DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

 

Il nostro nome è il nostro programma

"Partito Comunista Internazionale?", dirà qualcuno con un misto d'incredulità e ironia. "Ma che? I partiti han fatto bancarotta, il comunismo è morto, s'è riaperta l'era dei nazionalismi, e questi si chiamano Partito Comunista Internazionale! Ma dove vivono?!" Stia tranquillo il nostro interlocutore: sappiamo benissimo dove e in che epoca viviamo, e proprio per questo ci chiamiamo così. Prima d'ogni altra cosa, proviamo allora a sgombrare il campo da questi equivoci.

Partito? Sì, ci proclamiamo "partito", ribadiamo con forza la necessità del partito. L'ideologia dominante (quella del capitale e di chi lo tiene in piedi: politici, economisti, intellettuali, sindacalisti, poliziotti d'ogni tipo) vorrebbe ridurci a tanti individui isolati e incapaci di guardare oltre i confini del loro io, paralizzati dagli incubi di cui è pieno il mondo contemporaneo, istupiditi da mass media che non vedono il fondo quanto a oscenità e vuotezza, rassegnati e pronti alla resa (oppure letteralmente drogati dal mito che l'individuo può tutto, sol che voglia, sappia, legga, s'informi", mentre l'individuo nel regno del capitale è appunto quanto di più indifeso e vulnerabile ci si possa immaginare, autentica preda di meccanismi di cui gli sfugge il funzionamento).


D'altra parte, la classe dominante i suoi partiti li ha, ciascuno rispondente ai tanti interessi in competizione che caratterizzano il capitalismo. E quando ne ha davvero bisogno, è ben capace di arrivare al "partito unico", strumento esplicito e diretto del suo dominio di classe, e di irreggimentare in esso gli individui abbandonati a se stessi e ridotti a tante molecole impotenti. Perché mai, allora, il proletariato non dovrebbe avere il suo partito? Perché mai dovremmo dare una mano alla classe dominante in quest'opera di disgregazione, abbandono e assoggettamento, accettando di buon grado l'idea che "i partiti hanno fatto il loro tempo Saremmo imbecilli criminali.
Noi diciamo invece che la classe operaia ha bisogno del partito proprio per reagire all'opera di frantumazione condotta dalla classe dominante, proprio per rispondere ai partiti dell'ordine, della patria, della normalizzazione, della guerra. Ha bisogno, però, di un partito che rappresenti i suoi interessi storici, che l'aiuti a riconquistare quell'unità e identità necessarie oggi per difendersi e domani per contrattaccare, che costituisca un punto di riferimento stabile e riconoscibile, che si fondi su un solido bagaglio teorico, su un programma chiaro a tutti, su un'esperienza storica pluridecennale, su una disciplina interna dettata non da uno stupido caporalismo o da un cieco fideismo ma dalla consapevolezza da parte di tutti i militanti di contribuire a una causa comune, senza miraggi di medaglie e celebrità, privilegi e posti da onorevole.
É vero: di questi tempi, i partiti non godono di buona salute. C'è quello che scompare dalla scena e quello che si ribattezza, quello che affonda con il suo capo e quello che cambia camicia e pantaloni. Ma non è la "forma-partito" che ha fatto bancarotta, come vorrebbero tutti i sostenitori di non meglio definite "alleanze, movimenti, club, leghe" (che poi o finiscono tutti per agire ugualmente da partiti nel senso tradizionale o, non volendo farlo, dimostrano la propria totale incapacità di agire). A far bancarotta sono stati i programmi politici di partiti che guardavano all'uno o all'altro blocco imperialista come ad altrettanti modelli cui i spirarsi: quello occidentale sotto l'ombrello USA, quello orientale sotto l'ombrello URSS (con i vari ombrellini cinesi, albanesi, cubani, etc.). E che a quei modelli hanno subordinato in tutto e per tutto la propria politica, la propria strategia, la propria tattica.

La crisi economica apertasi nel 1975 (con la sua tragica coda di eventi recenti: instabilità sociale, disoccupazione, razzismo, guerre) ha macinato sicurezze, garanzie, posti di lavoro, serenità nel presente, fiducia nel futuro. Il mondo intero è in convulsione, i punti di riferimento si sono dissolti nel nulla, le abitudini che hanno retto e condizionato il modo di vivere di almeno due generazioni sono state scosse fin nelle fondamenta, e tutti i commentatori sono concordi nel riconoscere che a regnare oggi è la più grande incertezza. In questa situazione sempre più drammatica, c'è chi vorrebbe ancor più affondare (e far affondare) nella palude del disorientamento proclamando che "il tempo dei partiti è finito"!

Comunista? Sì. ci dichiariamo "comunisti", e ribadiamo con forza la necessità del comunismo. E un cardine della teoria marxista il concetto che tutti i sistemi sociali divisi in classi raggiungono a un certo punto uno stadio in cui lo sviluppo delle forze produttive entra in violenta contraddizione con le forme della vita associata prodotte da quel sistema: la conseguenza è una perenne instabilità, una degenerazione acuta della vita sociale in tutti i suoi aspetti (delinquenza, droga, infelicità, distruzione dell'ambiente, violenza tra gli individui e i gruppi sociali), cicli di crisi economiche sempre più ravvicinate, estese e profonde, guerre che dalla periferia convergono verso il centro fino a sfociare in devastanti conflitti mondiali. Il sistema gira a vuoto, è intasato da merci che non riesce a smaltire, non ce la fa a riassorbire i milioni di disoccupati che ha prodotto, e cerca di uscire dall'impasse nell'unico modo che conosce: distruggendo a più non posso tutto quanto esiste in sovrappiù. Dopodiché, il girone infernale potrà riprendere con rinnovata aggressività, con accresciute potenzialità distruttive.

Da tempo, ormai, il sistema capitalistico ha toccato lo stadio in cui dal punto di vista del progresso dell'umanità - la sua storia è destinata a essere solo negativa. Da tempo, dunque, è attuale la necessità (oggettiva, non soggettiva; materiale, non morale) che a esso subentri un sistema economico e sociale diverso - un sistema che, fondandosi sull'elevatissimo livello raggiunto dalle forze produttive, le liberi però da quei vincoli che le rendono distruttive, le indirizzi verso finalità che non siano quelle della corsa al profitto, della competizione di tutti contro tutti, di un mercato che è strutturalmente (geneticamente!) pazzo.

"Già, bei risultati, quelli del comunismo sovietico!", commenterà il nostro interlocutore. L'obiezione non ci fa né caldo né freddo, per la semplice ragione che non abbiamo mai considerato "comunismo" quello che vigeva in URSS (come in Cina, in Albania, in Jugoslavia, a Cuba: insomma, il cosiddetto "socialismo reale"). "Facile dirlo adesso!", interromperà l'interlocutore. No: non da adesso lo sosteniamo, ma dalla metà degli anni '20, quando la nostra corrente si è apertamente scontrata con il nascente stalinismo, individuando in esso non una variante del comunismo, ma la sua negazione: vale a dire, la forma moderna della controrivoluzione. In URSS e in tutti i paesi a cosiddetto "socialismo reale", non c'era un grammo di socialismo o comunismo. In tutti vigevano forme più o meno sviluppate, più o meno complete, di capitalismo di Stato. Di capitalismo, dunque, e non di socialismo o comunismo - il che si rifletteva poi internazionalmente nei programmi dei partiti pseudo-comunisti di matrice, staliniana: tutti intonati al mito della democrazia "popolare" e più o meno progressista, tutti con gli occhi fissi alle riforme, al parlamento, su su fino alla collaborazione governativa. Ed è intorno a questa analisi (un lavoro enorme di decenni, fatto di studi e di lotta, in solitudine e controcorrente, quando affermare cose del genere significava essere bollati come "fascisti", "agenti della Gestapo", "pagati dalla CIA"!) che la nostra corrente si è stretta e ha saputo resistere: contro l'inganno stalinista e contro le terrificanti conseguenze di quell'inganno, di cui oggi, in tutto il mondo (Jugoslavia, in primis!), vediamo gli effetti tragici e disastrosi.

Per questo, non abbiamo alcuna difficoltà (anzi, proviamo un grande orgoglio) a definirci comunisti, oggi come ieri come domani. Chi non capisce questo, chi è convinto che si sia "chiusa l'era del comunismo", è, volente o nolente, l'ultimo... stalinista sulla faccia della terra, perché si ostina a considerare comunismo il capitalismo in larga misura di Stato che vigeva nei paesi dell'Est e che, esaurito il proprio compito di accumulazione originaria, sta cercando di travasarsi in forme e strutture economiche più elastiche, anche per far fronte alla devastante crisi economica mondiale iniziata a metà anni '70. La necessità del comunismo, invece, si fa sentire in Jugoslavia come in Rwanda, a Los Angeles come a Mosca o Parigi, in Afghanistan come in Italia; nelle metropoli intrise di miseria, inquinamento e violenza, come nelle campagne avvelenate da scarichi e pesticidi; nei centri di ricerca medica, fisica, chimica dominati dall'imperativo categorico del profitto, come nelle fabbriche del Primo, Secondo, Terzo Mondo in cui si spreme pluslavoro in maniera sempre più feroce; nelle foreste amazzoniche divorate dall'avanzare della macchina capitalistica come nelle lande africane prosciugate dalla ricerca del petrolio o dalle esigenze della monocoltura che rende al momento di più...

Internazionale? Sì, ci dichiariamo "internazionalisti", e ribadiamo con forza la necessità dell'internazionalismo e di un'organizzazione e strategia internazionali. Non solo perché, fin dalla nascita, il comunismo è internazionale e internazionalista (e non può essere altro). Ma anche perché, ancora una volta, è la realtà stessa a indicare la via. Nel corso d'un secolo, si è assistito all'impressionante diffusione del sistema capitalistico in ogni angolo della terra. Come Marx aveva perfettamente previsto, il capitale ha sottomesso a sé anche le più lontane aree del pianeta, avvolgendolo in una trama strettissima ed efficientissima di relazioni economiche, politiche, culturali, informatiche. Il processo, così splendidamente descritto nel Manifesto del partito comunista del 1848, ha valicato i confini dell'Europa e dell'America e ha travolto Asia, America Latina, Africa, sottoponendole alle proprie leggi ferree e spietate. Quello del capitale è un sistema economico mondiale: è esso stesso ad aver creato le basi di un organizzazione mondiale della vita e delle collettività umane.

Al contempo, la competizione tra le borghesie nazionali ha raggiunto livelli acutissimi, che già prefigurano gli schieramenti di una futura guerra mondiale: la guerra commerciale tra Stati Uniti da una parte e Germania e Giappone dall'altra è da anni all'ordine del giorno, con gli altri paesi altamente industrializzati impegnati a trovare una propria collocazione all'interno di questo scontro; la guerra guerreggiata per il controllo delle materie prime e delle grandi vie commerciali è già in corso nelle periferie ormai vicine del capitalismo altamente sviluppato (e questo spiega la Guerra del Golfo, la Somalia, il Rwanda, la totale instabilità dell'Africa e del Medio Oriente, la tragedia jugoslava: altro che guerre di etnie e religione!) - una situazione resa ancor più caotica e drammatica dal crollo del blocco dell'Est con l'esplodere di conflitti locali d'inaudita violenza. Il mondo borghese oscilla dunque sempre più tra la dimensione mondiale del mercato come espressione della fase imperialistica del capitalismo e l'esplodere di localismi e nazionalismi come riflesso della competizione e della corsa al profitto, specie in un'epoca di crisi acuta quale è quella che si trascina ormai da più di quindici anni tra alti e bassi, fasi di crollo verticale e momenti di timida ma ingannevole ripresa.

É evidente allora che l'unica via d'uscita dalla retorica patriottarda, dall'ottusità localista, dalla barbarie nazionalista, dal vicolo cieco etnico,
dal tunnel di conflitti sempre più allargati, sta nella riconquista di una vigorosa prospettiva internazionalista: che cioè riconosca come punto di partenza positivo a scala storica la dimensione mondiale raggiunta dallo stesso sviluppo delle forze produttive, base irrinunciabile del comunismo; che superi le miserie e le gelosie, le paure irrazionali e le teorizzazioni idiote alimentate dall'ideologia borghese e democratica anche quando sparge a piene mani la retorica della "libertà eguaglianza, fratellanza"; che resista e risponda al ricatto di ogni patriottismo comunque mascherato, lottando contro la propria borghesia nazionale nella consapevolezza che di una lotta internazionale si tratta; che affronti il problema dei grandi flussi migratori, della distruzione di intere aree del pianeta, della miseria crescente alla periferia delle nazioni capitalistiche avanzate, non con ipocrite e imbelli iniziative di beneficenza, ma abbracciando in un unico esercito mondiale i lavoratori di tutti i paesi, costretti dall'espansione capitalistica a una tragedia quotidiana, alla morte per fame ed epidemie, al nomadismo perenne.

Un internazionalismo che è insomma la necessaria anticipazione (non nel regno delle idee, ma in quello dei fatti) di quel concetto di specie su cui si fonda il comunismo: ben oltre, dunque, i limiti angusti cui ci ha abituato la società del capitale, dello sfruttamento, della concorrenza e del profitto, e dichiaratamente contro l'armamentario ideologico dell`individuo sovrano", del "popolo eletto", della "nazione trionfante" che per l'appunto caratterizza quella società.

Partito Comunista Internazionale, dunque: cioè un programma, una strategia, una tattica, un'organizzazione, che siano in grado di superare le contingenze di tempo e di spazio, di assicurare la continuità tra le generazioni, di integrare ed esaltare in un unico organismo le migliori energie rivoluzionarie annullando egoismi e gelosie, di unire al di sopra delle barriere politiche, ideologiche e geografiche i lavoratori di tutto il mondo, per organizzarli, condurli e guidarli nella lotta contro il sistema del capitale, nella lotta per il comunismo, per la società finalmente senza classi.

 

Da dove veniamo

A questo punto, il nostro immaginario interlocutore si chiederà (ci chiederà) se non siamo per caso uno di quei gruppetti e gruppettini nati nel '68 e dintorni e a stento sopravvissuti all'epoca dei movimenti studenteschi, della contestazione, del terrorismo. E di nuovo dobbiamo deluderlo.

Il fatto è che il Partito Comunista Internazionale viene da molto lontano e non ha proprio nulla a che vedere con il '68, la contestazione, i movimenti giovanili, e in genere con quella reazione infantile allo stalinismo che si chiama estremismo, spontaneismo, movimentismo, operaismo, ecc. ecc. È una questione di diversità radicale, diciamo pure "genetica". Il nostro partito - per quanto oggi piccolo, poco influente, di scarso peso numerico - è la continuazione ininterrotta, al di sopra degli alti e bassi di una vicenda tremenda di controrivoluzione, della grande tradizione del movimento comunista internazionale degli inizi del secolo. Esso è (e il nostro immaginario interlocutore ci perdoni un po' di orgogliosa retorica) come un fiume carsico che ha dovuto (e saputo) scorrere al di sotto dell'aridità e dello sgretolamento, della melma e delle frane. Proviamo a ripercorrere questo lungo cammino, in maniera anche molto schematica ed elementare.

1892 - Nasce il Partito Socialista Italiano. Frutto della confluenza di posizioni diverse, e non tutte chiaramente rivoluzionarie e internazionaliste, il PSI è diretto da riformisti (che, a confronto di quelli che li hanno seguiti specie dopo la seconda guerra mondiale nella cosiddetta "sinistra", risultavano se non altro... dignitosi). Gli anni tra fine '800 e inizi '900 sono un periodo di grandi lotte operaie, sia in Italia che nel resto d'Europa e in America, e la dirigenza riformista del PSI e delle grandi centrali sindacali si scontra spesso con la combattività delle masse.

1910 - Al Congresso di Milano del PSI, emerge con nettezza una Sinistra decisa a combattere la dirigenza riformista del partito e dei sindacati, nel vivo di lotte operaie che la vedono da tempo all'avanguardia. La Sinistra proclama subito, nei fatti, il proprio internazionalismo battendosi con vigore contro la guerra di Libia (1911) e, al Congresso di Reggio Emilia del PSI (1912), si organizza in Frazione Intransigente Rivoluzionaria. Proprio di quegli anni è anche la sua lotta all'interno della Frazione Giovanile Socialista per contrastare le posizioni di chi vorrebbe farne un organismo puramente culturale. Per la Sinistra, invece, la Frazione Giovanile (e il partito tutto) deve essere un'organizzazione di lotta: l'ossigeno rivoluzionario deve cioè venire ai singoli giovani militanti dall'insieme della vita del partito in quanto guida del proletariato lungo la strada che porta alla rivoluzione, e non da una banale "scuoletta di partito". Un ruolo decisivo, all'interno della Frazione Intransigente Rivoluzionaria, viene ormai sempre più svolto, a Napoli, da Amadeo Bordiga (1 889-1970) e dal "Circolo socialista rivoluzionario Carlo Marx", veri punti di riferimento dell'intera Sinistra del PSI.

1914 - Scoppia la prima guerra mondiale, e la Sinistra del PSI proclama la necessità del "disfattismo rivoluzionario" in pieno accordo con le tesi leniniste allora praticamente sconosciute in Italia. Di fronte al fallimento di tutti i partiti socialisti europei (che appoggiano lo sforzo bellico delle rispettive borghesie, votandone i crediti di guerra), e nonostante gli sforzi della Sinistra, il PSI adotta la formula ambigua "né aderire né sabotare". Gli "interventisti", Mussolini in testa, escono dal partito.

1917 - Allo scoppio della Rivoluzione d'Ottobre, la Sinistra si schiera senza esitazione al fianco di Lenin e Trotsky, salutando l'evento come l'aprirsi di una fase rivoluzionaria internazionale: Il bolscevismo, pianta d'ogni clima è il titolo dell'articolo di Bordiga che commenta a caldo la Rivoluzione. Gramsci e Togliatti, rappresentanti del gruppo torinese riunito intorno al giornale "L'Ordine Nuovo" (con grosse influenze idealiste e dunque non-marxiste), sono invece confusi e ambigui: nell'articolo La rivoluzione contro il Capitale, per esempio, Gramsci sostiene che la Rivoluzione d'Ottobre smentisce la prospettiva marxista! In Italia, la Sinistra è l'unica formazione interna al PSI ad avere una rete organizzata su scala nazionale: alla sua iniziativa si deve la convocazione del Convegno di Firenze nel 1917, in cui si ribadisce l'assoluta intransigenza del Partito nell'opposizione alla guerra. A partire dal 1918, mentre nel paese sale la tensione sociale, si moltiplicano gli scioperi, cresce il malcontento per le conseguenze della guerra, la Sinistra (che dal dicembre possiede un proprio organo centrale di stampa, "Il Soviet") si batte perché il PSI appoggi senza esitazioni la Russia rivoluzionaria riconoscendo apertamente il significato internazionale della strategia leninista.

1919 - È l'anno cruciale in tutt'Europa: l'anno dei grandi scioperi in Italia e dei tentativi rivoluzionari in Germania e Ungheria, l'anno in cui vengono massacrati Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, l'anno della costituzione della Terza Internazionale come partito della rivoluzione mondiale. In Italia, scoppia la polemica tra la Sinistra (che preme per la creazione di un autentico partito comunista in grado di applicare l'esperienza della rivoluzione russa all'Occidente avanzato e ribadisce il carattere di rottura sociale e politica dei soviet come organi del dualismo di potere in un processo rivoluzionario in corso) e "L'Ordine Nuovo" (che pretende di individuare nei consigli di fabbrica l'equivalente dei soviet, dando a essi organismi locali e del tutto interni all'organizzazione sociale e politica capitalistica - una patente di "prefigurazione della società futura"). Sempre nel 1919, proprio grazie all'azione teorica e pratica della Sinistra, si forma all'interno del PSI la Frazione Comunista Astensionista, nucleo del futuro Partito Comunista d'Italia. Uno degli elementi che la caratterizzano è l'affermazione che, nei paesi di vecchia democrazia (l'Europa Centro-occidentale, gli Stati Uniti), il parlamento, oltre a non essere il luogo dove vengono prese le reali decisioni economico-politiche (come i classici del marxismo hanno sempre insegnato), non è nemmeno più una tribuna utile a far sentire la voce dei comunisti: da tempo è diventato uno strumento per sviare e disperdere le energie rivoluzionarie. Non solo dunque il parlamentarismo va combattuto, ma non si deve prendere parte alle elezioni politiche per dare il massimo rilievo all'opposizione a esso e allo Stato borghese, sia pure "democratico". Un altro elemento caratterizzante la strategia della Sinistra è la concezione del "Fronte unico dal basso": non dunque l'ambigua e confusa convergenza di partiti od organizzazioni dotati di programmi politici diversi, ma lo schierarsi dei lavoratori di qualunque fede politica o religiosa su un fronte comune di lotta, intorno a concreti obiettivi economici e sociali, di difesa delle condizioni di vita e di lavoro.

1920 - Al Secondo Congresso della Terza Internazionale, la presenza della Sinistra è di fondamentale importanza. Il suo contributo è decisivo per rendere più severe le "condizioni di ammissione" all'Internazionale stessa, per evitare che vi entrino gruppi e partiti che a parole, e sull'onda di una fase ancora di lotte vigorose, ne accettano sì la disciplina e il programma rivoluzionari, ma poi, nei fatti, ne sabotano (soprattutto se l'onda rivoluzionaria internazionale dovesse calare) l'operato. La Sinistra è la formazione comunista europea che con maggior chiarezza si schiera su una prospettiva internazionalista, concependo l'Internazionale come il vero, autentico partito mondiale, e non come somma formale, aritmetica, di partiti nazionali, lasciati poi liberi di seguire la via che credono. Nell'Internazionale, la Sinistra (che lotta in Italia per arrivare alla creazione di un vero Partito Comunista) si schiera per la riaffermazione integrale del marxismo, per una prospettiva programmatica, strategica e tattica internazionalista che affasci proletari dell'Occidente avanzato e popoli dell'Oriente, per la necessità del partito rivoluzionario, della rottura violenta dell'ordine borghese e dell'instaurazione della dittatura di classe come ponte di passaggio verso la società senza classi, per una disciplina interna agli organismi internazionali e nazionali fatta non di vuoto caporalismo ma di piena accettazione e comprensione del programma rivoluzionario da parte dei militanti tutti.

1921 - Al Congresso di Livorno del PSI, la Sinistra Comunista rompe con il vecchio partito riformista e fonda il Partito Comunista d'Italia, Sezione dell'Internazionale Comunista. Nonostante le affermazioni in contrario della successiva storiografia stalinista, il ruolo dirigente è totalmente della Sinistra e di Bordiga: Gramsci, Togliatti & Co. sono in questa fase totalmente allineati con essa. Per due anni, nell'Europa occidentale che cerca di imboccare la via della rivoluzione e di offrire così l'aiuto decisivo all'Unione Sovietica, il PCd'l guidato dalla Sinistra rappresenta la punta avanzata del "bolscevismo pianta di ogni clima". Opera sul piano sindacale per costituire un reale fronte di lotta (e non di partiti) delle masse operaie indipendentemente dalla loro affiliazione politica; conduce una lotta strenua contro il riformismo socialdemocratico che inganna gli operai con illusioni pacifiste e legalitarie; combatte a viso aperto il fascismo, che considera non una reazione feudale (come teorizzerà in seguito lo stalinismo!), ma l'espressione politica del grande capitale (industriale e agrario) posto di fronte a una crisi economica mondiale e a un proletariato militante; si crea un proprio apparato militare di difesa contro la reazione evitando di confondersi con raggruppamenti spuri ed equivoci come gli "Arditi del Popolo"; e, in tutte le questioni tattiche e strategiche affrontate in anni di progressivo riflusso del movimento rivoluzionario, si pone costantemente in una prospettiva internazionale e internazionalista, denunciando fin dal loro comparire le tendenze localiste e autonomiste e soprattutto la spinta verso la subordinazione dell'Internazionale stessa alle esigenze nazionali russe.

1923-24 - Approfittando dell'arresto di Bordiga e di buona parte dei dirigenti del PCd'l (nel tardo '23, il processo si concluderà con una celebre autodifesa degli imputati e la loro assoluzione), la direzione passa a uomini più arrendevoli alle direttive sempre più "elastiche" dell'Internazionale, e nel corso del '24, pur avendo ottenuto la maggioranza alla Conferenza nazionale di Corno (maggio), la Sinistra viene estromessa dalla direzione, affidata per iniziativa di Mosca alla corrente di Centro guidata da Gramsci e Togliatti. Nei due anni che seguono, il processo di smantellamento dell'influenza della Sinistra nel partito assume sempre più i toni e adotta i metodi che saranno propri della politica staliniana: il suo organo Prometeo" viene dopo pochi numeri soppresso, le sezioni in cui la Sinistra è dominante vengono sciolte, i compagni della Sinistra vengono allontanati dagli incarichi direttivi, i loro articoli e documenti censurati o non pubblicati, e si afferma un regime interno di sospetto e intimidazione, di disciplina caporalesca e burocratica.

1926 - Al III Congresso del Partito, tenutosi fuori d'Italia, a Lione, le manovre del nuovo Centro (storicamente ben documentate: per esempio, il voto dei delegati assenti della Sinistra viene attribuito automaticamente al Centro!) si traducono nella completa emarginazione della Sinistra, che viene messa nell'impossibilità di agire e far sentire la propria voce ed è definitivamente emarginata all'interno del partito. Nello stesso anno, al VI Esecutivo Allargato dell'Internazionale comunista (Mosca, febbraio-marzo), Bordiga si batte contro la "bolscevizzazione", vale a dire la riorganizzazione del partito sulla base delle cellule di fabbrica, che - con il pretesto demagogico di incrementare il carattere "operaio" del partito - finisce invece per rinchiuderne la base nell'orizzonte angusto della singola fabbrica e officina e per rendere indispensabile la figura del "Funizionario-burocrate" che "dà la linea" stabilendo un legame fittizio e caporalesco fra Centro e periferia. Nella stessa arroventata riunione moscovita, Bordiga prende - solo fra tutti gli intervenuti - l'iniziativa di chiedere che la grave crisi interna del Partito bolscevico (preludio della teoria falsa e bugiarda del "socialismo in un solo paese") sia posta all'ordine del giorno di un prossimo Congresso mondiale, poiché "la rivoluzione russa è anche la nostra rivoluzione, i suoi problemi sono i nostri problemi e ogni membro dell'Internazionale rivoluzionaria ha non solo il diritto ma il dovere di collaborare alla loro soluzione". Penserà il fascismo ad arrestare Bordiga (insieme a tutti i dirigenti del PCd'I) prima che il nuovo congresso si riunisca; penserà Stalin a isolarvi l'Opposizione russa. Tra il 1926 e il 1930, i compagni della Sinistra vengono via via espulsi dal partito e dunque o consegnati alla repressione fascista o costretti all'emigrazione. La campagna contro la Sinistra in Italia è parallela a quella contro Trotsky in URSS, anche se fra le due correnti esistono punti di dissenso, che non impediscono tuttavia alla Sinistra di difendere l'Opposizione russa nei cruciali anni 1927-28. Bordiga stesso viene espulso nel 1930 con l'accusa di "trotskismo". Intanto, prima con il tradimento dello sciopero generale inglese del 1926, poi con la subordinazione del partito comunista ai nazionalisti del Kuomintang durante la rivoluzione cinese del 1927 (l'esito finale sarà il massacro della Comune di Canton a opera dei nazionalisti!), lo stalinismo, espressione delle forze borghesi in ascesa in un'URSS isolata dopo il fallimento della rivoluzione in Occidente, completa il rovesciamento dei principi e del programma comunisti.

1930-1940 - Con Bordiga isolato a Napoli e sottoposto a continua sorveglianza poliziesca, e la Sinistra perseguitata da fascismo e stalinismo, dispersa nell'emigrazione, soffocata dalla democrazia, inizia una fase della nostra storia che si può ben definire eroica. La Sinistra si riorganizza in Francia e in Belgio come Frazione all'Estero e pubblica le riviste "Prometeo" e "Bilan", con le quali continua la propria battaglia politica. La situazione è estremamente difficile, perché i compagni - pochi e dispersi - debbono combattere su tre fronti: contro il fascismo, contro lo stalinismo, contro la democrazia. E tuttavia denunciano la politica di Mosca (i "fronti popolari", la mano tesa alla democrazia, le continue capriole politiche sulla pelle dei proletari più combattivi, il patto Hitler-Stalin, gli appelli "ai fratelli in camicia nera" da parte di Togliatti), cercano vanamente di operare affinché, durante la guerra di Spagna, le incerte formazioni di sinistra si orientino in senso classista, lottano contro il fascismo e il nazismo (nella Francia occupata, riescono addirittura a svolgere propaganda disfattista tra i soldati tedeschi), sottopongono a critica tutti i miti democratici che sempre più inquinano il movimento operaio internazionale (allo scoppio della guerra e negli anni successivi, gli operai internazionalisti ne denunciano il carattere imperialista).É ormai evidente che, con lo stalinismo, ci si trova di fronte alla più grave ondata controrivoluzionaria, e i compagni iniziano, sia pure con insufficienze dovute all'estremo isolamento in cui si trovano, ad analizzare "che cosa è successo in URSS".É questa loro tenace resistenza, questa volontà ostinata di non lasciare che il "filo rosso" si spezzi, a permettere la rinascita del partito nel 1943.

1943-1952 - Grazie anche al rientro di alcuni compagni dall'emigrazione, comincia in Italia il lavoro di ritessitura di una vera e propria organizzazione. Esce clandestinamente - dalla fine del 1943 - il periodico "Prometeo". Successivamente, si riprendono i contatti con Bordiga, si svolge un'agitazione rivoluzionaria tra i proletari combattivi delusi dal movimento resistenziale, si opera per dare un indirizzo classista al moto di scioperi che scoppia negli ultimi anni di guerra, si lavora a stretto contatto con il proletariato ottenendo anche significativi risultati (in vari casi, specie nelle fabbriche del nord, sono gli internazionalisti a venire scelti come delegati alle Commissioni Interne). Nasce infine il Partito comunista internazionalista, con il periodico "Battaglia comunista". Lo scontro con gli stalinisti è aperto. Proprio mentre Togliatti, nella sua funzione di Ministro di Grazia e Giustizia, decreta un'amnistia generale e mette in libertà i caporioni e la manovalanza fascista inneggiando all'"uomo nuovo" e alla "rinata democrazia", il suo partito denuncia come "fascisti" gli internazionalisti e incita alla loro eliminazione fisica. Così, al culmine di un'autentica campagna di diffamazione e incitamento all'assassinio, i compagni Mario Acquaviva e Fausto Atti (e altri anonimi militanti di cui non siamo riusciti a sapere più nulla) vengono massacrati dagli stalinisti. Questa prima fase di vita del partito è ancora segnata dalle incertezze teoriche proprie della Frazione all'Estero, e i nodi verranno al pettine nel 1952, quando l'esigenza di ristabilire in maniera chiara e monolitica (e contro ogni fretta attivistica e superficiale) l'intero corpus marxista snaturato e distrutto dallo stalinismo porta a una prima frattura. In quello stesso anno, inizia dunque le pubblicazioni "Il programma comunista": sulle sue pagine, fino alla morte nel 1970, Bordiga svilupperà l'enorme lavoro di ricostruzione teorico-politica del Partito, che a metà anni '60 diventerà Internazionale " di fatto e non solo di nome. Le Tesi caratteristiche del Partito (1951), le Considerazioni sull'organica attività del Partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole (1965), le Tesi sul compito storico, l'azione e la struttura del Partito comunista mondiale- (1965) e le Tesi supplementari (1966) daranno poi al Partito il suo definitivo inquadramento teorico, politico e organizzativo.

1952-oggi – I decenni che seguirono videro il Partito comunista internazionalista (poi, da metà anni '60, Partito comunista internazionale), raccolto intorno a « Il programma comunista » e via via alle varie testate in altre lingue, impegnato nell'aspra battaglia politica per continuare e sviluppare in maniera rigorosa l'analisi della realtà capitalistica in tutti i suoi aspetti (economici, sociali, ideologici), comprendendo in questa realtà anche quella del cosiddetto “socialismo reale” russo; ma anche per accompagnare e, nei limiti delle sue forze, cercare di indirizzare le lotte proletarie che le vicissitudini del modo di produzione capitalistico accendevano in ogni parte del mondo – come sempre, teoria e prassi nel loro intreccio dialettico, strenuamente difeso nonostante le enormi difficoltà derivanti dal perdurare (e per certi versi aggravarsi) della controrivoluzione in salsa democratica e staliniana (o post-staliniana). Proprio queste difficoltà furono (e non poteva non essere così) alla base di un percorso tanto ostinato nel mantenere la barra dritta quanto travagliato. Il Partito, che negli anni ’60 e ’70 sviluppò una considerevole rete internazionale, dovette navigare fra Scilla e Cariddi, per usare un'immagine letteraria: cioè, fra la spinta, a volte anche generosa ma sempre foriera di disastri politico-organizzativi, ad abbreviare i tempi del ricongiungimento con una classe proletaria tuttora schiacciata sotto il peso di quella controrivoluzione (attivismo), e la tentazione di rinchiudersi nella pura analisi teorica, in attesa di una ripresa classista che, quasi istintivamente e soprattutto meccanicamente, avrebbe portato la classe a riconoscere il “suo” partito (accademismo). Fu (e sempre sarà, come la storia del partito bolscevico e l'opera di Marx, Engels, Lenin c'insegnano) una navigazione difficile e tormentata, e a essa si debbono le molte scissioni che si verificarono nei decenni successivi al 1952 e che diedero origine ad altre formazioni, più o meno richiamantisi alla Sinistra Comunista, ma dalle quali ci separano punti di principio e prassi di partito su cui non possiamo dilungarci in questa sede – fino alla crisi molto grave del 1981-83, che disperse sezioni e compagni in Italia e all’estero e da cui faticosamente il Partito è riuscito a emergere negli anni successivi, con un grosso lavoro di messa a punto di varie questioni. Quello che ci ha sempre caratterizzato è la volontà di procedere lungo la nostra strada, analizzando e chiarendo nodi politici ed eventuali errori di percorso, senza mai cadere nel pettegolismo personalistico o, peggio, nella pratica, del tutto estranea alla tradizione della Sinistra Comunista, dei processi individuali. Noi continuiamo dunque a svolgere il nostro lavoro “a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco”, nella serena convinzione che avremo il futuro che ci saremo saputi conquistare.

 

Partito storico e partito formale

"D'accordo", dirà a questo punto il nostro interlocutore un po' disorientato, "avete una storia lunga e gloriosa. Però siete pur sempre quattro gatti".

Certo, siamo pochi e la nostra influenza reale è oggi pressoché nulla. La cosa non ci stupisce e non ci spaventa. Un'obiezione del genere non prende in considerazione il fatto che, come s'è detto, lo stalinismo è stato la più feroce controrivoluzione sofferta dal movimento comunista internazionale. I suoi effetti sono stati devastanti, si sono fatti sentire per più di sessant'anni, si fanno sentire ancor oggi. In tutto questo periodo, grazie alla distruzione del partito comunista mondiale e al disarmo teorico-pratico a opera della controrivoluzione, la classe operaia dell'Occidente capitalistico sviluppato è stata aggiogata al carro della democrazia, definita per principio un mondo idilliaco in cui tutti i contrasti potevano finalmente essere superati e annullati. Ha partecipato a un altro massacro mondiale. Ha collaborato alla ricostruzione post-bellica, producendo una quantità impressionante di plusvalore (il boom degli anni '50) grazie alle cui briciole è stata convinta che questo è "il migliore dei mondi possibili". Ha abbandonato al proprio destino i popoli di colore che si ribellavano contro il giogo dell'imperialismo e cominciavano ad assaggiare le delizie della penetrazione capitalistica. E, tutte le volte che ha provato a imboccare una via di difesa dei propri interessi come classe, s'è sentita rispondere che... "il bene superiore dell'economia nazionale non lo permette", "c'è il rischio di fare il gioco della destra", ecc. ecc.

E' ovvio che, in condizioni come queste, che hanno caratterizzato l'ultimo mezzo secolo euro-americano, il comunismo rivoluzionario fatichi a diffondersi. Esiste una barriera materiale che vi si oppone: modi di pensare, abitudini, influenze ideologiche, tradizione, apatia, illusioni, il fatto stesso che, per un lungo periodo, posto di lavoro e salario appaiano come realtà garantite... Tutto ciò, per noi materialisti, è più che comprensibile. Non solo: i comunisti l'hanno già sperimentato. Dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1848, la Lega dei Comunisti contava pochi elementi sparsi in giro per l'Europa: ma questa "solitudine" fu la pre-condizione per la nascita della Prima Internazionale nel 1864. Dopo la Comune di Parigi del 1871, Marx ed Engels rimasero sostanzialmente soli a trarre le lezioni di quel tentativo rivoluzionario soffocato nel sangue: ma furono quelle "lezioni" tratte in solitudine a permettere la rinascita del movimento comunista su basi più solide di lì a pochi anni. Lo stesso accadde a Lenin e ai marxisti russi dopo la fallita rivoluzione del 1905 in Russia, premessa per l'affermarsi del bolscevismo, per la vittoria della rivoluzione del 1917 e per la nascita della Terza Internazionale. E lo stesso accadde dopo il 1926 alla Sinistra e al nostro partito, che di quell'esperienza è l'erede diretto.

Che, nel mezzo di queste ondate controrivoluzionarie (e l'ultima, s'è detto, è stata la più tremenda di tutte, arrivando a ribaltare l'ABC stesso del marxismo), il partito sia piccolo, si riduca a pochi elementi, resti ignorato ai più, è perfettamente comprensibile: è addirittura connaturato al divenire storico. Il partito non ribalta le situazioni sfavorevoli con la bacchetta magica, non suscita le rivoluzioni con un atto di volontà. É il processo rivoluzionario che matura nei decenni, di pari passo con l'accumularsi delle contraddizioni che il sistema capitalistico genera inevitabilmente. Il partito deve favorire questo processo, organizzarlo e indirizzarlo, guidarlo teoricamente e praticamente. Può sembrare un paradosso, ma la storia lo dimostra: è proprio nelle fasi controrivoluzionarie (quelle in cui la rivoluzione non è minimamente all'ordine del giorno) che la rivoluzione va maturando. E vi ci si prepara ricostruendo il partito, difendendo il suo patrimonio di teoria ed esperienza, riannodando il filo rosso che tutti vorrebbero spezzare, lottando per diffondere controcorrente il suo programma. Se non ci si prepara allora e in questo modo, la rivoluzione non verrà mai: perché, quando si ripresenteranno le condizioni materiali a essa favorevoli, mancherà appunto l'organo-guida, lo strumento necessario, il partito.

Questa è una prima considerazione vitale. Ma non basta. Esiste un partito storico ed esiste un partito formale, e anche questo è un concetto-chiave marxista. Il partito storico è l'insieme dell'elaborazione teorica, del programma, delle tesi, dell'esperienza storica del comunismo. Esso data ormai dal 1848, quando venne pubblicato il Manifesto del partito comunista, e comprende (in un tutto monolitico le cui parti si integrano organicamente le une alle altre) le opere di Marx, Engels e Lenin, le battaglie politiche della Prima, della Seconda, della Terza Internazionale, gli insegnamenti della Comune di Parigi del 1871, della Rivoluzione russa del 1905, della Rivoluzione dell'ottobre 1917, l'esperienza delle grandi lotte nell'Occidente capitalistico e nell'Oriente di colore tra 1917 e 1927, l'elaborazione teorico-politica prodotta dalla Sinistra Comunista sull'arco di più di mezzo secolo, le lezioni che essa ha saputo trarre dalle controrivoluzioni. E dunque un metodo di interpretazione dei fatti storico-sociali, una dottrina politica e un'esperienza di lotta: una teoria, un programma, una strategia, una tattica, che costituiscono i fondamenti del comunismo, cui generazioni diverse devono necessariamente far riferimento.

Ed esiste poi un partito formale. Vale a dire, la traduzione di quell'insieme - teoria, programma, strategia, tattica - in una struttura organizzata, in un organismo vivente, fatto di militanti in carne e ossa, operanti in situazioni specifiche e impegnati ad allargare il raggio d'influenza del comunismo. E questa struttura organizzata che, riannodando materialmente il filo rosso del comunismo, permette la fusione di generazioni diverse in un'unica prospettiva di lotta. Ma è anche essa che risente in maniera inevitabile degli alti e bassi della lotta di classe, dei momenti favorevoli come di quelli sfavorevoli, delle vittorie come delle sconfitte.

Non c'è, si badi bene, una frattura tra partito storico e partito formale. Non si tratta di due momenti separati e successivi. Il partito storico deve tendere a tradursi in partito formale, perché altrimenti il comunismo rimarrebbe lettera morta; il partito formale deve identificarsi con il partito storico, perché altrimenti sarebbe privo di teoria, programma, strategia e tattica comunisti che soli possono caratterizzarlo. Tutta la storia del movimento comunista internazionale è in fondo la storia del processo difficile e appassionante attraverso cui il partito storico diviene partito formale, la teoria diviene prassi, organizzazione vivente e combattente. In date fasi, il partito formale può ridursi anche a pochi elementi privi o quasi di reale influenza sulla scena storica. Ma è vitale che questi pochi elementi difendano con tutte le loro forze il partito storico, cerchino di farlo vivere nella realtà non importa quanto derisi o inascoltati dalla grande maggioranza, operino per allargare quanto più è possibile il proprio raggio d'influenza a livello internazionale. E questo il presupposto perché, al ripresentarsi di condizioni oggettive più favorevoli (e il ciclo dell'economia capitalista non può fare altro che crearle di continuo, per le contraddizioni interne che sono connaturate a essa), il comunismo possa trovare, allora sì, un seguito più numeroso.

Nel corso del secondo dopoguerra, il nostro Partito s'è trovato a lottare per difendere il partito storico, senza cessare mai di operare per far vivere nella società del capitale il partito formale: non importa quanto piccolo, non importa quanto isolato. Sappiamo che questa nostra lotta (che implica un ribaltamento totale del modo corrente di concepire i fenomeni della società) è stata fondamentale, perché, domani, i quattro gatti di oggi diventino otto, sedici, trentadue, eccetera. L'ha fatto nel periodo sicuramente più sfavorevole e difficile, ed è questo il motivo per cui la sua storia è stata anche così travagliata. Il periodo controrivoluzionario è privo dell'ossigeno della lotta di classe e dunque pesa come una cappa di piombo sullo stesso partito, alimentando di volta in volta illusioni o disillusioni. E così il piccolo partito deve guardarsi sia dalla tentazione disastrosa di ridursi a una piccola setta di accademici intenti a dibattere al proprio interno, sia dalla facile illusione che basti, in qualunque fase storica, moltiplicare per mille l'attività per ampliare l'influenza tra la classe operaia.

 

Perché la classe operaia

"Tutto questo parlare della classe operaia! Ma la classe operaia non esiste più... con la rivoluzione telematica è scomparsa! Possibile che non ve ne rendiate conto?"

Preghiamo il nostro interlocutore di studiare meglio la realtà prima di aprir bocca, per evitare di trasformarsi in uno di quei pappagalli che ripetono a memoria le quattro frasette dell'ultimo "esperto", lette sull'ultimo numero del giornale.

Quest'autentica bufala della "scomparsa della classe operaia" (o della sua "integrazione") non è un'invenzione di oggi. La sostenevano già negli anni '40 certi sociologi americani, l'hanno ripresa "pensatori" alla moda negli anni '60 come Marcuse & Co., è stata pane quotidiano (ma raffermo!) di certe impostazioni "ultra-sinistre " degli anni '70. E in fondo è alla base stessa dell'ideologia borghese, che fin dagli inizi ha sostenuto di aver eliminato le divisioni di classe, considerate come tipiche ed esclusive del feudalesimo. Non è dunque una sorpresa ritrovarcela tra i piedi anche oggi. Vediamo un po' meglio come stanno le cose.

Se diciamo che quella della "scomparsa della classe operaia" è una bufala, lo facciamo sia in base alla teoria sia in base a considerazioni attuali. Teoria (in maniera molto sintetica, ovviamente): al cuore del meccanismo economico capitalistico c'è la produzioneper il profitto - senza profitto, l'economia capitalistica s'accartoccerebbe su se stessa (e infatti, con la scoperta della caduta tendenziale del saggio di profitto, Marx ha colto il tallone d'Achille del capitalismo: quello che, inevitabilmente, ne detta la morte).

Ora, questo profitto si crea attraverso l'estrazione di plusvalore dal lavoro vivo: vale a dire, facendo lavorare l'operaio per un certo numero di ore, ma pagandogliene solo una parte (di nuovo: le questioni sono molto complesse, e l'interlocutore deciso a capire può approfondirle su testi come Lavoro salariato e capitale o Salario, prezzo e profitto, oltre che, naturalmente, sul Capitale). Ciò vuol dire che il capitale non potrà mai rinunciare al lavoro umano, appunto perché il plusvalore non può estrarsi da una macchina. Proprio qui sta l'altra grande contraddizione del capitale: esso deve introdurre macchine al fine di aumentare la produzione, ma non può introdurle oltre un certo limite perché altrimenti si ridurrebbe in maniera drastica la fonte del profitto.

Quindi, la tendenza al macchinismo è costante nella storia del capitale (vedi appunto il Capitale, Libro I, Sezione IV, Cap. XIII), ma non modifica (non può sostituire) il meccanismo centrale del suo funzionamento: l'estrazione di plusvalore dal lavoro vivo, lo sfruttamento di una classe operaia che resta comunque necessaria al capitale. E questo vale sia per la classe operaia "tradizionale" (le "tute blu", per intenderci) sia per quegli strati più recenti di tecnici (le "tute bianche"), che sono anch'essi produttori di plusvalore attraverso lavoro non pagato. Che dunque un individuo lavori tra i bagliori rossastri e gli schianti infernali di una fonderia o nel candore asettico di un laboratorio di produzione di chips e fibre ottiche, non cambia nulla al suo rapporto con il capitale. E, da parte sua, il capitale non potrà mai eliminare la classe operaia, perché a essa è legato come l'impiccato alla corda.

Questo per quanto riguarda la teoria. Se poi passiamo alle considerazioni attuali non abbiamo altro che conferme. Basta infatti volgere uno sguardo intorno per rendersi conto dell'impressionante aumento, in tutto il mondo, della classe operaia. Si parla tanto di "globalizzazione del mercato": e che cos'è, questa "globalizzazione", se non la penetrazione e affermazione del sistema capitalistico in ogni angolo del pianeta, e di conseguenza la nascita e crescita di una classe operaia, ultrasfruttata e ultradiseredata, in Asia, Africa, America Latina? Continuano a giungere notizie di tragici incendi di fabbriche in Cina, a Taiwan, a Hongkong, di scioperi repressi nel sangue in Corea, Zaire, Sud Africa: che cos'è questo se non la prova drammatica che la classe operaia, ben lungi dallo scomparire, è invece nata e s'è moltiplicata, anche in aree fino a pochi decenni fa non toccate dall'irresistibile avanzata delle merci e del capitale? E che cosa sono gli enormi flussi migratori, che tanti grattacapi danno ai bravi borghesi e piccolo-borghesi, se non la dimostrazione a livello mondiale del gonfiarsi d'una popolazione di proletari puri, cioè di braccia che possono contare solo sul lavoro futuro dei figli, della prole, per sperare di sopravvivere alla meno peggio (e si potrebbe qui aprire una parentesi a proposito della sovrappopolazione, altro incubo per i bravi borghesi e piccoloborghesi, altra dimostrazione per noi della contraddizione insuperabile d'un capitalismo che deve far nascere a ritmo sostenuto una forza-lavoro destinata, storicamente, a sconfiggerlo).

Ancora: che cos'è il dramma della disoccupazione, non solo stagnante ma crescente, se non la prova, in negativo, dell'esistenza, ben reale, ben concreta, della classe operaia nelle stesse metropoli di vecchio capitalismo, come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, l'Italia, il Giappone - là dove, cioè, l'ideologia borghese strombazza ai quattro venti (e i gonzi si bevono a occhi chiusi) la lieta novella della "scomparsa della classe operaia"?

In realtà, negli ultimi cinquant'anni, abbiamo assistito, da un lato, a una crescita complessiva impressionante di una classe di senza riserve assoluti, di autentici proletari, e, dall'altro, a un processo acuto di proletarizzazione, specie nelle cittadelle capitalistiche avanzate (i ghetti, le banlieus, le bidonville). Invece di assottigliarsi, le file di questa classe operaia mondiale non hanno fatto dunque altro che ingrossarsi.

"Però non potete negare che è in corso un processo di deindustrializzazione! " Certo, ma attenzione: la deindustrializzazione di alcune aree (si badi bene: alcune!) non ha niente a che vedere con le teorie balzane del post-industriale o del post-capitalismo. Si tratta d'un fenomeno che può solo essere analizzato nella sua dinamica: vale a dire, comprendendo che si tratta molto semplicemente della necessità da parte del capitale di andarsi a cercare le condizioni di migliore sfruttamento della manodopera e dunque di più vantaggiosa estrazione di plusvalore. Insomma: se le fabbriche scompaiono da Detroit, è solo perché ricompaiono nelle zone di frontiera con il Messico; se la "grande fabbrica" viene smantellata, è solo perché decine di fabbriche più piccole nascono nelle aree periferiche... Di fronte alla crisi economica, il capitale si ristruttura in modo a) da evitare situazioni di grande conflittualità dovute alla concentrazione di manodopera combattiva, b) da avere a disposizione una manodopera più giovane, più inesperta, più affamata, più ricattabile. Ma si tratta pur sempre d'un fenomeno ciclico: la dispersione si trasformerà in seguito in concentrazione, perché il capitale è "geneticamente" orientato verso di essa.

Ora, non c'è dubbio (e così dicendo anticipiamo subito l'obiezione del nostro interlocutore) che, a fronte di questa diffusione macroscopica del proletariato mondiale, manca in esso la consapevolezza d'essere una classe, di avere interessi - sia immediati che storici - comuni. Ma attenzione! il fatto che il marxismo indichi nel proletariato la classe rivoluzionaria destinata a seppellire il capitalismo e ad aprire le porte alla società senza classi non significa che il proletariato. sia automaticamente, sempre e comunque, rivoluzionario. Questa è un'altra bufala che lasciamo volentieri agli stalinisti e agli operaisti, demagoghi entrambi.

Il carattere di "classe rivoluzionaria" del proletariato gli è conferito dalla collocazione all'interno del processo produttivo. Esso è al cuore del meccanismo di estrazione di plusvalore e dietro di sé non ha altre classi da sfruttare. Ribellandosi, mette in discussione l'impalcatura stessa della società del capitale. Liberando se stesso, libera l'umanità intera. In tutte le rivoluzioni precedenti che hanno segnato il passaggio da un modo di produzione all'altro (quella antischiavista, quella antifeudale), la classe protagonista della rivoluzione aveva dietro di sé altre classi - destinate, una volta attuati la rottura rivoluzionaria e il passaggio al nuovo modo di produzione, a divenire le "classi oppresse", le "classi sfruttate". Con la borghesia e il proletariato, siamo giunti alla fine del lungo arco di tempo contrassegnato dalla divisione della società in classi: il proletariato, attuale classe sfruttata, non ha dietro di sé nessun'altra classe su cui poter esercitare (in futuro, una volta vittorioso) il proprio sfruttamento. La società nuova che dovrà nascere (che è già matura per nascere e il cui ritardo nella nascita produce un travaglio che tanto somiglia a un'agonia) non conoscerà divisioni di classe e dunque non conoscerà classi sfruttate.

Certo, esiste un problema soggettivo. Nella stragrande maggioranza, la classe operaia odierna (sia quella relativamente garantita delle grandi metropoli capitalistiche, sia quella drammaticamente sfruttata dei giovani paesi capitalistici) non si percepisce come classe, non si muove in direzione di quelli che sono i suoi compiti storici. Anzi, si può dire che, per lo più, non si muove affatto: subisce lo sfruttamento senza ribellarsi. Ma questo non ci sconcerta. É un problema politico che ha precisamente a che fare con la democrazia e con lo stalinismo - vale a dire, con gli effetti della più grave controrivoluzione della storia del movimento operaio e comunista. E un problema politico che ha a che fare con la distruzione a livello mondiale del partito rivoluzionario: cioè, di quel fattore di coscienza e volontà, di teoria e azione, che fin dagli inizi il marxismo ha indicato come condizione irrinunciabile per lo sviluppo del processo rivoluzionario e che tutte le classi rivoluzionarie del passato hanno necessariamente avuto come guida.

Senza il suo partito rivoluzionario (e ciò vuol dire: senza il suo programma politico rivoluzionario, senza la sua "coscienza di sé come classe"), la classe non è nulla: solo un insieme statistico di individui incapaci, nella grande maggioranza, di sollevarsi all'altezza della propria missione storica. Ed è proprio la situazione storica attuale a dimostrarcelo in maniera drammatica.

E per questo che la strada che porta al comunismo passa necessariamente attraverso la ricostruzione del partito rivoluzionario.

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