e le analisi che verranno esposte in seguito, nel movimento operaio internazionale la rivalutazione della figura di Gramsci ha contagiato un gran numero di militanti che, ignorando o non avendo approfondito le questioni teoriche che si posero nei primi anni della III Internazionale, vedono in lui un coraggioso baluardo contro lo stalinismo[6]. In particolare nei paesi di lingua inglese la “scoperta” di Gramsci è gravitata attorno ai concetti di “egemonia”, “intellettuale organico”, “blocco storico”, che hanno spopolato nelle accademie di ricerca sociologica, letteraria, strutturalista. In Italia ancora oggi, mistificando assai, c’è chi lo presenta come «il principale teorico del movimento operaio italiano» in quanto egli «ha cercato di applicare con rigore il metodo materialistico, di assimilare e arricchire le concezioni marxiste»[7].

Non è certamente buona la polemica che, per vincere, fa dire altrui cose non dette, e noi non ci atterremo ovviamente a questo metodo. E’ per questa ragione che ricorreremo ad estese citazioni dalle opere stesse di Gramsci, per far riferimento al suo pensiero originale. Abbiamo infatti la certezza che il Gramsci del biennio rosso, il Gramsci che, sull’onda del processo rivoluzionario in atto, cominciava pur tra errori ed esitazioni ad aprirsi alle tesi del comunismo rivoluzionario, non intendesse con le sbagliate posizioni di quegli anni anticipare di qualche decennio l’applicazione che delle sue idee verrà fatta dai suoi epigoni nella forma della più smaccata collaborazione di classe. E tuttavia molte delle sue elaborazioni “originali”, che non potrebbero certo uscire neppure per errore dalla penna di un militante della Sinistra, sono rivelatrici di una tendenza, di una incomprensione di fondo della teoria e della prassi della lotta rivoluzionaria, che ne faranno l’alfiere meglio utilizzabile, negli anni e nei decenni seguenti, nelle mani di una Internazionale Comunista ormai inesorabilmente avviata sul piano inclinato del socialismo in un solo paese e dell’alleanza con le mezze classi.

2. La “fortuna” di Gramsci.

La fortuna di Gramsci (e di un cospicuo numero di case editrici in tutte le lingue) sta nel fatto che la sua elaborazione filosofica, dietro la pretesa di migliorare e correggere il marxismo, ha potuto svilupparsi, decenni dopo la morte del suo autore, in un contesto economico e sociale internazionale in cui lo storico programma rivoluzionario è stato sconfitto da forze materiali reali e concrete, operanti nel tessuto vivo dei popoli del pianeta.

Queste forze, nel mondo occidentale, si sono identificate nell’aristocrazia operaia e in ampie frange di intellettuali antifascisti e di “sinistra”, senza partito per definizione e necessità storica, da una parte; dall’altra, in proletari sbandati, vittime del peggiore sfruttamento aziendale; in studenti imberbi che poco e male hanno studiato, in mancanza di lotte vive, le lotte di classe del passato; in no global che, ereditando la prassi senza principî del “movimento”, si illudono di garantirsi il proprio futuro attraverso le più svariate sfumature di pacifismo interclassista; e tutti costoro, anch’essi, rigorosamente senza-partito e anti-partito.

Nel mondo meno sviluppato, le forze che animano il cadavere del gramscismo si riconoscono nei movimenti per le varie “liberazioni nazionali” e per le politiche delle alleanze, nei partiti democratici nazional-popolari fino anche (e non desta sorpresa) a quelli che si richiamano al socialismo cristiano e alla teologia della liberazione[8], oppure anche in quelli che, fucile alla mano, lottano sì, ma per obiettivi dichiaratamente borghesi - il che, oggi, significa solo illudersi di poter dirottare qualche briciola di rendita finanziaria mondiale dagli Stati predatori a quelli predati.

L’attualità del gramscismo non sta dunque nella sua capacità di antivedere uno sviluppo storico che conduce all’abbattimento del capitalismo mondiale. Sta, al contrario, nel fatto di essere stato un sistema eterogeneo di idee, riflessioni e considerazioni il cui filo conduttore fu l’antimaterialismo idealista in filosofia, il volontarismo e lo spontaneismo in politica.

Contrariamente a quanto sostenuto dalla stampa riformista, la “fortuna” di Gramsci (e la sfortuna della rivoluzione internazionale) non è affatto legata all’internazionalismo del suo pensiero. E’ esatto proprio il contrario: gli elementi della politica di Gramsci che hanno riscosso successo sono quelli che derivano dal suo non-internazionalismo, dal suo atteggiamento chiuso su problemi locali e settoriali: l’azienda; il Mezzogiorno; gli intellettuali; il Risorgimento italiano; i contadini; il Vaticano; e via dicendo. Elementi che poi ogni movimento locale sparso per il mondo adatta alle proprie esigenze o velleità opportunistiche locali, trasformando in questo modo l’ideologia gramsciana in uno spurio movimento internazionale, la cui base d’appoggio, ben monolitica ed unitaria nonostante le differenze applicative e puramente formali, resta la classe piccolo-borghese. Da sempre gli esponenti intellettuali di questa classe, reinterpretando a vantaggio di questa la teoria rivoluzionaria del proletariato, ne fanno rimasticature adattate ai propri sfizi del momento, sempre e ovunque solo allo scopo di “avanzare concretamente”, di “meglio sviluppare il processo di ricomposizione unitaria delle forze della sinistra” ecc. In ciò appunto sta la funesta attualità di Gramsci. Nell’aver fornito, sotto la falsa etichetta di marxismo, ricette buone per tutte le salse e a tutte le latitudini, sotto le bandiere del “blocco storico” democratico nazional-popolare evoluto inevitabilmente nel più lurido collaborazionismo di classe; dell’ “egemonia” - non a torto vista dalle schiere opportuniste e traditrici come antitesi del termine e soprattutto del concetto di dittatura del proletariato; dell’antieconomicismo, ciò che cela semplicemente, sotto un brutto vocabolo, tutta l’incomprensione gramsciana del determinismo economico, elemento centrale che i rivoluzionari rivendicano pienamente, del materialismo storico; di una cosiddetta “etica della rivoluzione”, quale riforma sociale e perfino economica. Nelle pagine seguenti affronteremo, anche se per cenni, la “filosofia” di Gramsci quale esposta, principalmente, nei suoi Quaderni del carcere, ma i cui elementi rimangono marchio invariante attraverso tutta la sua produzione letteraria, giovanile o adulta.

E’ probabile che oggi Gramsci, il Gramsci momentaneo “alleato” della Sinistra nei primi anni di vita del PCd’I, il Gramsci dei grandi scioperi del 1919-1920 sarebbe a giusto titolo indignato, di fronte alle applicazioni che i suoi eredi hanno fatto del suo pensiero. Tuttavia, il primo a fare coscientemente enormi deformazioni del marxismo su basi non materialistiche è stato proprio lui, e non solo il Gramsci della galera e dell’isolamento, ma il Gramsci della prim’ora, quello delle grandi battaglie di classe dell’immediato primo dopoguerra. Non è un caso che da espressioni teoricamente confuse e che molto concedono al nemico, emergano vincenti posizioni come quelle di tutti i partiti stalinisti, poi convertiti alla democrazia (e in tanto più spregevoli), che li rendono i suoi legittimi esecutori testamentari.

3. Che cosa è la filosofia della prassi.

L’espressione “filosofia della prassi” non fu utilizzata dal detenuto Gramsci per uccellare la censura fascista, al posto di materialismo storico. Essa fu impiegata invece per evitare quest’ultima troppo impegnativa definizione – come ormai riconoscono anche i critici[9] - proprio perché tale espressione gli suonava «troppo legata ad una concezione deterministica e deteriore del marxismo».

La “filosofia della prassi”, che noi continuiamo ostinatamente a chiamare materialismo storico-dialettico, non è affatto il «lampo di pensiero filosofico» ancora guizzante nel giovane Marx della Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico; ma è invece la consolidata teoria rivoluzionaria del proletariato, che si erge sull’ininterrotta serie delle rivoluzioni del passato e si applica all’ultimo atto della successione di forme di produzione all’interno delle società classiste.

Pertanto è assolutamente falso (concezione taschiana della prima ora) che la filosofia della prassi - il marxismo - serva a condurre le masse «a una concezione superiore della vita». Il contenuto del marxismo non sta in un’espressione ideologica, la cui superiorità su tutte le altre sia sancita da un migliore uso della dialettica e della logica formale da trasmigrare in un proletariato incatenato alla schiavitù salariale. Questo sta nel suo presentarsi come militante grido di guerra contro l’intera organizzazione della società moderna, per rovesciarne completamente i suoi aspetti fondanti materiali e ideologici.

Eppure è proprio sulla base di una tale deformazione volontaristico-intellettualistica del marxismo, quale si presenta l’ideologia gramsciana atta a «costituire un blocco intellettuale di massa», che si è sviluppata, nel secondo dopoguerra, la politica interclassista dei partiti operai detti appunto “di massa”. I suoi cavalli di battaglia sono: cultura operaia-sviluppo della democrazia partecipativa-moralizzazione della vita politica-gradualismo e volontarismo. Meglio se a livello individuale: la conta dei voti non ne verrà compromessa, anche se la classe è morta e sepolta, e i papaveri dei partiti che ne hanno usurpato la storia possono tranquillamente continuare la loro fornicazione col potere borghese.

È patrimonio dell’idealismo “di sinistra”, con tutte le sue sfumature che passano da Gramsci a Tasca a Pannekoek (i nomi qui valgono solo come simboli di correnti non marxiste) ammettere che le condizioni materiali della società creano nella classe proletaria la coscienza necessaria per la critica sociale, per il salto rivoluzionario. È patrimonio del materialismo marxista, al contrario, sostenere e dimostrare con prove storiche a iosa, che, se si lascino agire sulle masse le condizioni materiali, queste ne soffocheranno necessariamente ogni tentativo di indipendenza ideologica. La rivoluzione non è un problema di coscienza, e l’educazione delle masse è impossibile.

«In breve, e in parole povere, la legge del determinismo economico dice che in ciascuna epoca l’opinione generalmente prevalente, il pensiero politico filosofico e religioso più accreditato e seguito è quello che corrisponde agli interessi della minoranza dominante che detiene nelle sue mani il privilegio e il potere […] Quando una società è in crisi, una delle caratteristiche della fase che allora si apre è il numero relativamente sempre più ristretto di persone che beneficiano del regime in vigore; tuttavia, l’ideologia rivoluzionaria non prevale nella massa ma in una sua minoranza di avanguardia in cui confluiscono persino elementi della classe dirigente. Per inerzia, e per effetto dei formidabili mezzi di fabbricazione delle opinioni di cui dispone ogni classe dominante, la massa muterà ideologie, filosofie e religioni solo in un lungo periodo successivo al crollo delle antiche impalcature di dominio» (“Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe”, Prometeo, n. 4. 1946).

Contro tutte le rivoluzioni culturali - da burletta quelle imbelli strombazzate in Europa, certo ben più serie quelle armate d’Oriente - noi abbiamo risposto che la “cultura” offerta in pasto ai proletari sarà sempre e soltanto quella nazionale e borghese, e non avrà nulla di comunista. Il proletariato mondiale da troppo tempo ha atteso la propria liberazione da altre classi, troppo a lungo si è immolato per rivoluzioni altrui. La teoria e la cultura proletaria stanno tutte nel programma storico del partito di classe, che nessuna Cultura borghese potrà surrogare. La borghesia ha affermato la propria cultura su tutto il pianeta da oltre due secoli. Sta al proletariato armato il compito, a lui fissato dalla storia, di distruggerla. Le basi dell’unica cultura proletaria che noi riconosciamo in questo svolto storico sono quelle che si esprimono con le armi nelle mani della classe, e rivolte prima di tutto contro coloro che porranno la questione del potere in termini di “rivoluzione delle coscienze”, di “conquiste culturali”. Il proletariato al quale noi ci rivolgiamo, e nel quale solo vediamo il progresso della storia, è formato da barbari illetterati che diventeranno uomini solo quando il loro cervello e il loro cuore sarà messo al servizio del Comunismo.

4. Dialogato filosofico postumo.

E’ possibile che Gramsci, nel corso del suo soggiorno a Mosca nel 1922-23, venisse in contatto - sia pure in modo incompleto - con le opere del filosofo menscevico A. Bogdanov. In queste opere, infatti, si incontrano alcune riflessioni riprese in modo puntuale nei Quaderni del carcere, tra l’altro anche quella - vero cavallo di battaglia gramsciano - della “cultura proletaria”. Com’è noto, si tratta proprio del Bogdanov fustigato da Lenin in Materialismo ed Empiriocriticismo a causa del suo continuo scivolamento verso una forma esplicita di idealismo oggettivo.

Ma Gramsci, tutto preso com’è dalla sua riscoperta del marxismo attraverso Croce e, talora, Bergson, si colloca un gradino al disotto dell’empiriomonismo russo, come dimostreremo subito, attraverso i suoi stessi scritti. Egli è piuttosto esponente della scuola soggettivistica ed immanentista, che con qualche gioco di prestigio fa scomparire il mondo naturale per farlo riemergere nella “coscienza” del soggetto, sia questo storico o a-storico. È su questa strada che Gramsci diviene, di fatto, l’araldo di una filosofia che non può che scadere nel volontarismo e fare del partito di classe una parte della classe che, da questa, si distinguerebbe solo perché animato dal sacro fuoco della “conoscenza”. Una filosofia che, ponendo l’opposizione tra volontà e materia, tra soggetto cosciente storicizzato e realtà esterna, diventa esangue dualismo nella misura in cui non rende la seconda un riflesso dell'attività del primo. Rovesciamento della prassi sì, certo: ma si tratta della prassi del marxismo rivoluzionario.

«L’esperienza viene così sostituita alla materia, e non minori alterazioni subisce la dialettica, “algebra della rivoluzione” secondo l’espressione di Herzen, già da Hegel frustrata nelle sue conclusioni da un’ultima sintesi metafisica (lo Stato superatore delle contraddizioni della società civile) che consacra l’insuperabilità del mondo capitalistico: essa viene sostituita dalla “innocua evoluzione”, come in quello che Marx chiamava il “merdoso positivismo” di Comte e Spencer, o svilita, come in Proudhon e nel revisionismo da Bernstein in poi, alla bottegaia “partita doppia” dei “lati buoni” e “cattivi” degli eventi, o mortificata e castrata come nel neoidealismo crociano [...] che, in opposizione ad Hegel, nega la dialettica della natura e ripudia il suo svolgersi tra i contrari, od opposti, per postulare una pacifica e asettica dialettica dei “distinti».[10]

a. La formula trinitaria di Sant’Antonio: empiriomonismo, immanentismo, soggettivismo.

Gramsci. «Cosa sono i fenomeni? Sono qualcosa di oggettivo, che esiste in sé e per sé, o sono qualità che l’uomo ha distinto in conseguenza dei suoi interessi pratici ... cioè della necessità di trovare un ordine nel mondo e di scrivere e classificare le cose? ... Posta l’affermazione che ciò che noi conosciamo nelle cose è niente altro che noi stessi, i nostri bisogni e i nostri interessi, cioè che le nostre conoscenze sono sovrastrutture ... è difficile evitare che si pensi a qualcosa di reale al di là di queste conoscenze» (Ms, pag. 40-41). Poco oltre, citando il celebre passo della Critica dell’economia politica secondo cui i rapporti giuridici e le forme dello Stato non possono essere compresi per se stessi né come forma evolutiva dello spirito umano, ma solo in quanto essi affondano le proprie radici nei rapporti materiali dell’esistenza, Gramsci, chiosando a modo suo, si chiede: «Ma tale consapevolezza è limitata al conflitto tra le forze materiali di produzione e i rapporti di produzione ... o si riferisce a ogni conoscenza consapevole? ... Cosa significherà in tal caso il termine di “monismo”? Non certo quello materialista né quello idealista, ma identità dei contrari nell’atto storico concreto, cioè attività umana (storia-spirito) in concreto, connessa indissolubilmente a una certa “materia” organizzata (storicizzata), alla natura trasformata dall’uomo» (Ms, pag. 44).

Tutto ciò non significa altro se non che Gramsci, non avendo mai rinunciato al suo idealismo giovanile, si configura una realtà “esterna” solo in quanto essa è “storicizzata”, cioè è vissuta dall’uomo e filtrata attraverso l’esperienza umana. Significa cioè che, prima dell’uomo e al di fuori d’esso la realtà, intesa come materia che ha una propria storia evolutiva autonoma, ed anche come realtà sociale, semplicemente non esiste. La “consapevolezza”, cioè l’atto conoscitivo, è resa possibile solo in quanto a quell’atto corrisponde un intervento di “trasformazione” da parte dell’uomo sulla natura. Applicando questa filosofia alla lotta di classe, si capirà come Gramsci non possa uscire da una visione spontaneista e volontarista del movimento rivoluzionario. La classe diventa rivoluzionaria solo quando “capisce” quale sia il suo destino storico, e questa consapevolezza essa acquisisce grazie alla “cultura”, al suo ruolo attivo nel processo produttivo.

Al contrario, nella corretta visione marxista, al partito vanno sì attribuite volontà e coscienza, ma anche «deve negarsi che esso si formi dal concorso di coscienza e volontà di individui di un gruppo, e che tale gruppo possa minimamente considerarsi al di fuori delle determinanti fisiche, economiche e sociali in tutta l’estensione della classe»[11]. E altrove: «La questione della coscienza individuale non è la base della formazione del partito: non solo ciascun proletario non può essere cosciente e tanto meno culturalmente padrone della dottrina di classe, ma nemmeno ciascun militante preso a sé, e tale garanzia non è data nemmeno dai capi. Essa consiste solo nella organica unità del partito. Come quindi è respinta ogni concezione di azione individuale o di azione di una massa non legata da preciso tessuto organizzativo, così lo è quella del partito come raggruppamento di sapienti, di illuminati o di coscienti, per essere sostituita da quella di un tessuto e di un sistema che nel seno della classe proletaria ha organicamente la funzione di esplicare il compito rivoluzionario in tutti i suoi aspetti e in tutte le complesse fasi»[12].

Non così può essere per Gramsci, che al partito ha sempre preferito gli organi immediati di classe (i Consigli di fabbrica, tra l’altro confusi con i Soviet), attraverso i quali si raggiunge un controllo operaio (di nuovo la coscienza!) sulla produzione. Non a caso per tutta la vita Gramsci vedrà nell’operaio non il salariato che produce plusvalore per il capitale, ma il produttore che è anche “tecnico”, che produce ricchezza sociale responsabilmente e che all’interno del sistema capitalistico, grazie alle forme di associazionismo operaio di cui era prodiga la II Internazionale, diventava consapevole di sé e della sua forza: «L’associazione ha lo scopo precipuo di educare al disinteresse: l’onestà, il lavoro, l’iniziativa vi diventano fini a se stessi, procurano solo soddisfazione intellettuale, gioia morale negli individui, non privilegi morali. La ricchezza che ognuno può produrre in misura superiore ai bisogni della vita immediata è della collettività, è patrimonio sociale ... Il lavoro è divenuto dovere morale, l’attività è gioia, non battaglia cruenta»[13].

Dalle fantasiose premesse sulla storicizzazione della realtà, modo mascherato per intendere che la realtà è creata dall’uomo in quanto divenire storico, si passa a forme di idealismo - volgare o no poco importa - con le quali Gramsci precisa i contorni della sua speculazione filosofica. «Non solo la filosofia della prassi è connessa all’immanentismo, ma anche alla concezione soggettiva della realtà, in quanto appunto la capovolge, spiegandola come fattore storico, come “soggettività storica di un gruppo sociale”» (Ms 191). In quest’ottica, che collega il materialismo storico all’immanentismo, tutto il divenire storico verrà inquadrato. «Senza l’uomo, cosa significherebbe la realtà dell’universo?», si chiede angosciato (Ms 55). E prosegue: «Senza l’attività dell’uomo, creatrice di tutti i valori, anche scientifici, cosa sarebbe l’ “oggettività”? Un caos, cioè niente, il vuoto... perché realmente, se si immagina che non esiste l’uomo, non si può immaginare la lingua e il pensiero» (che evidentemente consistono nella “realtà” oggettiva secondo Gramsci: non siamo lontani dal cartesiano cogito ergo sum). Ben si intende che qui, come altrove, lo voglia o no, Gramsci ribadisce tutto il suo soggettivismo, identificando l’oggettivismo (cioè l’esistenza di una realtà esterna all’uomo) con un atto creativo divino.

Dati questi presupposti non sorprende l’affermazione che «Est e Ovest sono costruzioni arbitrarie, convenzionali, cioè storiche, poiché fuori della storia reale ogni punto della Terra è Est e Ovest nello stesso tempo» (Ms 144). Con questa logica si dovrebbe ammettere che il polichete Eunice viridis, che da milioni di anni si riproduce nelle acque degli atolli polinesiani con svizzera precisione ad ogni ultimo quarto di luna di ottobre o novembre, non potendo essere neppure considerato un lusus naturae, uno scherzo della natura (dal momento che questa, per il Nostro, non ha vita autonoma) si salva almeno in quanto “costruzione arbitraria e convenzionale, cioè storica”, ma non si sa di chi; d’altra parte questo verme è reale in quanto razionale, cioè pensabile dall’uomo in quanto realtà socializzata: «razionale e reale si identificano» (Ms 144). Ed è chiaro che, su queste “basi” non solo non si andrà lontano in una qualsiasi storia dei modi di produzione, ma neppure in una sia pure orientativa storia della natura.

Ed infine, macinato in un tutto unico struttura e sovrastruttura; o, a seconda dei casi, trasformata quest’ultima nel fattore dominante; negato il principio di causalità ridotto a miserabile e fallimentare espediente logico-retorico del materialismo “volgare”, ne deriva l’impossibilità stessa di una scienza sociale che analizzi il corso storico del modo di produzione attuale, poiché «una fase strutturale [cioè un modo di produzione] può essere concretamente studiata e analizzata solo dopo che essa ha superato tutto il suo processo di sviluppo, non durante il processo stesso, altro che per ipotesi e esplicitamente dichiarando che si tratta di ipotesi» (Ms 97). Quanto lontani siamo dalla definizione del marxismo quale teoria nel suo insieme al tempo stesso economia scientifica, scienza dell’economia capitalistica, interpretazione del corso storico umano, teoria dello sviluppo storico sulla base del materialismo dialettico, programma di azione rivoluzionaria, definizione della società comunista! Quanto distanti siamo dalla affermazione, contenuta nella prefazione alla prima edizione del Capitale, del metodo analitico di studio della economia capitalistica, del suo funzionamento nei rapporti di produzione e di scambio, e «di queste stesse leggi, di queste tendenze che operano e si fanno valere con bronzea necessità... fine di quest’opera è appunto di svelare la legge economica di movimento della società moderna»[14]! Quanto remoti dal limpido e noto enunciato della Sinistra: «Ad una svolta decisiva si è affermato che, alla stessa stregua con cui i fenomeni della natura fisica sono stati trattati mediante la ricerca sperimentale e non più coi dati della rivelazione e della speculazione [con i quali l’idealista neokantiano Gramsci continua a trastullarsi], sostituendo alla “filosofia naturale” le scienze, così, a loro volta, i fatti del mondo umano: economia, sociologia, storia, vanno trattati con metodo scientifico, eliminando ogni premessa arbitraria di dettami trascendenti e speculativi»[15]. Quanto vicine siano, invece, le riflessioni gramsciane all’idealismo crociano è rivelato dalla seguente esposizione del concetto di storia in Croce, fatta mezzo secolo fa dalla Sinistra: «Infatti per Croce la storiografia è possibile, ma si riduce ad una registrazione incessante ed indefinita dei concreti, e deve aborrire le leggi causali. La storiografia di Croce è dunque una meteorologia degli eventi umani, a cui è vietato ogni pronostico, ogni bollettino di previsione del tempo. Di qui l’antitesi col marxismo, l’orrore per la pretesa di disegnare sviluppi storici di domani»[16].

b. “Il morto idealismo filosofico afferra il vivo marxista” (Lenin)

Bogdanov. «La verità è una forma ideologica, una forma organizzatrice dell’esperienza ... Il carattere obiettivo del mondo fisico consiste nel fatto che esso esiste non solo per me individualmente, ma per tutti o che esso, secondo la mia convinzione, ha per tutti lo stesso significato determinato che ha per me ... In generale, il mondo fisico è l’esperienza socialmente coordinata, socialmente armonizzata, in una parola, l’esperienza socialmente organizzata»[17]. «Abbiamo ammesso che la stessa “natura fisica” è un derivato dei complessi immediati (ai quali appartengono anche le coordinazioni “psichiche”), che essa è il riflesso di questi complessi in altri complessi a essi analoghi, ma di tipo più complesso (nell’esperienza socialmente organizzata degli esseri viventi»[18]. Anche Bogdanov analizza criticamente il medesimo passo dalla Critica dell’economia politica che, come abbiamo visto sopra, attirò l’attenzione di Gramsci, affermando che «la vecchia formulazione del monismo storico, senza cessare di essere fondamentalmente giusta, non ci soddisfa più interamente... Nella loro lotta per l’esistenza, gli uomini non possono unirsi se non per mezzo della coscienza; senza la coscienza non esiste vita sociale. Perciò la vita sociale, in tutte le sue manifestazioni, è una vita cosciente, psichica... La sociabilità è indivisibile dalla coscienza. L’essere sociale e la coscienza sociale, nel senso preciso che hanno questi termini, coincidono»[19].

Conseguenza di questa filosofia, secondo la quale la verità è forma organizzatrice dell’esperienza umana, dev’essere necessariamente che non può esistere nessuna realtà al di fuori, all’esterno di ogni esperienza umana, soggettiva o sociale o “storica” à la Gramsci. E poiché la scienza è esperienza organizzata della società umana del lavoro, ne sorge l’esigenza di stabilire le fondamenta di una cultura proletaria. La scienza in quanto organizzatore del lavoro sociale è oggi dominata dalla borghesia; il proletariato deve strapparne il possesso alla borghesia prima della rivoluzione. Non è, questo gramscismo della prim’ora, quello che, trasferito sul piano dell’azione politica di classe, si traduce alla bell’e meglio nel controllo operaio sulla produzione attraverso i consigli di fabbrica? Ecco un bell’esempio di invarianza dell’opportunismo!

c. La lezione dei Maestri.

Marx, Engels. «Solo a questo punto [i primi quattro presupposti fondamentali di ogni economia sono descritti nelle due pagine precedenti: 1) creazione di mezzi immediati di vita; 2) produzione di nuovi bisogni; 3) riproduzione degli individui; 4) formazione di legami materiali fra gli uomini all’interno di ogni specifico modo di produzione e di scambio] ... troviamo che l’uomo ha anche una “coscienza” ... La coscienza è dunque fin dall’inizio un prodotto sociale ... Naturalmente, la coscienza è innanzi tutto semplice coscienza dell’ambiente sensibile immediato e del limitato legame con altre persone e cose esterne all’individuo che prende coscienza; in pari tempo è coscienza della natura della natura, che inizialmente si erge di contro agli uomini come una potenza assolutamente estranea, onnipotente ed inattaccabile»[20]. Che il “giovane Marx” piaccia ai solerti neokantiani d’oggi e di ieri viene spiegato di solito sulla base della sua “civetteria”[21] nei confronti dell’hegelismo: una civetteria, si badi bene, che gli consente di rovesciare l’intero sistema dell’idealismo tedesco. Come si metterà d’accordo questa “teoria” con le mille e mille pagine “giovanili” nelle quali si legge l’esplicita e definitiva rottura con tutte le filosofie di ieri, oggi e domani? E come con quell’altra pagina di un Marx-non-così-giovane: «La totalità concreta, come totalità del pensiero, come un concreto del pensiero, è in fact un prodotto del pensare, del comprendere; ma mai del concetto che genera se stesso e pensa al di fuori e al di sopra dell’intuizione e della rappresentazione, bensì dell’elaborazione in concetti dell’intuizione e della rappresentazione ... Il soggetto reale rimane, sia prima che dopo, saldo nella sua indipendenza fuori della mente»?[22]

Lenin. «La negazione della verità obiettiva da parte di Bogdanov e Gramsci, ndr è agnosticismo e soggettivismo... è una definizione idealistica, radicalmente falsa, e il mondo fisico esiste indipendentemente dagli uomini e dall’esperienza umana»[23]... «Una filosofia la quale insegna che la stessa natura fisica è un derivato, è filosofia clericale pura e semplice... Se la natura è derivata, va da sé che essa non può derivare che da qualcosa di più grande, più ricco, più vasto, più potente della natura, da qualcosa che esiste, poiché per “creare” la natura bisogna esistere indipendentemente da essa. Dunque qualcosa esiste fuori della natura e per di più questo qualcosa crea la natura. Nel linguaggio comune questo qualcosa si chiama Dio. I filosofi idealisti hanno sempre cercato di modificare questo termine, di renderlo più astratto, più nebuloso e al tempo stesso (per renderlo più verosimile) più vicino allo “psichico”, come “complesso immediato”, dato immediato che non ha bisogno di essere provato. L’idea assoluta, lo spirito universale, la volontà universale, “sostituzione universale” dello psichico al fisico, è sempre la stessa idea, presentata in formule differenti. Ogni uomo conosce, e le scienze naturali ne fanno oggetto d’indagine, l’idea, lo spirito, la volontà, lo psichico, come funzioni del cervello umano in attività normale; staccare queste funzioni della materia organizzata in modo determinato, trasformarle in funzioni universali, in una astrazione generale, “sostituire” questa astrazione a tutta la natura fisica, è una stravaganza della filosofia idealistica: significa voler schernire le scienze naturali.»[24]

Inoltre, «questa teoria dell’identità dell’essere sociale e della coscienza sociale in Gramsci si tratta della “realtà storicizzata”, ma la salsa indigesta è la medesima è tutto un assurdo ed è una teoria assolutamente reazionaria»... «L’essere sociale e la coscienza sociale non sono identici, così come non sono identici l’essere in generale e la coscienza in generale. Dal fatto che gli uomini entrino in contatto reciproco nella società, come esseri coscienti, non consegue affatto che la coscienza sociale sia identica all’essere sociale ... Gli uomini che entrano a far parte della società non sono coscienti dei rapporti che si creano in essa, delle leggi secondo le quali questi rapporti si sviluppano ... La coscienza sociale riflette l’essere sociale: ecco in che consiste la dottrina di Marx ... La coscienza in generale riflette l’essere: questa è una tesi generale di tutto il materialismo. Non è possibile non vedere il suo nesso diretto e indissolubile con la tesi del materialismo storico: la coscienza sociale riflette l’essere sociale. »[25]

Frasi limpide, radicate nel cuore stesso del materialismo storico. Ma qui l’allievo Gramsci non ha più diritto di parola.

5. Dietro la filosofia della prassi si cela la prassi conservatrice della decadente filosofia borghese.

La “feconda osmosi” tra elucubrazioni gramsciane sulla storia e idealismo crociano al cui arsenale Gramsci attinge a piene mani, porta al ripudio di ogni determinismo e di ogni economicismo. Il materialismo storico è diventato più propriamente filosofia della prassi, il pensiero (!) del proletariato ha assorbito quanto di vitale conteneva ancora l’ideologia della classe dominante, il dialogo si è concluso con la riaffermazione del valore tipico dell’uomo: la libertà. La contrapposizione che Gramsci invoca ad ogni piè sospinto tra “materialismo” e “dialettica” ha un solo significato, che egli stesso più volte cerca di chiarire. Si tratta di invocare la dialettica di fronte e contro al mondo della natura, in modo da concedere al mondo soggettivo, al mondo “umano”, al pensiero, una posizione autonoma e contrapposta.

Ma la liquidazione del materialismo non è così facile. Marx parlò di materialismo volgare, così come di economia volgare, per bollare quei movimenti che, dopo le rivoluzioni borghesi, nacquero ovunque per ragioni di conservazione sociale. E’ il materialismo scientista del positivismo, il materialismo dei Comte, degli Ardigò e degli Spencer. E’ il materialismo fisiologico che tutto riduce all’individuo, che “spiega” la società sulla base della psicologia e la psicologia sulla base della fisiologia. E’ dunque una filosofia tutta ripiegata su se stessa, nella quale non vi è spazio per un’analisi dei rapporti tra l’individuo e la società, tra l’individuo e la classe.

Ma Marx parla anche di materialismo classico, che è quello dell’Enciclopedia. Questo è la filosofia della borghesia rivoluzionaria, e lotta contro ogni fideismo nel mondo materiale e contro ogni spiritualismo nel mondo sociale.

«Ma la vittoria della società capitalistica ferma questi sviluppi dottrinali classici, e riduce la scienza economica alla economia volgare, che dissimula la estorsione di plusvalore e pluslavoro come riduce il materialismo classico di Diderot e di d’Alembert ad una filosofia volgare che non intacca la dominazione borghese e apologizza la oppressione economica dopo avere condannata quella culturale e giuridica [...] La differenza tra i due materialismi non sta dunque nel fatto inventato che Marx abbia decampato dal terreno monista per stabilire la vuota parità dignitaria tra natura ed uomo, specie di neodualismo, ma nel criterio fondamentale che noi non passiamo per la inafferrabile determinazione che gioca nel singolo organismo e cervello personale, non cerchiamo la vuota fantasima della “personalità”, ma fondiamo la relazione sulle condizioni materiali di una comunità sociale e tutta la serie delle sue manifestazioni e sviluppi storici. Su questa base noi riteniamo fondatamente e con ricchezza di prove storiche che nulla è l’influenza di una personalità sulla vicenda sociale, e che la storia e la sociologia umana vanno considerate come uno dei campi di descrizione in cui è lecito considerare ripartita la conoscenza della natura, senza che una tale distinzione e separazione abbia valore preminente davanti a tutte le altre: per il che è ben giusto dire che nella dottrina marxista la scienza della società umana è compresa in quella della natura materiale, anzi la seconda nella sua costruzione deve giocoforza precedere la prima»[26].

L’argomentazione dell’idealismo gramsciano si avvale dunque della dialettica (ad usum delphini) per eliminare in tronco il materialismo, e in particolare il materialismo storico, come scienza sociale. La “storicizzazione” degli eventi sociali consiste infatti nella loro attuazione storica compiuta dalla società, dall’uomo sociale che è il protagonista della propria storia. Di conseguenza la filosofia della prassi è una filosofia che è anche una politica e una politica che è anche una filosofia. «Fa anzi maraviglia», sostiene Gramsci, «che il nesso tra l’affermazione idealistica che la realtà del mondo è una creazione dello spirito umano e l’affermazione della storicità e caducità di tutte le ideologie da parte della filosofia della prassi [...] non sia stato mai affermato e svolto convenientemente» (Ms 139). E’ infatti stupefacente come tutti gli idealisti mascherati da “marxisti” pretendano di basare le proprie elucubrazioni filosofiche niente meno che sul materialista storico Marx, il Marx delle “tesi su Feuerbach”. E’ nella III tesi che Gramsci vorrebbe vedere la conferma delle proprie idee. Ecco il punto: «Sono proprio gli uomini che modificano l’ambiente e [...] l’educatore stesso deve essere educato. [...] La coincidenza del variare dell’ambiente e dell’attività umana può solo essere concepita e compresa razionalmente come pratica rivoluzionaria».

Quando Marx scriveva le famose tesi era giunto il momento di fare in tutto e per tutto i conti con l’idealismo hegeliano. Si trattava dunque di rovesciare l’impianto filosofico che faceva poggiare il mondo sulle idee, riconducendo materialisticamente queste all’atto concreto della vita, della produzione e della riproduzione, dei rapporti tra gli uomini e le classi sociali. L’insistere sull’attività umana in Marx non ha per nulla il significato di rendere l’uomo artefice di un ambiente da esso separato e da esso dipendente, poiché il marxismo è una concezione monistica della realtà. Esso è invece la proclamazione di guerra rivoluzionaria della quale è artefice una classe storica, e non le idee riflesse da rapporti sociali inconsapevoli. Nessun cedimento all’idealismo, dunque, ma anzi totale suo capovolgimento. La dialettica non servirà in alcun modo per sostituire l’uomo alla natura.

«Non si deve intendere che la dialettica consista nel dire: l’economia fa la politica, ma poi la politica [...] rifà a suo modo l’economia. Questa è una inversione di tesi e non la sintesi di una tesi e di una antitesi feconde. Marx ha detto che gli uomini fanno la loro storia, vecchia obiezione di rimasticatori scarsi. E’ certo che la fanno, colle mani coi piedi e con la bocca anche, e con le armi; materialmente la fanno, ma quello che noi neghiamo è che la facciano con la testa, ossia che siano a tanto di “costruirla” [...] su di un modello, o progetto tutto pensato. La fanno sì, ma non come credevano e sapevano di farla, né come prevedevano e desideravano».[27]

Dunque la filosofia della prassi è ripudio di ogni determinismo. Essa nega che Marx abbia definito “materialismo” il proprio pensiero; essa è unità di struttura e sovrastruttura; è ricorso alla storia e all’uomo per dimostrare la realtà oggettiva. Da questa premessa, dice giustamente il Tamburrano[28], scaturisce una conclusione assai nuova e originale per la filosofia marxista: «Oggettivo significa sempre ‘umanamente oggettivo’ ciò che può corrispondere esattamente a ‘storicamente oggettivo’, cioè oggettivo significherebbe ‘universale soggettivo’». E il Tamburrano conclude: non si può negare che la sintesi e il superamento del materialismo e dell’idealismo si fa su posizioni molto vicine all’idealismo e si giunge a una concezione soggettivistica che si distacca dal materialismo dialettico sovietico (sic!)[29]. «Dalla critica radicale di ogni determinismo discende l’affermazione della possibilità, e non della necessità, del sorgere di una nuova società. Occorre dichiarare che il socialismo è un evento solo possibile»[30].

D’altra parte, capovolto il rapporto dialettico tra struttura e sovrastruttura su basi idealistiche, la filosofia della prassi giunge alla logica conclusione che la “conoscenza”, l’ “educazione” pongono l’uomo in reazione attiva sulla struttura. In questa azione si afferma “l’unità del processo del reale”, sintesi dinamica dunque di soggetto-oggetto; la rivoluzione avviene al tempo stesso nel modo di produzione e di scambio e nella testa e nella coscienza degli uomini. La classe evapora nei fumi della “filosofia della prassi” e il concetto costruito dal Sorel di “blocco storico”, nel quale «le forze materiali sono il contenuto e le ideologie la forma» (Ms pag. 49) coglieva appunto «questa unità sostenuta dalla filosofia della prassi» (Ms pag. 231).

La critica di Gramsci segue il seguente processo logico: 1) nelle tesi su Feuerbach Marx risolve l’antinomia “cosa in sé” - “cosa per noi” nel senso della storicizzazione della conoscenza, cioè la conoscenza si sviluppa nel corso della storia umana. Da questa esatta considerazione Gramsci, con una inversione di 180 gradi, deriva che 2) l’oggetto della conoscenza è storicizzato anch’esso, cioè è esso stesso il prodotto dell’evoluzione sociale; esso dunque non può esistere al di fuori della storia umana, e quindi al di fuori dell’uomo tout court. 3) Ne deriverebbe il “superamento” del materialismo dialettico, nel senso che oggetto e soggetto vengono a coincidere, e la coincidenza si attua esattamente nella storia.

Si giunge allo stesso risultato - l’idealismo gramsciano - attraverso una dimostrazione a posteriori, cioè partendo dall’affermazione, di Gramsci e di tutti gli immediatisti e volontaristi, secondo cui il socialismo sarà una conquista prima di tutto intellettuale, culturale, da parte del proletariato, nel processo produttivo prima, nel movimento generale della società poi. Sono innumerevoli i passi gramsciani - di evidente derivazione taschiana - in cui è svolto questo pensiero. Ad esempio: «C’è quindi una lotta per l’oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l’unificazione del genere umano» (Ms pag. 142). Oppure, a proposito della tanto invocata volontà collettiva popolare, opera del demiurgo di turno: «Il moderno Principe [è il partito di classe] deve e non può non essere il banditore e l’organizzatore di una riforma intellettuale e morale, ciò che poi significa creare il terreno per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare verso il compimento di una forma superiore e totale di civiltà moderna»[31]. Ancora una volta si conferma la vocazione taschiana all’educazionismo da parte di Gramsci.

Ma per lui non solo la cultura redimerà l’umanità. Essa potrà compiere questa operazione solo attraverso il partito di classe, tutti i membri del quale debbono essere considerati intellettuali, perché la vera, ultima funzione che Gramsci assegna al partito rivoluzionario è quella «direttiva e organizzativa, cioè educativa, cioè intellettuale»[32]. Ora, un conto è l’esatta considerazione, che il Che fare? riprende da Kautsky, sull’importazione della coscienza socialista nella lotta di classe, e diciamo pure: nel partito, dall’esterno, e precisamente soprattutto per azione di intellettuali borghesi: questa è una stringente argomentazione che Lenin utilizza contro la grave deviazione operaista e spontaneista che si stava delineando nel giovane movimento rivoluzionario russo di fine Ottocento, e che andava stroncata sul nascere. Altro conto è fissare, come obiettivo per il partito di classe, l’esportazione della “cultura” nella classe, concezione idealistica che riflette una erronea analisi nei rapporti partito-classe, e che è diametralmente opposta alla visione leninista (e, in generale, marxista): «Quanto più grande è la spinta spontanea delle masse, quanto più il movimento si estende, tanto più aumenta, in modo incomparabilmente più rapido, il bisogno di coscienza nell’attività teorica, politica e organizzativa della socialdemocrazia»[33]. Le masse si muovono spontaneamente, sotto l’azione della crisi sociale ed economica; il partito è la coscienza delle masse, e sua funzione non è affatto quella didattica, ma quella dirigente. L’impreparazione del partito italiano di allora (1923-1926) - della sua corrente falsamente maggioritaria, gramsciana appunto -, così come quella dei partiti comunisti di tutta Europa, non l’insufficiente coscienza critica delle masse, sta alla base della difficile ripresa odierna dei fili strappati dalla controrivoluzione[34].

Allo stesso modo, e con la medesima obiettività, Gramsci fa dire a Marx il contrario di quanto sta scritto: «L’espressione tradizionale che “l’anatomia” della società è costituita dalla sua “economia” è una semplice metafora (sic!) ricavata dalle discussioni svoltesi intorno alle scienze naturali e alla classificazione delle specie animali ... La metafora era giustificata anche dalla sua “popolarità”, cioè dal fatto che offriva anche a un pubblico non intellettualmente raffinato, uno schema di facile comprensione» (alla faccia! Lasciamo volentieri al “raffinato” Antonio la paternità di questa affermazione su Zur Kritik, un testo che, per complessità di analisi e arditezza concettuale sta pari pari con il suo fratello maggiore Das Kapital!). E Gramsci nota (la sottolineatura è nostra): «di questo fatto non si tiene quasi mai il conto debito: che la filosofia della prassi, proponendosi di riformare intellettualmente e moralmente strati sociali culturalmente arretrati, ricorre a metafore talvolta “grossolane e violente” nella loro popolarità» (Ms pag. 68). Totale liquidazione del materialismo storico, che appare - e non può essere diverso date le premesse - “grossolano e violento” al raffinato e reazionario subidealismo bogdano-kantiano di Gramsci.

Poiché gli apologeti del gramscismo in tutte le salse, ieri ed oggi, celebrano i propri saturnali sulle spoglie del “giovane Marx”, dedichiamo loro queste frasi dall’Ideologia tedesca:

«Poiché secondo la loro fantasia le relazioni fra gli uomini, ogni loro fare e agire, i loro vincoli e i loro impedimenti sono prodotti della loro coscienza, i Giovani hegeliani coerentemente chiedono agli uomini, come postulato morale, di sostituire alla loro coscienza attuale la coscienza umana, critica o egoistica, e di sbarazzarsi così dei loro impedimenti. Questa richiesta, di modificare la coscienza, conduce all’altra richiesta, di interpretare diversamente ciò che esiste, ossia di riconoscerlo mediante una diversa interpretazione... I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmatici: sono presupposti reali... Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi presupposti sono dunque constatabili per via puramente empirica. Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l’organizzazione fisica di questi individui e il rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura (che evidentemente Marx e Engels, nel loro grossolano materialismo, considerano esterna agli individui). In che cosa consistono le condizioni naturali trovate (trovate dall’uomo come preesistenti ad esso, e per nulla immanenti, o soggettivamente storicizzate, Antonio!) dagli uomini? Esse sono “le condizioni geologiche, oro-idrografiche, climatiche, e così via. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi naturali e dalle modifiche da esse subite nel corso della storia per l’azione degli uomini»[35] (tutte le evidenziature sono nostre ndr).

Si giri la frittata come si vuole, ma ne emergerà chiaro e tondo che la “filosofia della prassi”, con i suoi sforzi di conciliare l’inconciliabile, l’idealismo col materialismo, il realismo con il soggettivismo, l’eclettismo con il determinismo[36], non può presentarsi come una teoria rivoluzionaria che possa sostituire, come pretenderebbe, il materialismo storico. Al contrario, essa rivela in tutti i punti nodali i propri cedimenti di fronte alle lusinghe ideologiche della classe dominante: l’indeterminazione, l’agnosticismo, il volontarismo; e, in coda e in testa a tutta questa fila, l’idealismo fatto carne. Il fatto poi che Gramsci non voglia considerare se stesso un idealista compiuto non è sufficiente all’analisi marxista. «Pensare che l’idealismo filosofico sparisca perché alla coscienza dell’individuo si sostituisce la coscienza dell’umanità, oppure all’esperienza di una persona l’esperienza socialmente organizzata [in Bogdanov; in Gramsci ciò si legge come “sistema culturale unitario” il cui presupposto è il genere umano storicamente unificato, Ms pag. 142], equivale a pensare che il capitalismo dovrebbe sparire quando una società per azioni si sostituisce a un capitalista»[37], ed è di fatto una teoria reazionaria che, basando i suoi presupposti gnoseologici sull’ “unificazione” del genere umano - unificazione che il capitalismo ha prodotto per la prima volta nella storia della successione delle forme di produzione - trova compiutamente la propria giustificazione proprio nel momento in cui la borghesia diventa urbi et orbi la classe dominante materialmente ed ideologicamente; momento che affonda le proprie radici in un passato glorioso, rivoluzionario sia pure, ma rappresentante esclusivo della rivoluzione borghese.

6. Dallo storicismo assoluto alla scomparsa del mondo materiale.

“Storicismo assoluto” è la chiave di volta dell’idealismo gramsciano, ed è ciò che lo collega con Croce e con Hegel. Per lo storicismo, la realtà - e il marxismo ammette che essa sia quella naturale e quella sociale, poiché non esiste per noi differenza alcuna fra queste due realtà - è storia, è divenire. Nell’esposizione classica dell’idealismo, lo storicismo è la manifestazione dello spirito nel processo in cui questo si realizza nel mondo. Sia Hegel che Croce identificano questo movimento nel tutto. E’ per questa ragione che lo storicismo identifica filosofia e storia; è per questa ragione che Gramsci può giungere all’assurdità idealista di affermare che la filosofia della prassi, cioè lo storicismo assoluto, è la mondanizzazione del pensiero. Lo spirito, o il pensiero, fatti carne, sono scesi nella realtà di noi mortali. Il comunismo è la realizzazione del pensiero, o dello spirito. Tanto varrebbe chiudere baracca, e convertirsi a qualche fondamentalismo religioso.

Una filosofia la quale insegna che la stessa natura fisica è un derivato - si pure “storicizzato” - è filosofia clericale pura e semplice, dirà Lenin[38]. Ma il Gramsci giovane, così come quello vecchio, non se ne cura affatto. L’idealista non è lui, protesta, bensì Marx in persona. Perché «Marx non era un filosofo di professione [dio ce ne scampi], e qualche volta dormicchiava anch’egli [mentre, come è dimostrato, Gramsci e i suoi colleghi filosofi non dormicchiano mai, sempre pronti ad invocare insalate di struttura e sovrastruttura, di spirito e natura]. Il certo è che l’essenziale della sua dottrina è in dipendenza dell’idealismo filosofico [mentre, come è noto, il vero materialista è lui, Gramsci Antonio da Ales, per il quale bisogna combattere strenuamente “la concezione del causalismo meccanico (?), per svuotarla di ogni prestigio scientifico e ridurla a puro mito” (Ms pag. 135); per il quale il materialismo storico sarebbe “mondanizzazione e terrestrità assoluta del pensiero” (Ms, pag. 159)[39]]. Si pensi del resto all’uso grande che i socialisti fanno della parola “coscienza” [...]; è implicita in questo linguaggio la concezione filosofica [di sapore nettamente clerico-spiritualista] che si “è” solo quando “si conosce”, “si ha coscienza” del proprio essere»[40]. E se qualcuno avesse ancora dei dubbi sul campo di appartenenza di Gramsci, ecco l’ultimo fiore: «Il marxismo si fonda sull’idealismo filosofico...[che] è una dottrina dell’essere e della conoscenza, secondo la quale questi due concetti si identificano e la realtà è ciò che si conosce teoricamente, il nostro io stesso»[41]

Dobbiamo meravigliarci, a fronte di ciò, che furfanti matricolati, suoi più o meno ex compagni di partito, il cui pedigree è pienamente valutato solo sulla base del numero di rivoluzionari lasciati andare a crepare in Siberia, lo esaltino come “un marxista, un leninista, un bolscevico”; come «il primo marxista d’Italia», come «figura socratica», come «uno dei più forti ingegni dell’Italia d’oggi»[42]? Nel campo della “prassi”, costoro non sono certo andati per il sottile.

Ma che cos’è la prassi gramsciana?

Le Tesi su Feuerbach, redatte sotto forma di appunti da Marx durante i suoi studi sulla filosofia hegeliana, contengono, quasi tutte espressamente, l’osservazione che il pensiero e l’intuizione sensibile non sono forme astratte, ma attività pratica; e così pure, la questione sulla conoscenza oggettiva è “puramente scolastica” se non sottoposta al vaglio dell’attività pratica umana.

Questo riferimento all’attività umana, attività rivoluzionaria in primo luogo, “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” e che, in quanto tale, agisce di continuo nelle viscere della società attuale, costituisce il senso della “filosofia della prassi” gramsciana.

Come s’è detto più sopra, è ormai assodato anche da parte di “specialisti” che il termine fu utilizzato da Gramsci per sostituirlo a quello di “marxismo” - che sarebbe stato più coerente - e ciò non solo per evitare la censura. Tale espressione serve infatti ad indicare una filosofia che si stacca in alcuni punti cruciali dal materialismo storico-dialettico, e che Gramsci sottopone a critica serrata.

Se ne stacca sia che si voglia ritenere che nel processo conoscitivo la realtà venga trasformata dall’io pensante - e questo è una delle tante forme di idealismo cui Gramsci, e prima e dopo di lui ampia parte della fisica contemporanea, sono sensibili. Sia quando si vuole ammettere - e questo è un aspetto tipicamente gramsciano - che conoscere ed agire si identificano. La Sinistra comunista, nella sua difesa del marxismo integrale, ha sempre tenuto a chiarire che, nel processo rivoluzionario, azione e conoscenza sono due momenti separati, la cui saldatura può avvenire solo nei rari momenti storici in cui le masse e il loro partito si trovano riuniti nella lotta per la conquista del potere politico.

Dalle sue premesse, non può stupire che Gramsci “spontaneamente” aderisca a quelle nuove tendenze idealistiche che, fin dalla fine dell’Ottocento, si fecero strada anche nella filosofia della natura, e che da più parti saranno benvenute come salutare liberazione dalle «incrostazioni positivistiche e naturalistiche» che, secondo Gramsci, avrebbero «contaminato» Marx.[43] L’ “incrostazione positivistica” che Gramsci rimprovera a Marx non sta solo nella concezione materialistica condivisa e difesa da tutti i marxisti contro ogni deviazione o suggestione neokantiana o idealistica o spiritualistica. Essa è la base su cui si fonda la nostra stessa concezione del divenire umano, dei rapporti tra struttura e sovrastruttura, tra realtà e conoscenza.

Là dove Gramsci vede l’emancipazione del proletariato nella «organizzazione, disciplina del proprio io interiore, che è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore»[44] il marxismo oppone l’impossibilità, per l’individuo e per la classe, di giungere ad alcuna forma di “comprensione” a forza di “opinioni” e di “prese di coscienza”, sempre risolte in “prese” più bassamente anatomiche, e sempre in funzione malcelata di conservazione di classe. La nostra scuola nega, innanzi tutto, che la società sia retta da forme di pensiero che si trasmettono da cervello a cervello in una sorta di scala gerarchica. Inoltre, noi neghiamo che la “coscienza” possa in alcun modo precedere l’azione delle classi - al cui interno gli individui si muovono inconsapevolmente rispetto ai destini storici della classe di appartenenza - a prescindere dal ruolo che a queste la storia ha fissato sulla base dei rapporti materiali di produzione. Ciò è talmente vero che tutti i contrasti di classe, nelle più diverse forme storiche di produzione dei secoli e dei millenni passati, non sono stati affatto risolti da “forme di pensiero” alternative a quelle dominanti, poiché fino all’affermazione della forma capitalistica di produzione nessuna classe è comparsa sulla scena storica, che potesse rivendicare a sé la funzione di negatrice di tutte le classi; e perché le classi dominanti, così come le loro affossatrici, hanno fin qui espresso in modo confuso il proprio ruolo storico. E’ solo il proletariato moderno che è giunto alla coscienza di ciò, e questo non perché incarnazione di qualche “spirito” o “divenire storico” o “nuovo concetto di immanenza”, ma solo in quanto prima e unica e ultima classe della storia umana ad essere deprivata infine di ogni risorsa ed essere costretta dalle forze materiali che reggono l’economia del capitale, e dalle leggi sociali e giuridiche che ne sono il riflesso, a vendere se stessa per riprodursi come classe sociale. E tale coscienza non si attua mai per conoscenza infusa.

«Il combattente della massa, anonimo e dimenticato dalla storia, si schiera nella guerra civile per le rivendicazioni della sua classe, muove da un egoismo collettivo, ossia dal bisogno di sollevare utilitaristicamente le sue stesse condizioni economiche, ecc. arriva - prima di avere abbracciato scuole filosofiche con l’esame di laurea e prima di essere stato battezzato nella nuova confessione - a passare oltre l’istinto di conservazione, rifondendo la pelle; non soldato, ma volontario ignoto della rivoluzione. Questo randello o fucile operatore è travolto nella comune azione perfino prima di aver conosciuto regolamenti per la pensione agli orfani dei caduti e per le medaglie alla memoria; dimentica primo se stesso e sarà come persona dimenticato da tutti»[45].

Nel suo tentativo di conciliare idealismo e materialismo, e non riuscendo tuttavia a dimostrare in via definitiva che Marx sia collocabile su correnti hegeliane o neokantiane, Gramsci ricorre al solito vecchio trucco: Marx scrisse di filosofia ma non era filosofo; il materialismo storico è arnese buono oggi, ma domani sarà l’idealismo a trionfare (Ms 96); Engels poi, si sa, impregnato com’era di scienze naturali, usa espressioni che si avvicinano, nientemeno, che a quelle del «neoscolastico Casotti» (Ms 143).

Come tirarsi fuori da questo... casotto? E’ chiaro: andando a vedere “i debiti intellettuali” dei maestri fondatori. E si leggerà, come fanno tutti coloro che da Marx si allontanano sdegnati facendosi passare dai gonzi per “superatori aggiornati”, le opere giovanili - proprio quelle che già segnano la sicura ed inequivocabile autonoma strada rivoluzionaria - come filiazioni dirette dell’idealismo filosofico (financo Gramsci, che non le conosceva tutte, avrebbe avuto difficoltà a riconoscervi “incrostazioni positivistiche”) o del criticismo kantiano. E tuttavia, ben prima delle elucubrazioni gramsciane, si poteva leggere nel Poscritto alla seconda edizione del I Libro del Capitale, qualche opinione di ben altro tipo: «A prima vista [Marx riporta un commento critico russo di M. Block] giudicando dalla forma esteriore dell’esposizione, Marx è il più grande dei filosofi idealistici, - per giunta nel senso tedesco, cioè cattivo, del termine. In realtà, è infinitamente più realistico di tutti i suoi predecessori nel campo della critica economica... Non lo si può in nessun modo chiamare un idealista». E più oltre: «Marx considera il movimento sociale come un processo di storia naturale retto da leggi che non solo sono indipendenti dalla volontà, dalla coscienza e dai propositi degli individui, ma al contrario ne determinano la volontà, la coscienza e i propositi... Se nella storia della civiltà l’elemento cosciente occupa un posto così secondario, va da sé che la critica, il cui oggetto è la civiltà medesima, non può avere per base, men che mai, una forma qualsiasi o un risultato qualsivoglia della coscienza. Ciò significa che non l’idea, ma soltanto il dato fenomenico, può servirle da punto di avvio». Commentando questa citazione, Marx stesso chiede: «Illustrando quello che chiama il mio vero metodo in modo così calzante... che cos’altro ha illustrato l’Autore se non il metodo dialettico?».[46]

Il capitalismo è dunque un processo di storia naturale retto da leggi, secondo l’espressione che piacque a Marx. Ma non così è il capitalismo gramsciano, per il quale vi sono sì delle leggi, ma «sono leggi non in senso naturalistico e del determinismo speculativo, ma in senso “storicistico”» (Ms, pag. 91). Il socialismo scientifico è ritornato ai suoi lontani precursori, rivoluzionari sì ma impotenti per l’immaturità delle condizioni materiali. E’ tornato ai Cabet, ai Babeuf, ai Buonarroti, ai socialisti utopisti.

7. Di alcuni esecutori testamentari.

Succede nella Russia di Bogdanov come nell’Italia di Gramsci, con un ritardo di decenni, quanto era avvenuto nella Germania della prima metà dell’Ottocento. Fu in quel periodo che l’idealismo hegeliano, gigantesco sistema filosofico che pone la parola fine alla filosofia nel momento in cui ne riassume in modo grandioso tutto lo sviluppo (secondo l’opinione di Engels, nel L. Feuerbach e il punto d’approdo), impregnò di sé le scienze e le arti, penetrando in modo conscio o inconscio, nelle teste degli intellettuali “critici”. Un uomo come Gramsci, intellettuale dalla testa ai piedi formatosi alla scuola idealista, non riuscirà mai a sbarazzarsi dell’ideologia dominante. Tutte le sue incomprensioni dei decisivi momenti della lotta di classe che si svilupparono nell’arco della sua esistenza derivano in ultima analisi proprio dal suo atteggiamento di fronte alla questione del determinismo dialettico - sempre forzato in una direzione volontarista, soggettivista che si tradurrà politicamente, quando la situazione oggettiva inizierà a rifluire, in un atteggiamento di fronte unico, di acculturazione proletaria, di “subalternità” che diventa dirigente e responsabile dell’attività economica di massa (Ms 14). È, a ben vedere, una tendenza storica che appartiene alla scuola piccolo-borghese, per la quale la rivoluzione non è altro che la “liberazione” innanzi tutto ideologica, intellettuale del lavoratore. Ciò che in Marx è l’urto storico tra inarrestabile sviluppo delle forze produttive e limiti dell’economia di mercato, qui diventa la sterile teoria del piccolo borghese che scopre in sé l’individuo, il soggetto, l’artefice di se stesso.

Ed è stretta conseguenza del medesimo indirizzo “culturista” l’ammirazione che Gramsci manifesterà sempre per l’Illuminismo e l’Enciclopedia, da lui concepiti come una grande riforma intellettuale e morale a livello popolare e addirittura contadino. Riforma che, saldandosi ed anzi ponendosi come fattore dirigente della rivoluzione francese, costituirà quel legame nazionale e patriottico tra le masse e gli intellettuali la cui assenza Gramsci lamenta nella mancata rivoluzione borghese italiana, e che vedrebbe realizzarsi nel suo progetto di Assemblea costituente fin dal 1924. E così, mentre sulla arena internazionale si combatte una lotta decisiva per le sorti del comunismo dei decenni successivi; mentre la Sinistra internazionale vuole che la questione russa sia posta al vaglio dell’Internazionale e non viceversa; mentre si discute sulla questione dei metodi di lavoro dell’Internazionale e all’interno delle singole sezioni di questa, sui tentativi di riorganizzazione del movimento rivoluzionario sotto l’incalzare dell’offensiva fascista; mentre gigantesche lacerazioni attraversano tutte le organizzazioni militanti europee e all’ordine del giorno si pone perentoriamente la difesa ad oltranza del marxismo rivoluzionario internazionalista contro tutte le sue deviazioni sul piano economico, politico e sociale; in questi drammatici frangenti Gramsci non fa altro che ripiegare sulla difesa di “grandi masse dei contadini coltivatori” che, irrompendo nella vita politica italiana, consentiranno “la formazione di volontà collettiva nazionale-popolare”! E, si badi bene, ciò non è affatto la visione di un Gramsci ormai tagliato fuori dalla vita politica militante e isolato nelle galere fasciste; questo è proprio il pensiero del Gramsci rappresentante dell’Internazionale Comunista, del Gramsci che fin dal 1924 sosteneva in diretta polemica con la Sinistra: voi siete per una minoranza internazionale, noi siamo per una maggioranza nazionale.[47]

Non insisteremo qui sul lascito gramsciano al suo stesso partito che, nel tempo, è passato da “sezione dell’Internazionale Comunista” a partito comunista nazionale, fino a scomparire poi del tutto, lasciando orfani inconsolabili tra ex stalinisti riciclati in Verdi o “dissidenti” parlamentari.

Dall’idealismo soggettivo e dal volontarismo spontaneista sono germogliati intellettuali dalla testa confusa. Innanzi tutto ci riferiamo all’operaismo sempre in azione appena le piazze minacciano di riempirsi per movimenti autenticamente di classe. Pensiamo alle “fabbriche come centro di conflitto sociale e di potere” à la Negri; pensiamo allo spontaneismo antipartito, che nasce anch’esso dalla fabbrica (un luogo, se possibile, peggiore della galera, ma dal quale dovrebbero svilupparsi nientemeno che gli embrioni della società comunista) e che vede come la peste qualunque organizzazione politica. Pensiamo all’immediatismo che sempre rifiorisce là dove costantemente si resta ancorati alle prime forme di reazione operaia contro le condizioni bestiali del lavoro, ma che non sa né può porre con chiarezza, perché necessariamente affetto da localismo aziendale, la questione del potere su scala nazionale e internazionale.

Il marxismo, in quanto dottrina teorica, politica e tattica del proletariato rivoluzionario, non poteva che nascere a metà del XIX secolo, come il prodotto della lotta tra le due classi storiche che, da ora in poi, si affronteranno sulla scena internazionale. All’ideologia borghese la classe operaia, scesa sul terreno della lotta per i suoi obiettivi finali, oppone perciò il materialismo storico, determinista e dialettico.

E qual è l’inconscio intento gramsciano? Evidentemente, quello di formulare del marxismo, da lui riveduto e corretto, un sistema di conoscenza (e peggio ancora, dati i presupposti, di azione) capovolta, nel quale l’idealismo dialettico la fa da padrone.

Per la nostra corrente, il marxismo non è nato perché Marx fosse o non fosse “incrostato” di positivismo, perché fosse o non fosse un “buon filosofo” o un “buon economista”. Il marxismo è nato così com’è perché era, è e sarà l’espressione teorica di una classe reale, che ha combattuto e combatterà le sue proprie battaglie per i suoi propri fini, che si riassumono in quello gigantesco dell’abolizione di tutte le classi. La nostra scelta non è tra un Marx “più dialettico” o “meno materialista”, la “scelta” è fra una classe e un’altra. Non vi è spazio “in mezzo”, come non vi è spazio tra salario e capitale, tra lavoro salariato e estorsione di plusvalore. L’idea che vi possa essere un marxismo da rivedere sulla base di presunte novità epistemologiche proviene solo da chi non ha il coraggio di fare una scelta di classe perché non sa, o non può ancora, riconoscere il sicuro cammino che porta all’abbattimento del capitalismo. Essa proviene da una nascosta necessità di evitare le conclusioni rivoluzionarie, di totale rottura rispetto all’ideologia borghese, facendo leva sulla presenza di ibride forme sociali.

Agli intellettuali d’oggi di Gramsci piace, oltre all’impostazione idealistica, anche l’esplicita dichiarazione che la “filosofia” di Marx non è completa; essa deve dunque essere emendata, migliorata, ristudiata ed infine re-inventata[48]. E’ opportuno, in tutto e per tutto - si tratti di storia, d’economia, di politica - fare una teoria più completa del marxismo; fare una teoria della teoria.

Nella sua critica a Bucharin - e in generale ai marxisti - Gramsci lamenta sempre un eccesso di materialismo e un difetto di dialettica. E’ la dialettica, egli sostiene, che opera nella storia, ed è nella dialettica che si deve vedere tutta la forza del marxismo. Il “materialismo” sarebbe solo un pedaggio che il marxismo ha pagato alle rivoluzioni borghesi del XVIII secolo.

Quanto a noi, restando fedeli al binomio “materialismo dialettico”, non troviamo nessuna necessità di dover dare “più forza” all’uno o all’altro dei termini, dal momento che essi rappresentano nella loro unità la sintesi della realtà naturale (e, di conseguenza, sociale). E’ vero semmai che l’accentuare il termine “dialettica”, ma tutto in senso idealistico, è proprio degli indirizzi scientifici del XX secolo; che accettano, costretti dalla forza dell’evidenza, la dialettica della natura (innumerevoli esempi al riguardo, dal concetto di massa-energia, a quello di onda-corpuscolo nel campo della fisica, a quello di individuo-specie e di gene-ambiente in quello dell’evoluzione biologica), ma respingono in via definitiva il materialismo, fino a spingersi sul terreno del fideismo e dello spiritualismo.

8. Stalinismo, americanismo, fordismo... e giri di Walzer a mo’ di conclusione.

Così come di fronte all’industria meccanizzata torinese nell’immediato anteguerra Gramsci ha parole di ammirato stupore, così di fronte all’organizzazione altamente automatizzata dell’industria americana (“fordismo”) egli vede una conferma della propria tesi sull’egemonia, «la quale nasce dalla fabbrica e non ha bisogno di esercitarsi che di una quantità minima di intermediari professionali della politica e della ideologia»[49]. Questo, si intende, è visto come conseguenza della sconfitta del movimento operaio, incapace di opporsi alla penetrazione a vasto raggio dell’ideologia borghese nel modo stesso di vita. «La razionalizzazione ha determinato la necessità di elaborare un nuovo tipo umano, conforme al nuovo tipo di lavoro e di processo produttivo ... E’ ancora la fase dell’adattamento psicofisico alla nuova struttura industriale, ricercata attraverso gli alti salari»[50].

Così intesa, l’ “egemonia” americana trova il suo alter ego nella organizzazione dell’economia russa, dove si è determinata «una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto di conoscenza, un fatto filosofico»[51]. In ciò sta la grandezza di Lenin, che ha «fatto progredire effettivamente la filosofia come filosofia i quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica» (ibid.). Secondo questo criterio, dunque, anche Ford, e Taylor prima di lui, hanno fatto “progredire la filosofia come filosofia”. D’altra parte, questo processo di “razionalizzazione” del processo produttivo, che è intrinseco al capitalismo, deve far parte anche dell’organizzazione del lavoro in Unione Sovietica, dove mancano disciplina e ordine, dove “i costumi” non sono ancora adeguati alle necessità del lavoro. Ben si comprende dunque, afferma Gramsci, la forte spinta in senso tayloristico data da Trotzky all’industria sovietica. Per Gramsci, come per tutti gli stalinisti dell’epoca, si trattava infatti di “costruire il socialismo”, e costruirlo precisamente facendo ricorso a tutto l’apparato tecnologico-produttivo e organizzativo-poliziesco di cui le aziende capitalistiche più avanzate facevano sfoggio, nell’America fordista innanzi tutto. Essendo piegata la rivoluzione russa su se stessa dal fallimento della rivoluzione europea, anche l’egemonia gramsciana si affretta ad allinearsi sulla teoria del socialismo in un solo paese: «Il concetto di egemonia è quello in cui si annodano le esigenze di carattere nazionale ... Una classe di carattere internazionale, in quanto guida strati sociali strettamente nazionali (intellettuali), e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolaristi e municipalisti (i contadini) deve ‘nazionalizzarsi’, in un certo senso»[52]. Si comprende dunque come un uomo per il quale nel 1916 «il socialismo è problema essenzialmente di produzione intensa»[53], vent’anni dopo possa dichiarare che «il principio della coercizione, diretta e indiretta, nell’ordinamento della produzione e del lavoro è giusto»[54]. Siamo, d’altronde, nel periodo dei piani quinquennali e, pur mutando di longitudine, il capitalismo divorava con crescente voracità le sue vittime anche e soprattutto nei paradisi del “socialismo reale”.

Su queste basi, dell’interesse gramsciano per le forme di sfruttamento del lavoro che gli Usa stanno perfezionando in quei decenni, si spiega prima il risveglio di interesse degli intellettuali statunitensi per Gramsci, che si sviluppa quindi - negli anni Settanta - in una vera e propria esplosione di natura commerciale. Si esaltano di Gramsci la critica all’economicismo - definito “marxista” -; il primato della politica e l’autonomia della società civile; il ruolo degli intellettuali[55]. In questo modo “egemonia”, idealismo, storicismo e soggettivismo di Gramsci trovano, negli ambienti di “sinistra” Usa, la loro definitiva e necessaria consacrazione, assieme ai critici dell’autoritarismo, della repressione sessuale, assieme ai Reich, ai Marcuse e ai filosofi della Scuola di Francoforte.

E’ in questo contesto che M. Walzer pubblica un’analisi “critica” di Gramsci e del marxismo, alla quale si dà molto credito negli ambienti radicali Usa[56]. Giustamente l’autore sottolinea la dubbia ortodossia marxista di Gramsci, osservando che una prima rottura con la tradizione rivoluzionaria si attua proclamando possibile la rivoluzione in Occidente solo dopo la creazione di una cultura proletaria. «Grande scoperta di Gramsci», afferma il Walzer, è l’impossibilità di presa del potere in Occidente da parte del proletariato; è necessaria una «guerra di posizione», cioè «la conquista della società civile ... una lotta culturale lunga e faticosa in cui il nuovo mondo soppianta lentamente, dolorosamente quello vecchio». Ampie frange del popolo di Seattle hanno sottoscritto - forse senza conoscerne l’origine - queste posizioni, dai trotzkisti sempre alla ricerca di fasi di transizione (d’ogni tipo purché non identificabili con la dittatura del proletariato) ai terzomondisti di Porto Alegre. Tutti uniti nella creazione di “nuove volontà popolari” e nell’individuazione di un “senso comune”, per costoro, con Gramsci in testa, resta perfettamente definita la funzione del partito. Non più partito di classe, cioè di una classe, ma coacervo di intellettuali definiti, chissà perché, organici. Non più programma rivoluzionario definito in tutti i suoi aspetti, ma «cultura stessa, dalla filosofia alla religione, fino alle più comuni nozioni della salute e della malattia, dell’amore, del matrimonio, del lavoro, dell’interscambio, dell’onore e della solidarietà». All’interno di questa visione di gradualismo culturale, in cui il proletario si trasforma in un quieto piccolo borghese acculturato alle idee gramsciane che, osserva Walzer, «mirano a sostituire l’economia politica con una sorta di antropologia culturale», il partito rivoluzionario si è finalmente dissolto in un informe aggregato di intellettuali “organicamente” saldati all’ideologia dominante.

La parabola gramsciana si è qui finalmente chiusa. Partendo, nel 1914, da posizioni apertamente idealistiche, tradotte nel suo interventismo alla guerra mondiale, egli è passato al volontarismo intellettualistico delle pagine dell’Ordine Nuovo. In esse lo “storicismo” trovò forma nell’esaltazione codista del movimento torinese dei Consigli di fabbrica, rivendicati come forma autonoma e innovatrice nel processo rivoluzionario. Fin da allora Gramsci non fu in grado di capire quale dovesse essere il ruolo del partito di classe, e questa sua incomprensione fu, almeno in parte, alla base del ritardo con cui il partito stesso poté nascere, ritardo che impedì la sua saldatura con le grandi fiammate che incendiarono l’Italia nel biennio rosso (1919-20). Ma anche il partito di cui Gramsci fu capo, tra il 1924 e il 1926, si risolse nella lotta contro la Sinistra, non sapendo raccogliere, di questa, la possente eredità sul piano della difesa integrale dei programmi, della rivendicazione dell’autonomia di classe, della dura lotta perché teoria e tattica fossero stabiliti in modo definitivo, senza lasciare spazio - come purtroppo avverrà in seguito nelle condizioni peggiori e sotto l’incalzare della repressione fascista - a “scelte” locali, nazionali, affidate a gruppi di pensiero o di tendenza, senza una omogenea linea politica, se non quella in arrivo da Mosca. Il volontarismo che impregna l’ideologia gramsciana fin dagli anni torinesi condurrà dunque il suo autore, e il partito di cui sarà a capo per qualche tempo, a collocarsi nelle masse, il che, in buon linguaggio, significa alla coda delle masse. E quando queste masse, sconfitte dopo anni di eroici sforzi, rallenteranno la propria marcia, l’unica soluzione possibile che si apre all’idealista è quella di ritenere possibile una forzatura della situazione storica mediante la Cultura, il Progresso Intellettuale, la Soggettività Storicizzata. Il “moderno Principe” - inteso da Gramsci come moderno partito - è in realtà la disfatta e la decomposizione totale di esso di fronte all’incalzare della reazione fascista e staliniana.

E mentre al di fuori della cella di Turi si scatenava su una intera generazione di rivoluzionari il terrore controrivoluzionario in Europa, e in Russia lo stalinismo sradicava nel giro di pochi anni il partito della Rivoluzione d’Ottobre, Gramsci, fedele a se stesso, portava a termine la sua silenziosa battaglia contro il materialismo dialettico in nome di filosofie e correnti contro le quali già si era dovuto combattere in decenni precedenti. Ecco come la Sinistra ha riassunto queste posizioni:

«Schema volontaristico-immediatistico. Tipico della visione corporativa piccolo-borghese, quindi di forme opportunistiche (proudhonismo, anarcosindacalismo, operaismo, ordinovismo, socialismo dei Consigli) e riformistiche (laburismo ecc.); evidentemente si inserisce entro la concezione liberale di cui rappresenta una variante. Qui l’individuo, sempre alla base del processo, prende coscienza delle spinte fisiche ed economiche che sono sostrato della sua esistenza: tale presa di coscienza condiziona la volontà, e questa a sua volta l’azione. L’organizzazione economica e politica risulta dal confluire delle singole prese di coscienza: la classe è a sua volta risultato dell’assommarsi e connettersi in reti di organizzazioni immediate è quindi nozione avulsa da ogni senso di indirizzo storico - non mai di classe in sé e per sé nel senso marxistico della espressione)»[57].

A questo “schema” gramsciano, dunque, noi rivendicammo l’integrale ritorno a Marx.

«Il materialismo storico-dialettico, contrapponendosi alle concezioni di stampo illuministico ed idealistico, non vede quindi nell’ideologia, cioè nella rappresentazione mistificata e capovolta dei rapporti reali, il frutto di un errore da correggere per aprire gli occhi ai ciechi, ma la risultanza indispensabile di un processo reale corrispondente a rapporti materiali, quelli stessi che l’ideologia proietta nella sua distorsione. Tale distorsione deriva a sua volta necessariamente dalla situazione storica delle forze sociali che nell’ideologia si esprimono e che la impongono all’insieme sociale, essendo sempre ideologia dominante quella della classe dominante. ... La contrapposizione del marxismo alle ideologie che si sono succedute nel passato e che oggi ancora in varia misura tengono il campo è, quindi, rigorosamente storica e dialettica, il che non esclude, ed al contrario implica, che la scienza globale con cui esso si identifica, possa essa solo ricostruire i reali processi sottostanti all’incastellatura ideologica, svelando come l’ideologia mistifichi la realtà sussistente a prescindere da ogni “conoscenza” individuale e collettiva».[58]

Siano, queste, pietre tombali per ogni tentativo futuro di “ritorno” a concezioni del mondo che, movendo dall’individuo, dal pensiero, dal soggetto, rappresentano storicamente il nemico da battere in nome dell’unica fratellanza di classe, quella rivoluzionaria.

 

Note

[1] Secondo Amadeo Bordiga, al Congresso del PCd’I tenuto a Lione nel gennaio 1926 Gramsci si sarebbe pronunciato più o meno con queste parole: «Dò atto alla sinistra di aver finalmente acquisita e condivisa la sua tesi che l’aderire al comunismo marxista non importa solo aderire ad una dottrina economica e storica e ad una azione politica, ma comporta una visione ben definita, e distinta da tutte le altre, dell’intero sistema dell’universo anche materiale». Si veda «Comunismo e conoscenza umana», Prometeo, luglio-settembre 1952, p. 141.

[2] A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einuadi 1949, pag. 87. Questo volume sarà d’ora in poi indicato solo come Ms.

[3] «Una caratteristica saliente (!) dell’analisi gramsciana consiste nel suo rigore materialistico(!!)»: L. Maitan, Attualità di Gramsci e politica comunista, Schwarz 1955, p.9.

[4] «E’ proprio solo stupidaggine?», Avanti!, ediz. piemontese, 10 settembre 1920.

[5] «L’unità nazionale», L’Ordine Nuovo, 4 ottobre 1919.

[6] Secondo statistiche riportate da “Il Contemporaneo” (28 febbraio 1987) esisterebbero a quella data oltre 500 libri scritti in inglese su Gramsci. Ciò, secondo uno storico statunitense, John Cammett, è indicativo «della misura in cui il “gramscismo” è stato accettato negli ambienti scientifici americani, per lo meno quale “criterio di ricerca storica”». Non ne dubitavamo. Il poco di autenticamente marxista e rivoluzionario che si può trovare in Gramsci non viene neppur lontanamente preso in considerazione dalla storiografia accademica.

[7] «Il marxismo rivoluzionario di Antonio Gramsci», Bandiera Rossa 69, 1997, pag. 75. Va osservato che in questo opuscolo, come in altri di matrice trotzkista, l’eredità di Gramsci è totalmente rivendicata come parte integrante di ciò che viene erroneamente indicato come marxismo rivoluzionario. Lo è nell’individuazione gramsciana di strumenti di lotta democratico-rivoluzionari (i Consigli); lo è nella politica delle alleanze con mezze classi. Le manovre di corridoio tese a liquidare, su istruzione dell’Internazionale, la direzione di sinistra del PCd’I, sono presentate come brillante esempio della “riflessione” e dell’ “iniziativa” gramsciana basate sui testi fondamentali dei primi quattro Congressi dell’Internazionale Comunista (nascondendo accuratamente il contributo teorico che la Sinistra “italiana” diede all’elaborazione delle tesi di ammissione all’Internazionale; ci vuole poi una bella faccia tosta ad inserire nella “lista” il Secondo Congresso, in cui il movimento comunista internazionale raggiunse uno dei punti più elevati di elaborazione teorica rigorosamente marxista, tutto il contrario delle pastette interclassiste cui i trotzkisti ci hanno abituato in seguito). Si cela il fatto che Gramsci, dopo aver manovrato per costituire una frazione nel partito a partire dal 1923, si sia poi scatenato contro la Sinistra a partire dal 1924 accusandola di “frazionismo” quando questa era, nella realtà dei numeri e della forza di base, l’effettiva maggioranza. Si afferma che l’acquisizione della tattica frontista, quella stessa che aveva già dato i suoi brillanti frutti in uno spaventoso stillicidio di tragedie proletarie in Germania, e che è alla base del crollo successivo di tutte le organizzazioni politiche proletarie, è vista come riarmo strategico del partito italiano per opera di Gramsci. Si giustifica la bolscevizzazione, di cui Gramsci fu solerte strumento, sostenendo che, in fin dei conti e data l’eterogeneità dell’IC, fosse indispensabile un processo di chiarificazione (fatta coi metodi degni del primo Stalin, e tacendo che una tale esigenza di “chiarezza” non si fece più sentire nelle politiche frontiste d’ogni tipo). Si vuole sottolineare che Gramsci si oppose alla politica dell’Internazionale Comunista e del partito italiano in un periodo cruciale (il 1930), tacendo tutte le esitazioni che la stessa Internazionale Comunista aveva attraversato nella questione tedesca, poi l’indirizzo “fuori rotta” di questa sulla questione russa, ed infine sul dibattito relativo al “socialismo in un solo paese”: tutte questioni sulle quali solo la Sinistra seppe opporsi con forza, mentre Gramsci seguiva con entusiasmo le mutevoli direttive che arrivavano da Mosca.

Dopo queste falsificazioni nella politica gramsciana, l’opuscolo si addentra nella filosofia, e se lo fa, come si è visto, in modo così attento alla “ricostruzione storica”, gli è che in questi casi “gli scrupoli filologici non sono mai eccessivi” (pag. 37). Come unico esempio di simili “scrupoli” citiamo il seguente, relativo al concetto di egemonia. E’ noto il passo gramsciano secondo cui Lenin «avrebbe fatto progredire effettivamente la filosofia come filosofia in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica. La realizzazione di un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto di conoscenza, un fatto filosofico» (Ms, pag. 39). E’ altresì ben noto che, in Lenin (Due tattiche del 1905), il concetto di egemonia sta semplicemente ad indicare che, nella rivoluzione democratica, il proletariato urbano avrà un ruolo trainante nei confronti dei contadini. Ma basta questo accenno gramsciano a Lenin per far esclamare di gioia che proprio ciò fa piazza pulita “di tutti i tentativi di contrapporre a questo riguardo Gramsci a Lenin” (pag. 52-53).

[8] Questo mostruoso connubio è particolarmente apprezzato in Brasile. Si veda ad esempio C. N. Coutinho, «Democrazia e socialismo in Gramsci», in G. Baratta e G. Liguori (a cura), Gramsci da un secolo all’altro, Editori Riuniti 1999, pag. 39.

[9] Si veda ad esempio R. Mondolfo, Intorno a Gramsci e alla filosofia della prassi, Ed. Critica Sociale, 1955, pag. 31.

[10] Storia della Sinistra Comunista, ed. il programma comunista, vol. II, 1972, pag. 189.

[11] Teoria ed azione nella dottrina marxista, in Partito e classe, “I testi del partito comunista internazionale”, n. 4, pag. 121.

[12] Tesi caratteristiche del partito, dicembre 1951. In difesa della continuità del programma comunista, ed. il programma comunista, n. 2, pag. 148.

[13] «Individualismo e collettivismo», Il Grido del Popolo, 9 marzo 1918.

[14] Il Capitale, vol I, Ed. UTET, pag. 75-76.

[15] «Sul metodo dialettico», Prometeo, n. 1, 1950.

[16] «Comunismo e conoscenza umana», Prometeo, n. 4, 1952.

[17] A.A. Bogdanov, Empiriomonismo, citato da Lenin, Materialismo ed Empiriocriticismo, Ed. Riuniti 1963, pag. 119-121.

[18] Ibid., pag. 224.

[19] Ibid., pag. 317.

[20] K. Marx, F. Engels, L’Ideologia tedesca, pag. 26-27.

[21] Non c’è filosofo agnostico sedicente marxista che non sottolinei con compiacimento queste pretese “concessioni” che Marx avrebbe fatto all’idealismo hegeliano. Per chiarire le cose non c’è che lasciare parlare Marx stesso: “Come è accaduto che gli uomini “si mettono in testa” queste illusioni [le illusioni religiose]? Questa domanda apriva per gli stessi teorici tedeschi la strada della concezione materialistica del mondo, che non è priva di presupposti ma osserva i presupposti materiali reali come tali ed è perciò, essa sola, la concezione del mondo realmente critica. Questo passaggio era già stato indicato nei Deutsch-Französiche Jahrbücher, negli scritti Per la critica della filosofia del diritto di Hegel e Sulla questione ebraica. Poiché ciò fu fatto usando ancora la fraseologia filosofica, le espressioni filosofiche tradizionali sfuggite in quegli scritti, come “essenza umana”, “specie”, ecc., offrirono ai teorici tedeschi l’occasione desiderata di fraintendere il corso reale delle idee e di credere che in essi si trattasse soltanto di dare una nuova piega, ancora una volta, alle loro consunte vesti teoriche”. L’Ideologia tedesca, Ed. Riuniti 1958, pag. 228-29.

[22] K. Marx, Appendice, Per la critica dell’economia politica, Ed. Riuniti, 1957, pag. 188-89 (nostra evidenziatura).

[23] Lenin, Materialismo ed Empiriocriticismo, cit., pag. 120.

[24] Id., ibid., pag. 224-25.

[25] Id., ibid., pag. 317-19. E’ certamente per queste ragioni che tutti i commentatori di Gramsci considerano poco più che spazzatura il Materialismo ed Empiriocriticismo di Lenin. Secondo il Gerratana si tratta di opera tra le più disarmoniche nella sua asprezza polemica (V. Gerratana, Presentazione a N. Bucharin, Teoria del materialismo storico, La Nuova Italia, Firenze 1977, pag. X); secondo il Tamburrano Lenin cade nella divinizzazione della materia (G. Tamburrano, Antonio Gramsci, SugarCo, 1977, pag. 237) o, ad essere caritatevoli, non riesce ad uscire dalla contraddizione tra il soggettivismo volontaristico delle Opere politiche e l’oggettivismo gnoseologico delle Opere filosofiche (Ibid., pag. 244n)

[26] «La teoria della funzione primaria del partito politico, sola custodia e salvezza della energia storica del proletariato». il programma comunista, n. 21, 1958).

[27] Ibidem.

[28] G. Tamburrano, op. cit. Si veda in particolare l’esposizione che il T. fa del “gramscismo” tra pag. 228 e 275.

[29] Id. pag. 243.

[30] Id., pag. 252

[31] A. Gramsci, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Einaudi 1949, pag. 8.

[32] A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura. Einaudi 1949, pag.13.

[33] Lenin, Che fare?, Ed. Riuniti, 1958, pag. 365. “Della socialdemocrazia”, dice Lenin, e ciò significa molto esplicitamente “del partito di classe”.

[34] Impreparazione non tanto e non solo nella struttura organizzativa, frantumata dal processo di bolscevizzazione imposto a tutte le sezioni dell’Internazionale; ma soprattutto nel sapere impostare l’apparato di difesa programmatico e teorico nei vertici del partito e nella base, mantenendosi saldi ai principi in un periodo che evolveva rapidamente in senso controrivoluzionario. Non, dunque, rincorsa alle masse; non fronti unici con i partiti opportunisti, ma rigorosa conservazione dell’autonomia di classe. E’ quanto sostenne, inascoltata, in una lunga battaglia nell’Internazionale la Sinistra “italiana”.

[35] L’Ideologia tedesca, Ed. Riuniti 1958, pag. 16-17.

[36] Gramsci nega con forza la possibilità di esistenza di una scienza della società, una scienza con le sue leggi e le sue possibilità di previsione del cammino storico: «per uno strano capovolgimento delle prospettive... la metodologia storica è stata concepita “scientificamente” solo se e in quanto abilita astrattamente a “prevedere” l’avvenire della società. Quindi la ricerca delle cause essenziali, anzi della “causa prima” della “causa delle cause”». Ms pag. 135.

[37] Lenin, Materialismo ed Empiriocriticismo, pag. 225-26.

[38] Materialismo ed Empiriocriticismo, cit., pag. 224.

[39] Con buona pace di Althusser, uno dei filosofi maîtres-à-penser che hanno veicolato Gramsci nella Francia pre-sessantottina, questa espressione non ha affatto solo “un significato critico e polemico” (Leggere il Capitale, pag. 135). E’ invece la forma strutturalmente necessaria di cui si riveste, e non può essere diversamente, il volontarismo e l’educazionismo tipico di tutta l’ideologia gramsciana, quella, per intenderci, che trovò la sua genuina espressione nell’immediatismo consiliarista. Non fu forse il movimento dei Consigli torinesi - nel linguaggio di Gramsci - un tentativo non realizzato di creare “un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto di conoscenza, un fatto filosofico”? (Ms 39). Althusser si servì di questa storpia interpretazione del gramscismo per cavalcare l’ondata studentesca ed intellettuale dell’epoca. Non prometteva essa “la fantasia al potere”?

[40] A. Gramsci, «Misteri della cultura e della poesia», Scritti giovanili, Einaudi 1958, pag. 328.

[41] Ibid., pag. 327-28.

[42] P. Togliatti, Gramsci, Ed. Parenti, Firenze 1955. Citazioni a pagina 8-9, 83 e 85.

[43] A. Gramsci, «La rivoluzione contro il “Capitale”», Avanti!, ed. milanese, 24 novembre 1917.

[44] A. Gramsci, «Socialismo e cultura», in Scritti giovanili, cit., pag. 24

[45] «Fantasime carlailiane», il programma comunista, n. 9, 1953.

[46] Il Capitale, libro I, UTET 1974, pag. 84 e 86.

[47] Nella lettera che Gramsci scrive da Vienna il 9 febbraio 1924 a Togliatti, Terracini e altri, da cui citiamo, si trova una sorta di “analisi” della situazione italiana ed internazionale assai rivelatrice dello stato di marasma in cui si trovava il partito dopo la sostituzione della Sinistra nel CC. Vi sono anche alcune osservazioni di Gramsci che meriterebbero un commento più approfondito. Ad esempio, si sostiene che, nel 1917, Lenin e la maggioranza del partito bolscevico sia passato “alla concezione di Trotzky”. La rivoluzione d’Ottobre è descritta come un “colpo di Stato”. La supremazia del partito russo nell’Internazionale, contro cui la Sinistra si battè inutilmente, è giustificata “da una base materiale che noi non potremo avere se non dopo una rivoluzione e ciò dà alla loro supremazia un carattere permanente e difficilmente intaccabile”. Un servilismo anti-internazionalista prontamente sposato dai ceffi italiani che presto andranno a popolare l’Hotel Lux di Mosca.

[48] Si consideri per esempio le seguenti affermazioni di L. Althusser: «La filosofia marxista, di cui Marx aveva gettato le basi nell’atto stesso in cui aveva fondato la sua teoria della storia, è in gran parte ancora da costruire ... le difficoltà teoriche in cui nella notte del dogmatismo ci eravamo dibattuti ... dipendevano anche in gran parte dallo stato di mancata elaborazione della filosofia marxista» (Per Marx, Ed. Riuniti 1967, pag. 14). Non ricorda da vicino, tutto ciò, il gramsciano “Marx non era un filosofo”?

[49] Machiavelli, cit., pag. 317.

[50] Ibid., pag. 317.

[51] Ms pag. 39.

[52] Machiavelli, cit., pag. 115

[53] A. Gramsci, Sotto la Mole, Einaudi 1960, pag. 93.

[54] Machiavelli, cit., pag. 329-330.

[55] Si veda N. Urbinati, «La sua fortuna americana», l’Unità (suppl.), 15 gennaio 1991.

[56] The Company of Critics, Basic Books 1988.

[57] Partito e classe. I testi del partito comunista internazionale, 4, ed. il programma comunista (1974), pag. 128.

[58] Id, pag. 127.

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