II

VERSO IL CONGRESSO DI BOLOGNA

  

Avvenimenti internazionali e nazionali ammonitori gettavano la loro ombra sui mesi di agosto e settembre 1919 che precedettero l'apertura del XIV congresso del Partito socialista italiano a Bologna.

In Russia, il potere sovietico e l'armata rossa affrontavano da soli, in uno dei periodi più critici della guerra civile, l'intero spettro degli avversari di classe della dittatura comunista: non tanto gli squallidi relitti dello zarismo, ormai sommersi con la base sociale dell’ancien régime, quanto le molteplici forze centrifughe, armate e foraggiate dalla demo­crazia mondiale, germoglianti dai rapporti economici che lo stato prole­tario controllava bensì, ma non poteva, se non nel corso di un processo non nazionale, rivoluzionare ab imis; e, nella gigantesca contesa, sapevano e proclamavano di difendere, di là da sé stessi, le sorti della rivoluzione proletaria in tutto il mondo. L'1 agosto era caduta la repubblica unghe­rese dei Consigli, vittima assai più che del piratesco accerchiamento di forze militari al servizio dell’Intesa, dell’impossibilità per un governo di coalizione comunista e «socialista» di vivere ed operare: la «lotta fratricida» era stata «evitata», come voleva il ricatto socialdemocratico a Bela Kun, solo per cedere il passo al terrore bianco di Horty. Lo scio­pero internazionale del 21-22 luglio in solidarietà con le repubbliche sovietiche assediate era fallito per il sabotaggio della CGT francese e delle Trade Unions britanniche. Così il riformismo coronava l'opera iniziata nel 1914, e sanguinosamente proseguita a guerra conclusa nell’in­verno e nella primavera tedeschi.

Lo stesso mese di luglio aveva visto la direzione massimalista del PSI abbandonare i moti contro il carovita alla mercé non tanto delle forze repressive dello stato, quanto del sabotaggio politico dei bonzi sindacali (l'esperienza sarà preziosa un anno dopo, durante l'occupazione delle fabbriche, per un altro governo democratico), e così mettere a nudo la propria rassegnazione passiva, la propria vocazione capitolarda di fronte al riformismo. La classe operaia, premuta dall’incalzare dell’infla­zione e dalla paralisi dell’apparato produttivo, si era rimessa subito in moto: dal 7 agosto al 27 settembre, localmente ancora in ottobre, incrociarono le braccia i metallurgici, sospesero il lavoro i marittimi della «redenta» Trieste, i tessili del Comasco, i lavoratori agricoli del Novarese, i tipografi del Lazio e del Parmense; nel Sud, i contadini occupavano le terre degli odiati «baroni». Ma al governo era salito Nitti, ed è vero che il cambiamento di scena non aveva posto minima­mente fine allo stillicidio delle repressioni a mano armata delle vampate di collera proletarie (gli eccidi, tutti ad opera dei carabinieri, hanno inizio il 10 agosto a Galliate con un morto, a Lainate l'11 settembre con tre: mostreranno un pauroso crescendo nei mesi successivi), ed anzi il nuovo ministero si preparava a rafforzare con la guardia regia lo storico apparato di forze dell’ordine espresso nel trinomio polizia-carabinieri-esercito; è vero che sopprimeva la censura solo per ristabilirla due mesi dopo, e si dava l'aria di riprovare D'Annunzio con le sue legioni di «arditi», anticipatore a Fiume della mobilitazione squadrista della piccola borghesia delusa della pace dopo le ebbrezze intossicanti della guerra, solo per lasciargli cavare dal fuoco le castagne a contatto delle quali l'Italietta ufficiale si bruciava le dita (1). Ma l'uomo che conten­deva a Giolitti la rappresentanza della democrazia italica aveva nella manica l'asso delle elezioni col sistema proporzionale da poco votato, e sapeva che, di fronte ad esso, non solo l'ultrariformista gruppo parla­mentare del PSI ma anche la sua dirigenza politica «intransigente» si sarebbero tre volte inchinati, il primo per vocazione naturale, la seconda per assicurarsi un alibi alla precipitosa rinuncia financo alla fraseologia rivoluzionaria, e un rinnovato pretesto al salvataggio dell’unità della «vecchia casa ospitale»; l'unica in cui si sentisse a suo agio. L'esito del congresso era quindi assicurato in partenza: i grossi eventi ammonitori nel mondo e nella stessa Italia avrebbero perduto il loro pungiglione nella vibrante atmosfera della corsa degli elettori alle urne, e dei can­didati al luccichio della medaglietta...

 

1. - DESTRI, MASSIMALISTI E ORDINOVISTI

 

Quali erano le posizioni e i punti di dissenso in seno al partito? La destra, coerente alle sue posizioni da noi ampiamente illustrate nel I volume, pur menando vanto di essere rimasta fuori dalla collabo­razione nazionale di guerra (malgrado le numerose pecche e i gravissimi tentennamenti), mentre escludeva per principio che in Italia dovesse e potesse scoppiare un'azione insurrezionale con cui il proletariato socialista, sacrificato nella sanguinosa guerra, avrebbe contrattaccato in armi la bor­ghesia dominante, si poneva nella prospettiva di una rivincita puramente legalitaria, calcolando che il partito avrebbe sfruttato la popolarità deri­vatagli dalla sua posizione anti-bellica riportando una strepitosa vittoria elettorale e acquistando serie possibilità di influire sugli indirizzi di governo.

Troppo abile (e sensibile agli umori del momento) per scoprire tutte le sue carte, essa aveva cura di differenziarsi dal classico riformismo alla francese, alla tedesca o all’inglese, nella chiara coscienza che il grosso del «massimalismo» non avrebbe, malgrado solenni dichiarazioni verbali, osato rompere l'«unità» uscita illesa dai frequenti trascorsi del gruppo parlamentare, della CGL o di singoli esponenti dell’uno e dell’altra in guerra e in «pace», e preziosa nel futuro torneo schedaiolo. Nella mozione Schiavi apparsa sull’«Avanti!» del 1° settembre (2), per esempio, è si rivendicato con fermezza il programma di Genova 1892 e ribadito che si tratta di «convertire per quanto è possibile in strumento di conquista del diritto [?] proletario le istituzioni stesse che la borghesia ha creato a difesa del proprio privilegio»; ma si afferma pure la necessità di «creare o sviluppare quegli organismi nuovi che dovranno costituire il tessuto connettivo della futura società senza classi» [un pizzico di... soviet, dunque, accanto ai «pubblici poteri» borghesi] «in aggiunta ai quali altri mezzi di più rapida efficacia si rendono necessari nei momenti in cui è maturata una più profonda dissoluzione o trasformazione dell’ordinamento capitalistico o di qualcuna delle istituzioni che lo compon­gono», non escludendo nemmeno che, nel processo di sviluppo delle lotte sociali e dell’attività riformatrice del partito, «possa, in un determinato momento, come una fase della lotta stessa, per vincere la resistenza o respingere la violenza della borghesia, o per mantenere ed estendere una conquista del proletariato, essere concepibile [!!], per un periodo affatto transitorio, la dittatura della classe lavoratrice» (3).

A sua volta, Claudio Treves, designato come relatore della destra a Bologna, nell’articolo apparso il 27 settembre sull’«Avanti!» col ti­tolo Tra il vecchio e il nuovo programma e presentato come elaborazione personale redatta ad insaputa dei compagni di corrente, non esitava a levare un inno alla rivoluzione russa (vista peraltro nella sola faccia antifeudale-antizarista) e a deplorare la prova di mancanza di solidarietà offerta con lo sciopero fallito del 21-22 luglio, solo per trarne argomento a sfavore delle chances di rivoluzione... in Italia e pretesto per addi­tare il nemico negli stati artefici della pace di Versailles (bersaglio di «ricambio», per l'agile e irrequieta mente dell’alter ego di Turati, verso cui dirigere la collera degli operai, un po' come per i socialco­munisti di oggi è un bersaglio l'America) e rivendicava bensì il pro­gramma di Genova, ma perché, diceva, «è manifestamente il più lar­go, il meno dommatico […] non dà l'ostracismo a nessuna idea e azio­ne socialista [neppure a quella della Sinistra, dunque!] utilizzando al­ternativamente e simultaneamente tutti i metodi e tutti i temperamen­ti [...] e mentre non rinunzia a priori a nessuna congiuntura favore­vole per disboscare, anche con la violenza, nella fitta selva del privi­legio monarchico [!] e capitalistico, non compromette con la sua azio­ne dell’oggi alcuna maggiore conquista del dimani, anche massimali­sta». In effetti, era il solo Turati a dir pane al pane e vino al vino; ma, come egli si era acquisito di fronte al partito una posizione di distac­co che la direzione Lazzari prima e quella Bombacci o Gennari poi non si sognavano di mettere in causa, anche se ne deploravano le ma­nifestazioni più clamorose, così la sua corrente era libera di non le­garsi ufficialmente le mani con un riformismo esplicito e giungere addi­rittura a Bologna senza una piattaforma unitaria, a giusta ragione cal­colando sulla prontezza dei massimalisti a riconoscerle diritto di piena cittadinanza in un partito aperto a «tutti i metodi e tutti i tempe­ramenti».

Già sappiamo d'altra parte che la tradizionale Frazione rivoluzio­naria intransigente, la quale aveva in mano la direzione del partito e l'«Avanti!», e che d'ora innanzi si identifica con quello che si chia­mò il «massimalismo», non aveva chiare prospettive del periodo post­bellico. A parole, essa continuava a sostenere che non si sarebbe mai potuta vincere la battaglia di emancipazione del proletariato attraverso la conquista di maggioranze parlamentari, poiché ciò avrebbe significato far blocco con partiti piccolo-borghesi che, fra l'altro, in quel torno di tempo, si potevano raccogliere soltanto tra le file di ex fautori della guerra (repubblicani, socialistì-riformisti di estrema destra, radicali ecc.) a meno di spingersi fino ad accettare non solo la collaborazione par­lamentare ma l'estensione di questo metodo revisionista ai giolittiani e al nascente Partito popolare italiano, padre della Democrazia cristiana: a parole ammirava la rivoluzione russa, parlava di dittatura proletaria e di Internazionale comunista, e non di rado, per bocca di alcuni espo­nenti, cianciava di azioni di piazza e... bombe a mano. Ma del proces­so storico della rivoluzione aveva capito ben poco, dell’Internazionale aveva un'idea molto confusa e, come ben presto si chiarirà, antitetica a quella dei suoi fondatori; non si chiedeva come si potesse preparare lo sbocco rivoluzionario (e le forze atte a produrlo) procedendo sul vec­chio binario legalitario, parlamentare, elettoralesco, e mantenendo intat­ta l’«unità» del partito col doppio peso morto del gruppo parlamen­tare e della CGL a paralizzarlo; era infine tetragona ad ogni sforzo di approfondimento teorico dei gravi problemi strategici e tattici posti dall’apertura del ciclo guerra o rivoluzione, dittatura borghese o dittatura proletaria, col facile pretesto di preferire l'albero verde dell’«azione» (dalla quale, dopo le sparate da comizio, sistematicamente rifuggiva) al grigio albero del «pensiero» (di cui era impotente perfino ad assaggia­re i frutti) e col risultato immancabile di cadere in confusioni e stortu­re degne del patrimonio ideologico anarchico o anarco-sindacalista come quella dello «sciopero espropriatore», prestando così il fianco ai dileg­gi della sempre vigile destra turatiana.

La Frazione, che si disse anche «comunista elezionista», aveva pub­blicato sull’«Avanti!» del 17 agosto un Programma, che nella parte di principio riprendeva quasi alla lettera le formulazioni date dagli asten­sionisti alle questioni centrali del cambiamento di programma nel senso del riconoscimento della conquista rivoluzionaria del potere, della ditta­tura e del terrore rosso come unica possibile via di trapasso al sociali­smo, e che nella parte pratica dichiarava indispensabile l'esclusione dal partito di «chiunque pensi potersi evitare il cozzo supremo [...] e speri in accomodamenti e placidi tramonti» (formula del resto troppo vaga per comprendere coloro che proclamavano del tutto «concepibile», sia pure... nei debiti modi, il «cozzo supremo», ed estranea ai loro propo­siti l'attesa di «placidi tramonti») così come non esitava a propugnare l'uso della tribuna elettorale e parlamentare a soli scopi eversivi. Ma, a parte la dubbia serietà di tali convinzioni (4) - al congresso di Bolo­gna l'esclusione dei riformisti verrà livragata e in parlamento i massima­listi svolgeranno un'azione del tutto conforme all’etichetta -, essa smen­tiva perfino la tradizionale ipoteca «intransigente» là dove, non senza aver prima adombrato con somma leggerezza la possibilità che la lotta rivoluzionaria si iniziasse «prima di quella elettorale», rimproverava alla sinistra di precludersi col suo astensionismo la chance di attraver­sare la strada alla «andata al potere di borghesi mascherati da socialde­mocratici, che eventualmente istituirebbero domani in Italia un governo alla Scheidemann e alla Noske» - dove il parlamento diventava non più «tribuna di agitazione contro il parlamentarismo e le stesse istitu­zioni parlamentari», ma mezzo per arrestare la controrivoluzione e quin­di, logica voleva, istituto da difendere dopo di averlo conquistato - nulla escludeva dunque che si potesse «transigere» col governo in ca­rica per evitare che ne sorgesse uno «peggiore». Quanto poi alla «scissura» coi destri, e perfino al cambiamento di nome del partito, Ser­rati non tarderà a chiarire, proprio alla vigilia di Bologna (articolo Il nostro massimalismo del 5 ottobre, che non se ne sarebbe fatto né dovuto fare nulla: l'«albero verde» della vita poteva ridersi dei rami secchi di un «programma» vergato al sole di ferragosto.

Oggi si può ironizzare sull’inconcludenza del massimalismo, ma al­lora - e lo riconosceranno (sebbene tardivamente, non certo per colpa loro) i bolscevichi (5) - il suo verbalismo barricadiero, la tradizione delle «mani pulite» di fronte alla guerra, la prontezza dell’adesione alla III Internazionale, l'autodefinizione di comunista (Serrati comincerà a pubblicare il «Comunismo, Rivista della III Internazionale», l'1 ot­tobre), creavano un ostacolo quasi insormontabile alla chiarificazione teorica e all’orientamento politico delle sane forze proletarie in Italia, mentre il suo fondo inguaribilmente conciliatore permetteva il salvatag­gio dei più incalliti socialdemocratici, e la nebulosità delle sue dichiara­zioni programmatiche e dei suoi atteggiamenti pratici spianava la via al confluire nello stesso grembo di tendenze diverse ed anche opposte non solo a Bologna ma fino a Livorno ed oltre.

È noto che il gradualismo cacciato verbalmente dalla porta può rientrare dalla finestra, fra le altre vie, per quella dell’ «educazioni­smo», la teoria cioè che l'emancipazione del proletariato, ammessa pure la necessità o, per altri, la possibilità di una soluzione rivoluzionaria, presupponga non la preparazione politica ed anche materiale dell’organo partito, ma la preparazione culturale, tecnica e, perché no?, morale, ge­nericamente o meglio scolasticamente intesa, delle masse, (che, si sa, sono rozze, incolte e di moralità spiccia!) e la creazione preventiva di istitu­zioni adeguate allo scopo - o l'utilizzo di istituzioni esistenti. Fa­ceva proprio allora la sua conversione al «massimalismo» colui che da tempo passava per il maggior teorico del gradualismo, Antonio Graziadei, con l'argomento che in date situazioni la «gradualità» si condensa in un periodo tanto breve da confondersi col salto rivoluzionario («il gradualismo è nella forza delle cose, ma può essere straordinariamente abbreviato in un dato periodo, aumentando la "forza relativa" del pro­letariato»). Orbene, egli postillava la propria accettazione dell’uso della forza nelle suddette fasi storiche col motto: «Mirando alle trasforma­zioni più difficili, quelle economiche, la conquista del potere politico non può essere tentata dai socialisti, e in ogni caso non può essere duratu­ra, se [campa cavallo] l'educazione, la capacità tecnica e l'organizzazione di una parte sufficiente del proletariato non abbia raggiunto un certo grado» (6). Analogamente, al massimalismo portava la sua adesione il gruppo dell’«Ordine Nuovo», per bocca di Angelo Tasca, con gli ar­gomenti di tipo culturistico-educazionistico vecchi del 1912 (7) nella cui cornice ben si inquadrava adesso la prospettiva di una «trasforma­zione della società capitalistica in società socialista» da iniziarsi «anche sotto il regime borghese, preparando fin d’ora gli organi capaci di assumere la gestione sociale o di preparare tale assunzione» («Ordine Nuovo » 30 agosto).

Del resto, l'atteggiamento degli ordinovisti alla vigilia del congres­so di Bologna conferma una non recente diagnosi nostra: da un lato il loro carattere centrista sul piano tattico, e antimarxista nei fondamenti teorici; dall’altro la menzogna patente degli «eruditi» chiosatori di oggi secondo i quali la Sinistra non sarebbe stata la sola a sostenere il pro­gramma comunista rivoluzionario, e avrebbe errato a Bologna, come poi ad Imola, nel non raccogliere su una piattaforma comune, senza erigere troppo rigidi steccati intorno al corpo di tesi suo e a quello dell’Interna­zionale, non si sa bene quali fantomatici comunisti elezionisti. In realtà, il dissenso nostro con l'«Ordine Nuovo» proprio nei confronti degli eventi di Bologna risultò completo sia rispetto ai criteri dell’Internazio­nale poiché esso non voleva scindersi né dagli opportunisti dichia­rati (i nostri Bernstein, cioè Turati e C.), né da coloro che tale scissio­ne rifiutavano (i nostri Kautsky, cioè Serrati e C.) - sia e ancor più agli effetti di una impostazione globale del programma e quindi dell’azio­ne comunista.

È lo stesso Gramsci (e lo diciamo per rispondere anticipatamente a chi ci accusasse di tirare in ballo il solito Tasca), in un editoriale sul numero 20 del 4 ottobre, a porre come esigenza fondamentale quella di «dare al massimalismo un contenuto concreto, un carattere realizza­tore», spiegando come ciò si ottenga «soltanto col lavoro diretto a dar vita alle istituzioni rivoluzionarie; scuola, oggi, di capacità; organo, do­mani, di conquista». Il gradualismo educazionista e, potremmo dire, visceralmente antipartitico, che sta alla base della dottrina ordinovista, è qui ribadito in una formula sintetica quanto suggestiva proprio per i massimalisti deliranti «concrete conquiste» di «posizioni di vantaggio» nel contesto economico-produttivo e nella gestione della società, onde «abilitare» il proletariato a sostituire la classe dirigente.

Le conseguenze di una tale impostazione si avvertono subito dopo nel cosiddetto programma di lavoro riportato nello stesso numero dell’«Ordine Nuovo». Qui non solo si dà per scontata la vittoria massi­malista al congresso, e dai massimalisti ci si attende in sostanza una intensificazione delle forme di lotta (!) già adottate dal partito e l'isti­tuzione di forme nuove (ovviamente consiliari) ma si propone addirit­tura di «raccogliere le cooperative in consorzi socialisti facendone vera­mente centro sperimentale dei problemi degli approvvigionamenti dello stato socialista, mettendosi in contatto coi consorzi di produttori, i quali serviranno a rendere possibile l'iniziazione dei piccoli proprietari al regime collettivistico». La vecchia polemica, d'altronde puramente «me­ridionalistica», condotta dall’ «Ordine Nuovo» contro le evangeliche realizzazioni prampoliniane, è così abbandonata per una prospettiva di integrale recupero dell’idra piccolo-borghese (Lenin) dei piccoli produt­tori, e addirittura per quella «unificazione delle città e della campagna» che l'infantilismo ordinovista vede non come conquista del socialismo superiore (comunismo), ma come «condizione indispensabile per la con­sistenza della rivoluzione socialista», mentre, per il Lenin dell’ Estre­mismo e dell’Imposta in natura, la condizione delle stesse basi economi­che del socialismo sta proprio nell’eliminazione della produzione parcel­lare, e tale eliminazione non può non assumere aspetti terroristici.

Questa tipica stortura della «prefigurazione», entro il contesto ca­pitalistico, dell’assetto socialista, che si riconduce ai canoni invarianti dell’immediatismo, trova riscontro nel piano di conquista «in nome della classe lavoratrice» dei... grandi comuni, perché «gli uffici municipali di talune città sono una specie di dicasteri» entro comuni che «hanno as­sunto vere e proprie funzioni di governo» - dove il problema dello stato da abbattere e sostituire con la centralizzata dittatura proletaria viene non solo misconosciuto, ma capovolto in una visione localistica di sapore anarchico o anarco-sindacalista.

E non basta. Nel trattare delle commissioni interne che devono «aderire» all’azienda, e dei sindacati che devono diventare scuole non di comunismo ma di gestione e produzione industriale, si affaccia la prospettiva di un socialismo teso ad infondere nel proletario l'astratto amore per il lavoro e «quel senso di dignità che noi consideriamo un elemento essenziale della sua personalità e anche della sua capacità a produrre»: parole che da un lato anticipano formule staliniano-stacha­novistiche, dall’altro riconfermano l'interesse del tutto borghese per il proletario non in quanto «senza riserve» ma in quanto produttore, e l'assenza di qualsiasi critica al dogma della produzione per la produzione tipico del capitalismo e a giusta ragione elevato da Stalin a legge dell’accumulazione accelerata del capitale nel mentito socialismo sovietico.

Inutile dire che, in una concezione dalla quale il partito è assente, «i consigli operai e contadini sono gli elementi più caratteristici e più originali del movimento comunista», cosicché bisogna «creare in ogni provincia senz'altro i Consigli Economici», mentre «un Consiglio Ge­nerale dovrebbe regolare lo sfruttamento delle risorse naturali in rap­porto agli scambi tra le varie regioni e alle necessità degli scambi in­ternazionali». Così ogni piano centrale è gettato al macero a favore di un policentrismo mercantile che si annoda ai due capi del filo intercor­rente fra Proudhon da un lato e gli Ota Sik o i Liberman, scomunicati o canonizzati, dall’altro (8). In conclusione, la direzione del partito, se­condo l’«Ordine Nuovo» dovrebbe trasformarsi in organo tecnico «col compito principale di coordinare praticamente l'opera dei vari enti so­cialisti» - concezione che lo stesso Treves o il suo omologo Schiavi potrebbero senza esitazione sottoscrivere.

Su questo piano, in realtà, nulla vietava che un ponte fosse gettato non solo ai serratiani - soliti a mettere in guardia contro «l'imprepa­razione» di proletari chiamati, orrore!, a dirigere un comune come quel­lo di Milano -, ma anche ai destri, a nome dei quali Schiavi rendeva omaggio ai rivoluzionari russi nientemeno che per aver creato di lunga mano, assai prima della rivoluzione, «nella società russa, le impalcature della nuova società, quella politica dei Consigli degli operai, quella eco­nomica delle cooperative di consumo [!], coltivatrici nelle campagne dello spirito di organizzazione ed elevatrici del livello intellettuale e tec­nico dei lavoratori in decenni di difficilissima opera prudente», mentre Treves concludeva il suo articolo programmatico definendo la rivoluzio­ne - dato che venisse... - un «problema di propaganda, organizza­zione e educazione nazionale e internazionale».  E poiché questa «edu­cazione» non si può acquisite che entro gli istituti esistenti, in attesa o a lato di quelli da creare ex novo, è logico che per tutti l'astensioni­smo fosse la bestia nera («la sconfitta della frazione di Bordiga», scri­veva Graziadei, «sarà l'atto più positivo del congresso», perché «un partito politico specialmente in un paese poco colto [e dagli!] co­me il nostro - vive assai più di risoluzioni contingenti, che di problemi dottrinali»; frase che tutti i massimalisti ripeteranno a Bologna); al­trettanto logico che la Sinistra facesse dell’astensionismo un reagente con cui mettere con le spalle al muro l'enorme varietà di contingentisti, gra­dualisti, educazionisti, e insomma riformisti, celati sotto una leggera vernice «sovversiva» e pronti a convivere sotto lo stesso tetto con i riformisti tout court.

Ma la Sinistra, in quei mesi, bersagliò la maggioranza «comunista elezionista» - oltre che col già noto suo Programma - con «rea­genti» ben più complessi che il puro astensionismo; e bisogna ricordarlo anche per rispondere alle critiche e alle deformazioni di cui essa allora venne fatta oggetto, e che ancor oggi riaffiorano, tediosamente rimasti­cate, in bocca a storici, sottostorici, giornalisti ed altri «uomini di cultura».

 

(1) È noto, come risulta da documenti pubblicati a distanza di tempo, che Nitti «lasciò fare» - sotto banco - mentre urlava in pubblico contro D'Annunzio: «la spedizione di Ronchi» gli serviva di pedina nelle trattative con gli Alleati!

(2) Poi ritirata durante il congresso di Bologna: essa recava la firma anche di Turati.

 (3) Le «vie nazionali al socialismo» sono così poco «nuove» che lo stesso Schiavi scriverà sull’«Avanti!» dell’8.IX, spiegando come e perché non fosse più «un riformista», che «ogni paese fa la rivoluzione e la politica [...l secondo le peculiari sue energie, secondo i temperamenti e le condizioni di ambiente»: in Italia, la si poteva fare attivizzando l'opera di prudente costruzione delle «impalcature della nuova società», insomma con riforme di struttura edizione 1919-1920!

 (4) Nella chiusa, è vero, la mozione parla della necessità di «separarsi da coloro che illudono il proletariato proclamando la possibilità delle sue conquiste nell’am­bito borghese e propugnando la combinazione e la collaborazione degli strumenti di dominio borghesi coi nuovi organi proletari»; ma passarono pochi giorni e lo stesso Serrati si affrettò a disilludere chiunque avesse interpretato questa frase nel senso di un'auspicata rottura con la destra: chi così pensava, era caduto in un... equivoco!

(5) Cfr. in particolare Terrorismo e comunismo di Trotsky.

(6) «Avanti!» del 10 settembre. Quanto alla dittatura, essa non deve essere «dittatura di un partito, ma della grande massa dei lavoratori», formula da ricordare perché sarà, nella sua vuotaggine, il cavallo di battaglia del kautskismo, e a Bologna Gennari la ripeterà nella accezione ancor più lata di «dittatura di tutti i lavoratori». Sia detto tra parentesi, in Graziadei (come in Kautsky), ritorna di continuo il richiamo all’«immaturità del proletariato»; al solito, la rivoluzione ha bisogno dei suoi... professori e uomini di cultura!

(7) Si veda per la polemica Tasca-Bordiga in quell’anno, il primo volume di questa Storia.

(8) I commentatori alla Lepre-Levrero segnalano con orgoglio un articolo di Togliatti del 19 luglio in cui si afferma che «la necessità della trasformazione è ormai nelle cose stesse» e avverrà non appena ci si convinca che «i l luogo dove si lavora è la sede dell’autorità sociale»; comincino dunque gli operai a «conquistare quello»; ogni fabbrica, divenuta... un centro completo [!!!] di vita comune, deve poi entrare in relazione [vecchia anima di Proudhon!] con gli altri organismi simili, servendosi delle federazioni professionali», su su fino alla... CGL: e questo sarebbe... leninismo, non già gradualismo misto a localismo, entrambi della più bell’acqua!

 

2. - CARDINI DELLA POSIZIONE ASTENSIONISTA

 

La difesa del completo programma marxista e rivoluzionario, che la Frazione comunista astensionista aveva diffuso in tutto il partito dopo la riunione del 6 luglio 1919 a Roma (1), continuò in preparazione del congresso di Bologna non solo su «Il Soviet», ma in una serie di ar­ticoli inviati al quotidiano «Avanti!».

Uno di questi, del 2 settembre, si intitola In difesa del programma comunista e svolge non tanto la questione se fare o no le elezioni, quan­to quella assai più importante del ristabilimento della «più ortodossa concezione marxista» come «risultato della solenne riconferma che a tale concezione hanno dato i grandi avvenimenti mondiali, dalla grande guerra capitalistica alle rivoluzioni comuniste». Vi si legge che il pro­gramma della Frazione comunista astensionista

 

«è la sintesi della doppia vittoria teorica riportata dal socialismo rivoluzionario mar­xista contro le due grandi revisioni: quella riformista e quella sindacalista anar­chica che hanno tentato di intaccarlo; vittoria teorica che procede di pari passo con la realizzazione storica delle conclusioni e delle previsioni del marxismo applicate alla guerra borghese ed al processo che conduce dal regime capitalistico a quello socialista».

 

Al centro del programma è il concerto di dittatura proletaria, cioè della

 

«via della realizzazione del comunismo che la dottrina marxista tracciò con mera­vigliosa antiveggenza e che, realizzandosi con evidenza maestosa nelle rivoluzioni contemporanee, ha sbarazzato il campo, come dicevamo, dalle concezioni revisioni­stiche degli anarchici e dei riformisti sul trapasso dal regime borghese al comu­nismo»,

 

L'articolo delinea a rapidi tratti le fasi di questo processo:

 

«Prima il proletariato insorge e con la violenza abbatte il governo borghese sostituendovi il sistema politico proletario, lo stato dei Soviet, fondato sull’esclu­sione dei borghesi dal diritto politico. Quindi, in un processo evolutivo accelerato, lo stato proletario espropria i capitali privati accentrandoli nelle sue mani e ammi­nistrando la produzione a mezzo dei suoi organi costitutivi. Durante questo pro­cesso evolutivo, che durerà anni e anni, vi sono ancora borghesi che sfruttano, ma si va eliminandoli ed assorbendoli nel proletariato. Potenzialmente essi sono eli­minati fin dal primo momento col privarli di ogni diritto politico. Ciò è la ditta­tura proletaria.

«Si tende così all’abolizione delle classi e del potere politico esecutivo di una classe contro l'altra, ma non all’abolizione dell’amministrazione economica cen­trale, caratteristica che definisce il regime comunista contro quello dell’economia pri­vata. Le due revisioni: l'anarchica e la riformista, negano questo processo e sono perciò fuori della realtà storica. Il riformismo dice: al comunismo si arriverà con trasformazioni graduali dell’ordine economico, quali può attuarle il sistema di rap­presentanza democratica oggi vigente. L'anarchismo dice: al comunismo si giunge abbattendo lo stato borghese ed espropriando la borghesia nel tempo stesso dell’insurrezione, senza costituire un nuovo stato e un nuovo governo. L'anarchia fa coincidere l'insurrezione proletaria con l'abolizione delle classi.

«Riformismo ed anarchia negano la dittatura proletaria. Accettare il nostro programma vuol dire rendere incompatibile nel partito ogni addentellato col concet­to riformista e con quello anarchico, e precisarne l'azione sulla via che sola per­mette il superamento rivoluzionario del regime borghese» (corsivi nostri).

 

Precisato così il vero nocciolo del programma della Frazione comu­nista astensionista, l'articolo spiega le ragioni che giustificano la tattica dell’astensione dalle elezioni e dal parlamento, questione secondaria ri­spetto a quella, fondamentale, sopra indicata:

 

«Noi affermiamo che è aperto il periodo rivoluzionario, internazionalmente considerato, perché la guerra mondiale, crisi terribile del regime borghese, ha messo il proletariato dinanzi alla formidabile antitesi storica: o democrazia borghese, ossia imperialismo e militarismo, o dittatura proletaria internazionale. È ingenuo dire che il periodo rivoluzionario in Italia non è aperto; se l'insurrezione fosse nelle vie, l'azione elettorale cadrebbe da sé. Ma noi parliamo di periodo rivoluzionario perché penetrati del dilemma: o la dittatura proletaria diviene internazionale nell’attuale fase storica, o anche la Russia tornerà sotto le catene della democrazia capitalistica. L'opera dei partiti comunisti, di coloro che vogliono seguire e salvare la Russia al tempo stesso, consiste nel preparare il proletariato dei singoli paesi all’urto contro lo stato borghese, creando in esso la consapevolezza politica e storica della necessità che il programma comunista, il processo della rivoluzione proletaria, si realizzi in tutte le sue fasi. Il fondamento di questa consapevolezza è il concetto della dittatura proletaria, a cui il proletariato deve prepararsi; e l'arma più formidabile della conservazione borghese contro di essa è la diffusione della ideologia e del metodo socialdemocratico. Convinti di questa antitesi [...] i partiti comunisti devono diffonderne la coscienza, come dicono le conclusioni di Mosca, nelle più larghe masse del proletariato».

 

Abbiamo sottolineato alcune righe di quest'ultimo squarcio per mettere in evidenza come la nostra prospettiva rivoluzionaria riguar­dasse un ciclo non contingente e nazionale ma storico e internazionale; non significasse che eravamo rivoluzionari marxisti perché e in quanto la rivoluzione fosse lì a portata di mano, ma perché sapevamo di trovarci entro l'arco di un ciclo, non certo breve, nel quale sarebbe stato in gioco, come fu, il destino stesso della rivoluzione di Ottobre: l'ascesa verso il comunismo o la ricaduta nella democrazia borghese, altra faccia dell’arresto al gradino economico del capitalismo.

Infine, l'articolo risponde a due obiezioni: la prima è che nel 1913 eravamo stati proprio noi a difendere con energia il principio della partecipazione alle elezioni - e ad essa si risponde che allora era in pieno svolgimento la nostra campagna contro l'apoliticismo anarchico; l'altra è che i massimalisti si propongono di andare al parlamento solo per «agitare la nostra propaganda» - e ad essa si risponde che quel criterio poteva essere valido quando si trattava solo di

 

«criticare l'ordine capitalista più che di precisare la via per giungere all’ordine nuovo, comunista. Oggi che la rivoluzione iniziata ci pone sull’orlo di questo problema e ne dà una soluzione per noi classica: insurrezione per la conquista del potere politico, dittatura del proletariato - l'azione elettorale non è più un terreno di propaganda, perché il fatto della partecipazione concreta alla democrazia rappresentativa distruggerebbe ogni astratta propaganda per la dittatura proletaria.

«Allora l'elezionismo era l'unica possibile forma di concretare la politica proletaria. Esso ha dato tremende delusioni; tuttavia, evitarlo poteva voler dire incoraggiare nel proletariato il neutralismo e l'indifferentismo politico, spingendolo verso un'attività puramente corporativa e minimalista. Il sindacalismo, con la sua bancarotta, conferma tutto ciò. Oggi vi è il programma di azione politica che deve prendere il posto dell’antica propaganda nei comizi elettorali: la conquista rivolu­zionaria del potere».

 

Logica è la posizione dei riformisti:

 

«Noi le contrapponiamo la incompatibilità programmatica non già tra azione insurrezionale e azione elettorale (che è una incompatibilità di fatto), ma tra la preparazione politica del proletariato alla conquista rivoluzionaria del potere e all’esercizio della dittatura, e la preparazione alle elezioni, l'intervento in queste, l'esplicazione dell’attività parlamentare del partito».

 

Un secondo articolo, del 14 settembre, (2) si intitola Le contrad­dizioni del massimalismo elettorale e, considerando che è già stato detto il fatto loro ai borghesi e ai piccolo-borghesi riformisti o libertari, prende di petto il nuovo e più pericoloso nemico: la frazione che vincerà a Bologna e avrà ancora la maggioranza a Livorno, cioè la frazione dei falsi rivoluzionari che, pur blaterando di «programma massimo», si mostrano imbevuti fino al collo del classico «cretinismo parlamentare» bollato da Marx.

L'ultimo articolo, del 23 settembre, intitolato ancora In difesa del programma comunista, non solo ribadisce integralmente la dottrina comunista, ma ne fa l'applicazione pratica alla situazione italiana, dimo­strando da un lato come la partecipazione alle elezioni assorba tutte le energie che il partito dovrebbe destinare ai ben più gravi compiti teo­rici, pratici e organizzativi del momento storico, dall’altro come la prospettiva della vittoria elettorale socialista sia una prospettiva contro-rivoluzionaria: «La borghesia per vivere deve fare del riformismo. Per riuscirvi, ha bisogno della partecipazione del proletariato alla de­mocrazia parlamentare» (corsivo nostro). Smentisca, oggi 1972, chi può!

Meritano pure citazione non pochi articoli de «Il Soviet». Prima, però, vogliamo precisare i punti base della Frazione comunista astensio­nista, a riprova che la sua politica, la sua lotta del 1919, aveva le elezioni come ultimo pensiero. Il problema ardente non era di tentar di conqui­stare il partito e nemmeno una sua maggioranza alla decisione di non presentare candidati al parlamento, ma di chiarire per quali vie dell’avve­nire potesse enuclearsi una possibilità per la classe proletaria italiana, parte di quella europea, di muovere la sua battaglia di classe e uscirne non sconfitta ma vincitrice. I punti fondamentali erano quelli stessi ribaditi dai bolscevichi:

1)                Affermazione delle basi teoriche del marxismo rivoluzionario e della sua prospettiva del trapasso dal potere capitalistico a quello operaio e, per ulteriore svolgimento storico, dalla economia privata al socialismo e al comunismo.

2)                Affermazione che la dottrina e il programma della III Inter­nazionale non erano un risultato nuovo ed originale della rivoluzione russa, ma si identificavano con i canoni marxisti del punto precedente.

3)                Affermazione della necessità che il nuovo movimento, suc­cessivo al fallimento della II Internazionale, doveva nascere nazionalmente ed internazionalmente attraverso una spietata scissione dagli ele­menti revisionisti e socialdemocratici.

4)                Presa di posizione contro molteplici enunciazioni erronee e demagogiche dei massimalisti del tempo, contro la loro ridicola prospet­tiva dell’atto rivoluzionario in cui in realtà non credevano, ed anche contro la prematura proposta di formare artificiosamente i soviet, come contro la non meno erronea costruzione propria degli ordinovisti di Torino, che vedevano la società nuova già costruita cellula per cellula nei consigli industriali di fabbrica.

5)                Dimostrazione che, malgrado i banali riferimenti all’asten­sionismo degli anarchici, i comunisti respingevano come antirivoluzionarie tutte le correnti posizioni anarco-sindacaliste, specie in quanto rifiuta­vano la dittatura statale esercitata dal partito.

6)                Giudizio sullo svolgimento politico italiano, che non consi­steva nella proposta bruta di scatenare illico et immediate la rivoluzione armata, appunto perché fase storica pregiudiziale doveva essere la costi­tuzione del vero partito comunista e un'adeguata conquista della sua influenza sull’avanguardia del proletariato; e previsione che la prospettiva ottima per la conservazione del potere borghese in Italia era la persi­stenza nei partiti proletari di una posizione indefinita tra la prepara­zione dei mezzi rivoluzionari e l'uso dei mezzi legalitari e il tentativo di attirare una larga schiera di pretesi esponenti della classe operaia non solo nel parlamento ma nella macchina governativa statale.

Noi sapevamo benissimo, prima del congresso di Bologna, che non avremmo avuto la maggioranza per le nostre proposte: ma sarebbe ridicolo credere che non ci preoccupassimo della via che avrebbe preso nella realtà storica l'enorme maggioranza dei nostri avversari nel suo spaventoso ibridismo tra estremisti chiassosi e perfino esagerati e vecchi riformisti pompieri e pantofolai.

È banale dire che, se i massimalisti avessero accettato le nostre argomentazioni e una maggioranza notevole avesse deciso di non andare alle elezioni, la minoranza si sarebbe scissa dal partito e vi sarebbe andata da sola: questo sarebbe stato appunto un utile passo per rag­giungere il risultato pregiudiziale che dopo altri eventi e in modo non felice si raggiunse a Livorno, ma soprattutto quando le probabilità di una battaglia vittoriosa erano ormai scomparse.

Ci si obietta da quarant'anni che era da dogmatici e talmudici non tentar di attuare la scissione anche nell’ipotesi che la maggioranza volesse partecipare alla battaglia parlamentare. Ma tale accusa non ha alcun fondamento, perché la cronaca di quei mesi dimostra che noi non risparmiammo gli sforzi per indurre i massimalisti elezionisti ad accettare il criterio dell’eliminazione dal partito di chiunque rifiutasse il nuovo programma comunista. A Bologna, proponemmo ai serratiani di inserire questo corollario nella loro mozione (che, malgrado il loro disordine mentale, sotto la pressione della nostra polemica aveva finito per includere almeno una parte delle buone tesi comuniste), promettendo in tal caso di cancellare dalla nostra il corollario dell’astensionismo. Avremmo così raggiunto lo stesso il risultato, sia pure meno brillante, che sarebbero andati via dal partito i riformisti alla Turati e, con loro, uno scaglione dei più sgangherati e contraddittori massimalisti.

La nostra proposta era leale e andava oltre la promessa di seguire disciplinati la campagna elettorale; tanto è vero che, dopo la votazione a noi contraria, non solo non decidemmo di uscire dal partito, ma accettammo di svolgere per disciplina il lavoro elettorale anche nel partito rimasto tale e quale. Non ci si può dunque accusare di aver commesso un errore per eccesso di dogmatismo, e la verità potrebb'essere l'opposta, ossia che lo commettemmo per difetto non uscendo subito dal partito e non costituendone uno nuovo - se, e questo è il punto, il centro massimalista non ci avesse posto nella condizione di non farlo guadagnandosi in tempo la più che dubbia qualifica di aderente alla III Internazionale e neofita del... comunismo; non ultimo dei cattivi servigi resi dai Serrati & C. alla causa proletaria. Per noi, la questione si poneva in termini non nazionali, ma internazionali: era dunque vitale il legame con Mosca, che altrimenti si sarebbe rotto. In realtà, coloro i quali (e ve ne sono anche di ex «sinistra» in vena di rimpro­verarci un 'eccessiva tenerezza... sentimentale verso il PSI) credono di poter oggi sentenziare che se avessimo avuto il loro coraggio (a tanto si riduce la loro visione marxista della storia) - avremmo preso già allora il toro per le corna costituendoci di botto in partito, chiudono tutti e due gli occhi sui dati complessi e aggrovigliati della situazione di allora: dimenticano che il massimalismo ci aveva due volte legate le mani salvandosi di fronte all’Internazionale prima di tutto, e ai proletari italiani in secondo luogo, sia col suo neutralismo in guerra, sia con la sua adesione al Comintern; quando aggiungono che l'ora per dividersi era l'ottobre a Bologna perché la situazione era «obiettivamente rivolu­zionaria», tacciono volutamente che, se ciò fosse stato vero, l'ora sarebbe già stata troppo tarda; ci si sarebbe dovuti separare assai prima; e il discorso, oggi, sarebbe lo stesso. Noi non avevamo di fronte un cen­trismo aperto che si fosse smascherato come tale; avevamo di fronte (e quanto dovemmo faticare a convincere i bolscevichi russi e i proletari d'avanguardia in Italia che così era!) un centrismo con credenziali in apparenza affatto diverse, ed eravamo, internazionalmente come localmente, i soli a capire che dietro quella facciata c'era il vuoto, oltre che il marcio. Dovevamo mettere alla prova sul loro stesso terreno i falsi «sovietisti»; come se non bastasse, dovevamo fare i conti con gli «impazienti» di taglia più sindacalista che marxista pronti a venire con noi ma per ragioni affatto diverse dalle nostre anche sul piano del solo astensionismo. Non era piacevole, né conforme ai nostri gusti; ma la dura realtà era quella. Gli «choc» e i «traumi» che questi «estremisti» alla salsa psicanalitica ci attribuiscono (fra poco diranno che per noi il PSI era qualcosa come... la «madre fallica», insieme odiata e ago­gnata!) erano gli «choc» e i «traumi» ben più seri della situazione oggettiva: non se ne trova la chiave nella... psiche individuale e neppure collettiva, ma nei rapporti materiali e nel peso di fattori di «inerzia storica» che non hanno nulla a che vedere con i desideri, la volontà, la coscienza e, meno che mai, col famoso senno del poi.

In quel gioiello di dialettica marxista che è Terrorismo e comunismo (capitoletto finale: «Invece di un poscritto»), Trotsky spiegherà il «ritardo nella chiarificazione interna del partito» italiano con l'unani­mità, comodamente raggiunta sfruttando circostanze obiettive, nel rifiuto dei crediti di guerra prima, e nell’adesione alla III Internazionale poi: così intricato era il gioco dei fattori storici, così indipendente da volontà e desideri soggettivi! Era il 17 giugno 1920: troppo tardi i bolscevichi si convinsero per esperienza diretta che la funzione degli indipendenti in Germania era stata ed era svolta in Italia dai massimalisti, e che ad essi si addiceva il ritratto dipinto con mano maestra da Trotsky credendo di raffigurare al vivo la sola ala turatiana: «una forma meno pedantesca, meno dogmatica, più declamatoria e più lirica dell’opportunismo, tuttavia la peggiore: il kautskismo latinizzato». A questa «lirica» cortina fumo­gena, rabbiosamente unitaria malgrado le frasi da comizio, si doveva il «ritardo della chiarificazione» non solo nel PSI, ma nell’Internazio­nale!

In ogni modo la verità storica è che avanzammo la nostra pro­posta e che i massimalisti la rifiutarono, e la rifiutarono non solo Lazzari, che allora pencolava verso Turati, ma Serrati, Bombacci, Gen­nari, Tasca ecc. ecc. Una delle nostre condizioni, naturalmente, era che il nuovo programma non restasse a figurare come corpo estraneo o come superfluo inciso negli accapi frammentari della mozione massimalista, e fungesse da «deterrente», oggi si direbbe, nei confronti della destra. Gennari sembrò per un istante aderire a questa idea, ma gli altri la respinsero per il terrore di compromettere la strepitosa vittoria elettorale.

La questione del programma, che si identificava tecnicamente con l'esigenza di spezzare il partito, era per noi la questione politica centrale (e lo confermeremo ricorrendo ai testi del II Congresso di Mosca del 1920); non era invece questione politica centrale quella delle elezioni, nel senso che per chi conoscesse il fetido democratismo occidentale occorrevano pochi secondi per antivedere che, soltanto sfio­rando i suoi metodi osceni, la nuova nascente forza rivoluzionaria sa­rebbe naufragata nella vergogna.

Qualche storico di giorni più recenti ha forse capito il dilemma nel quale, contro ogni desiderio, ci trovammo e, riconoscendo in noi l'unica corrente allora degna d'essere definita comunista, ripiega su un'altra critica; pretende cioè che, con la nostra «ipoteca astensionista», avremmo ritardato la cristallizzazione intorno alle questioni di fondo (che, bontà sua, riconosce poste soltanto dalla Sinistra) degli elementi più sani del vecchio partito. La verità, a parte quanto detto più sopra, è che non una voce si levò, prima durante e nemmeno dopo Bolo­gna, a riprendere e far proprio nessuno dei temi che abbiamo elencati come specifici tanto della nostra corrente quanto dell’Internazionale rico­stituita: per noi l'astensionismo - come per Zinoviev e per tutta l'Internazionale la questione della partecipazione o meno alle elezioni - era secondario rispetto alle posizioni programmatiche di fondo e mai avrebbe dovuto dividerci; per i supposti candidati 1919 al vero partito comunista, la partecipazione elettorale primeggiava sulle posizioni pro­grammatiche di fondo (d'altronde, come vedremo presto, mal digerite o addirittura nemmeno conosciute) e impediva di unirsi a noi e dividersi dai riformisti! Tutti preferirono il confusionario massimalismo; tutti spararono a zero contro il «punto secondario» per non essere costretti a schierarsi a favore del «punto essenziale»! Occorreva una lunga matu­razione (per affrettare la quale lottammo a corpo perduto nei mesi successivi) perché quest'ultimo punto fosse digerito: e non bastò Livorno...

 

(1) Non a Bologna, come è scritto per errore a pag. 171 del primo volume. il programma della Frazione si legge a pagg. 392-402 di quest'ultimo

 (2) Riprodotto nel nostro volume O preparazione rivoluzionaria o preparazione     elettorale, Milano 1968, pagg. 56-58.

 

3. - FORTE E COERENTE CAMPAGNA DE «IL SOVIET»

 

In una lettera di saluto al congresso del PSI, datata 29 settembre 1919 e firmata Zinoviev (1), il Comitato esecutivo della III Internazio­nale scriveva:

 

«La nostra Associazione Internazionale dei Lavoratori ha bisogno di qualcosa di più che simpatia. Abbiamo bisogno di chiarezza nel programma e nei fini. La dittatura del proletariato, i Soviet come sua forma, l'abbattimento dei parla­menti borghesi-democratici che sono uno strumento della dittatura borghese, la creazione dell’armata rossa - questi i compiti che devono unire il proletariato rivoluzionario internazionale».

 

Appunto a questo compito di chiarificazione «del programma e dei fini» si dedicò «Il Soviet» nei mesi che precedettero Bologna, sviluppando i cardini della teoria comunista e delle sue necessarie implicazioni tattiche: i punti, insomma, più sopra elencati e formanti un quadro organico di dottrina e di azione, primissimo quello della lotta per un nuovo partito che avesse eliminato i riformisti e si fosse pure liberato dalle moltissime posizioni errate in cui sempre più si andava avvolgendo il «massimalismo» vuoto e rumoroso.

Più volte «Il Soviet» dovette ammonire che non si trattava né di posizioni personali di qualche compagno, attivo scrittore e propa­gandista, né di posizioni localiste o dettate dalla speciale difficoltà tradizionale della situazione del socialismo napoletano. Si trattava di un'autentica corrente collettiva nel partito, che raccoglieva ovunque ade­renti e collaboratori alla propaganda, alla redazione del giornale ed alla agitazione sindacale e politica, e che si era già tessuta una fitta rete organizzativa nazionale. In epoca molto molto tarda, quelli dell’«Ordine Nuovo» riconosceranno la loro deficienza di origine di non essersi saputi organizzare nazionalmente, e aver dovuto (dopo Bologna, prima di Livorno, e anche dopo) camminare sulla scia del robusto lavoro fatto dagli astensionisti sin dalla fine della guerra. Ma, per svalutare la tradi­zione astensionista, qualche loro scrittore post litteram insinua che la dottrina astensionista, semplicista ed infantile, attecchì soltanto nel Mezzogiorno dove non esistevano masse proletarie sviluppate, mentre la dottrina ordinovista si sarebbe appagata della sola Torino dalla mo­dernissima industria, ignorando il mondo di bassa lega! È facile mo­strare il pessimo gusto di questa gratuita invenzione dando l'elenco delle forze della Frazione astensionista quale si deduce dalla costante pubbli­cazione nel «Soviet» delle adesioni al suo programma.

Dal voto ufficiale del congresso risultarono solo 67 sezioni con 3.413 voti contro il blocco enorme dei Serrati e compagnia bella da un lato, e dei Turati-Lazzari dall’altro. Ma 16 sezioni non poterono mandare un delegato specie per motivi economici, e calcoleremo tutte le sezioni che avevano aderito al «Soviet» in numero di 83. Eccone la ripartizione tra le province italiane di allora: Alessandria sezioni 6, Cuneo 2, Novara 14, Torino 5 (con la fortissima minoranza del capoluogo), Bergamo 1, Mantova 1, Milano 1, Pavia 1, Porto Maurizio 3, Modena 2, Ravenna 1, Bologna 5, Arezzo 2, Firenze 5, Lucca 2, Siena 2, Ascoli 2, Macerata 1, Perugia 1, Teramo 1, Aquila 1, Roma 2, Napoli 5, Caserta 2, Salerno 2, Catanzaro 1, Cosenza 3, Bari 5, Reggio C. 1, Girgenti 2, Palermo 1, Siracusa 1, Cagliari 1.

Due sono le considerazioni da fare: che il movimento, anche in relazione alla distribuzione delle forze di partito, era più forte al Nord e al Centro che al Sud e nelle isole: che, a dispetto della imbecille norma democratica, non è il numero bruto di aderenti che conta, ma la loro presenza su tutto il territorio.

I lettori troveranno sia nel testo narrativo che nelle appendici ai volumi I e I bis (come pure nel presente volume) una serie di citazioni che mostrano come la lotta si svolgesse su un fronte multiplo e non solo sul tema del boicottaggio del metodo elettorale. Tutti gli aspetti della lotta proletaria e comunista in Italia e nel mondo sono seguiti battaglia per battaglia dando piena ragione delle sue vittorie e delle sue sconfitte (Russia, Ungheria, Baviera, Germania, ecc.). La pole­mica è costantemente diretta contro i partiti della democrazia borghese e «popolare» all’interno e all’estero; mai è dimenticata la distinzione tra noi e i falsi rivoluzionari sindacalisti e anarchici; la questione delle organizzazioni economiche e dei loro rapporti col partito di classe è trat­tata a fondo. Le aberrazioni dei massimalisti indigeni e degli ordinovisti sono subito scoperte e denunziate; fra queste, la proposta della Costituen­te, quella di formare subito i soviet, l'idea balorda dello sciopero espro­priatore, le prime apparizioni del feticismo della «unità» e del «fronte unico rivoluzionario» che vengono avanzati, prima ancora di avere un partito comunista, in una pericolosa confusione di idee e quindi in una totale assenza di programmi e di seria organizzazione e preparazione rivoluzionaria.

I sinistri astensionisti vedono da lungi i pericoli e le minacce dell’opportunismo e della controrivoluzione. Nel campo internazionale, il se­guito di questa trattazione mostrerà perché non si ebbe una frazione di sinistra efficiente in Europa e nel mondo, e quali effettivi errori di «infantilismo» nel senso di Lenin ci traversarono la strada con i rigurgiti di influenze anarcoidi e sindacaliste, il cui filone in Italia va cercato pro­prio nella corrente dell’«Ordine Nuovo».

Seguiamo i materiali disponibili nel periodo tra agosto e ottobre del 1919, facendo rapido uso del «Soviet». Ricordiamo ancora che tutto l'insieme delle nostre tesi è già solidamente formulato nel programma adottato nel luglio a Roma, a cui nel seguito si vedranno aggiunte le tesi sulla Tattica e sulla Critica di altre scuole.

Nel «Soviet» del 10 agosto 1919, oltre al già citato articolo La restaurazione borghese in Ungheria, nel quale la denuncia del grave errore di aver costituito un governo rivoluzionario composto di comunisti e socialisti collima pienamente con quella data in particolare da Lenin e Trotsky, figurano due articoli, Sulla dittatura del proletariato e sul Programma comunista e le altre tendenze proletarie, che toccano due punti importanti: il primo non soltanto riafferma la necessità della violenza di classe, della dittatura e del terrore, come già svolto in precedenti articoli (vedi in particolare Per la valutazione storica della dittatura proletaria, vol. I, pagg. 402-406), ma reagisce al vezzo tipico dei massimalisti di battere e ribattere sul carattere «affatto transitorio» della dittatura allo scopo evidente di non spaventare i grossi borghesi e attirarsi le simpatie dei piccoli, invece di insistere sulla sua necessità lasciando ai rapporti di forza mondiali di stabilire quanto debba durare (e, ai fini non della violenza repressiva ma della realizzazione economica e della trasformazione politica, sarà sempre e comunque un'epoca non breve); il secondo riprende le tesi fondamentali del I congresso dell’Inter­nazionale, mettendo tuttavia in guardia contro un'apertura delle porte del nuovo organismo a formazioni politiche anarchiche e sindacalistiche, o addirittura ad organismi non politici ma economici.

Nel numero del 17 agosto sono riprese le decisive esperienze di Russia, Germania e Ungheria, e, in un articolo intitolato Il partito al bivio, si preannuncia l'inevitabilità a breve o lunga scadenza della scissione del partito, affermando inoltre il principio per noi cardinale che «i metodi di lotta [...] non debbono essere prescelti in rapporto alla possibilità mag­giore o minore di successo immediato che questa lotta possa dare, ma in rapporto alle finalità che il partito si propone di conseguire». Fin da allora è dunque affrontata una questione vitale della tattica che la Sinistra non cesserà di difendere su scala internazionale in anni futuri.

Nel numero del 24 agosto è riportata la mozione che la Frazione presenterà a Bologna e che, con qualche modifica di carattere puramente formale, sarà posta ai voti in quella sede (2). Fulcro di essa, assai più che l'astensione elettorale, è la dichiarazione di incompatibilità nel partito di chiunque ammetta l'emancipazione proletaria per le vie demo­cratiche e respinga la dittatura del proletariato. Si riafferma inoltre che il programma elaborato in precedenza (I volume, pagg. 398-401) non è opera di un singolo militante, ma esprime il pensiero collettivo della Frazione e si riallaccia alle fondamentali proclamazioni del Manifesto del Partito Comunista e del programma della Terza Internazionale: è chiaro fin da allora che nella nostra corrente la pretesa idiota di elabo­razioni a carattere personale, definite dal nome e cognome di un singolo, non ha diritto di cittadinanza. Segue una breve polemica con gli anar­chici, i quali, nella loro visione del processo rivoluzionario come atto miracoloso di una fortunata notte di illuminazione della coscienza prole­taria e di distruzione dell’apparato statale dominante, si stupiscono che nella costituzione dei soviet russi si neghi il diritto elettorale attivo e passivo agli sfruttatori, immaginandosi che per un colpo di bacchetta magica la vittoria politica debba portare con sé la... volatilizzazione dei rapporti di produzione capitalistici e, con essi, dei loro esponenti fisici.

Val la pena di osservare, per inciso, che la polemica ricorrente con gli anarchici permette alla nostra Frazione anche in seguito di mettere a fuoco questioni vitali di teoria e di prassi rivoluzionaria nei confronti non solo di quei nostri antichi contraddittori, ma di più recenti «neofiti» se non del comunismo almeno del «sovietismo». Un articolo del 5 ot­tobre (3), sempre su «Il Soviet», mentre dà atto all’anarchica «Volontà» dell’esattezza del suo giudizio su di noi come i più fermi ed ostinati nel rifiutare ogni addentellato anche nell’azione pratica con l'antipartiti­smo, antidittatorialismo ed anticentralismo degli eredi di Proudhon e Bakunin, e rigetta ogni tentativo di attutire la tagliente rudezza delle posizioni teoriche e programmatiche marxiste, svolge il tema del nostro classico concetto della forza, della violenza, dello stato, della dittatura:

 

«È inutile diffonderci in definizioni astratte e assolute di termini affini: dittatura, forza, violenza, potere, governo, stato. È equivoco cercare un'intesa di opposte dottrine in certe formule della filosofia borghese invocate dall’Ordine Nuovo di Torino (che ha un indirizzo ammirevole, ma ancora è inficiato di qualche con­cetto dottrinale che mentre par nuovissimo è superato dalla dialettica marxista), cioè quella che "la fonte del diritto è nella coscienza individuale" (!!). Questa è in realtà una bella formula anarchico-borghese. Per noi la fonte del diritto è la forza degli interessi della classe che è al potere. Il diritto muta coI mutare delle classi che dominano la società; e la «coscienza individuale», anziché una causa, è un risul­tato di tali mutamenti, ed, in genere, dei rapporti di classe. Ma, se proprio voglia­mo eludere gli ingorghi astrusi della polemica, usciamo dal campo delle definizioni e distinzioni filosofiche e veniamo a quello degli effettivi svolgimenti del processo sto­rico. Premettiamo una sola definizione, quella marxistica e realistica, dello Stato: lo Stato è l'organismo col quale una classe sociale esercita il suo dominio sulle altre. I caratteri dello Stato non possono intendersi universalmente, ma mutano del tutto ad ogni avvicendamento di classe al potere. Quando la lotta di classe ha raggiunto un certo stadio, il proletariato insorge per abbattere il potere della borghesia: lo Stato borghese. Se all’indomani di questa azione fosse senz'altro possibile sopprimere la divisione della società in classi facendo funzionare la economia comunista, non ci sarebbe necessità di formare un nuovo Stato. Ma poiché questo è assurdo, e per un tempo più o meno lungo, ma sempre misurabile ad anni, seguiteranno ad esiste­re borghesi non ancora espropriati, vi saranno ancora due classi: il proletariato clas­se dominante e la borghesia classe dominata in graduale eliminazione. Quindi dovrà formarsi un organismo: lo Stato proletario, che eserciterà la forza espropriatrice con­tro i borghesi».

 

Per tornare al 24 agosto, un articolo su L'equivoco del massima­lismo elettorale sottopone a una brillante critica il contraddittorio ma­nifesto-programma redatto, del resto con scarsa convinzione, dai massi­malisti e pochi giorni prima apparso nell’ «Avanti!».

Il nocciolo delle nostre argomentazioni sulla tattica non solo «elet­torale» vi è ben riassunto in questi termini:

 

«In Italia, si afferma, non è ancora iniziata l'azione di fatto rivoluzionaria per la conquista del potere. In questo non vi è alcun dubbio. Se questa azione fosse iniziata, a quest'ora staremmo combattendo per le vie e avremmo ben poco da pensare al congresso o alle elezioni. Noi diciamo che non bisogna attendere il momento dell’azione per cambiare tattica; bisogna invece cambiare tattica appunto per prepararsi all’azione [...]. Non è il periodo storico della lotta tra proletariato e borghesia che si è ora aperto; questo è aperto da parecchio, ed esso è di sua natura internazionale. In questo periodo tutte le energie debbono essere volte verso questo sforzo supremo, e ogni distrazione di esse è dannosa.»

 

Nel numero del 31 agosto, il settimanale attacca la politica di Nitti il quale attende a nozze il poderoso gruppo parlamentare sociali­sta mentre è complice della borghesia mondiale che, proprio in quei giorni, millanta di aver preso con le sue armate bianche Odessa e Pietrogrado. I tempi non cambiano: il grande motto del «democrati­co-riformatore» Nitti è quella che oggi si chiamerebbe «politica dei redditi», cioè «produrre molto e consumare poco» (in compenso, il gruppo parlamentare aveva ottenuto la riforma elettorale e, nientepopodimeno, l'inchiesta sulla «sciagura nazionale» di Caporetto!). Segue una vivace polemica contro le sgangherate tesi degli elezionisti, i quali si richiamano proditoriamente a Lenin per giustificare il proprio incan­crenito parlamentarismo e ben sapendo di mentire ci accusano di anar­chismo, mentre per colmo d'ironia ci fanno colpa di aver definito com­pito del partito comunista «l'abbattimento violento del dominio borghe­se e l'organizzazione del proletariato in classe dominante» fingendo di ignorare che queste parole risalgono a settant'anni prima, e alla penna... di Marx!

Nel numero del 7 settembre non mancano le note politiche sulle manovre della borghesia italiana, come il movimento degli arditi che preludeva al fascismo, e l'ipocrita campagna sulle «responsabilità» della disfatta di Caporetto. Un articolo traccia a quest'ultimo proposito la netta linea di demarcazione fra la nostra dottrina del disfattismo di guerra e i piagnistei umanitari e pacifisti di tutti coloro che, allora come oggi, della critica al militarismo intendono servirsi come trampo­lino per l'accesso all’alcova montecitoriale o addirittura ministeriale. Un altro è dedicato al programma massimalista e alla dimostrazione della sua fondamentale inconsistenza, indeterminatezza e ipocrisia. Esso si conclude con l'affermazione di principio, che salda le direttive tattiche alle finalità e al programma del movimento:

 

«Il metodo massimalista [nel senso di: bolscevico] non rifugge dall’esame delle contingenze e dalla risoluzione di esso, ma non può consentire che una tale risoluzione sia fatta in aperto contrasto con le sue direttive».

 

Nel frattempo, fra le nostre vivaci proteste, la direzione del par­tito aveva deciso di rinviare a data incerta il congresso già fissato pei primi di settembre: urgeva, che diavolo, preparare le elezioni! Nel nu­mero del 14 dello stesso mese, fra molte altre polemiche contro i mas­simalisti e contro la destra, l'editoriale (Chiarimenti quasi superflui) ri­leva come il nostro programma, il quale intende tracciare tutta la stra­da della rivoluzione operaia e comunista basandosi su ragioni «non na­zionali ma internazionali e di indole programmatica generale» (4), non sia stato né sia discusso nei suoi punti vitali da nessuno, mentre tutto il clamore si concentra sulla questione della partecipazione o meno alle elezioni. Un altro articolo svolge il tema per noi cruciale che la prepa­razione rivoluzionaria si fa non solo con la propaganda, ma con la par­tecipazione alle lotte economiche del proletariato, al duplice intento di dare ad esse «un intenso carattere politico», e spogliarle del «ristretto carattere di lotte di categoria» perché assumano sempre più «il carat­tere di lotta di classe e quindi di lotta politica».

Un punto sul quale si faceva e si continuerà a fare enorme confu­sione era quello della natura, dei compiti e delle condizioni di costitu­zione dei soviet. Trattandone nei numeri del 14 e del 21 settembre, il settimanale chiarisce ad un collaboratore dell’ «Ordine Nuovo» che il soviet è un organismo politico prima di divenire, dopo la presa del po­tere, organo di trasformazione anche economica; il suo carattere è dato dalla esclusione di chiunque non sia proletario o comunque sia «legato alla conservazione dei rapporti economici della proprietà privata», e dalla partecipazione ad esso dei proletari non in quanto dipendenti di questa o quella azienda, ma in quanto membri della classe dei salariati ed esponenti dei suoi interessi generali: non possono quindi confonder­si né coi sindacati,, a maggior ragione, con le commissioni interne. Si reagisce inoltre alla pretesa, sia dei massimalisti che degli ordinovi­sti, di «fabbricare» i soviet escogitandone la struttura più rivoluziona­ria possibile: non è «una particolare struttura» che fa del soviet uno strumento rivoluzionario, ma il fatto di essere «l'organo della classe che prende tutta per sé la direzione della gestione sociale»: costituendolo in periodo non rivoluzionario, ci si limiterebbe ad una «imitazione forma­le di un istituto avvenire; ma questo mancherebbe del suo fondamen­tale carattere rivoluzionario». Allo stato dei fatti, solo rappresentante del proletariato è il partito, «anche se ne costituisce una audace minoran­za», e solo dal partito usciranno i futuri «quadri dei consigli operai e contadini». Il problema storico - o, come preferirebbero dire gli ordi­novisti, il problema concreto - è perciò quello della formazione del partito di classe: senza questa pregiudiziale, tutto il resto è puro eser­cizio accademico. Proprio in quel torno di tempo, al loro secondo con­gresso (Heidelberg, 20-24 ottobre), gli spartachisti risposero agli «azien­disti» e sindacalisti di Germania, per i quali i consigli (Räte) erano pa­rimenti l'alfa e l'omega a prescindere dal partito (anzi, come poi si chia­rirà, contro il loro... violentatore partito!), che «la rivoluzione non è una questione di forme di organizzazione» a conferma che il co­munismo, se tale è, non conosce frontiere.

Ciò non significa, d'altra parte, che noi svalutassimo come oggi si blatera, i consigli di fabbrica o altre rappresentanze degli interessi di maestranze aziendali; il nostro settimanale precisa come anche in si­tuazione non prerivoluzionaria, come quella di cui si tratta, sia utile incoraggiarne la costituzione, «non facendosi però soverchie illusioni sulla intrinseca loro facoltà rivoluzionaria». Su tutto questo argomento, «Il Soviet» avrà occasione di ritornare a lungo in una serie di articoli che riproduciamo più avanti (cap. VI) in polemica con tutte le correnti del partito, o meglio della sua maggioranza, ma in particolare con l’«Ordine Nuovo»: i concetti fondamentali, fin d'allora esattamente definiti (5), troveranno così una sistemazione organica, ben collegata a tutti gli aspet­ti e momenti della lotta per la conquista rivoluzionaria del potere.

Il numero del 21 settembre, mentre ribatte nell’articolo Le tenden­ze del Partito socialista l'accusa rivoltaci con insistenza da Turati di essere degli anarchici e di resuscitare in seno al partito gli spettri del 1892, se la prende assai più con le contraddizioni e tergiversazioni dei dirigen­ti massimalisti del PSI, i quali, in una delibera del 23 agosto (dunque di poco successiva alla pubblicazione del loro «programma»), avevano dato sanzione ufficiale alla formula: «il metodo elettorale per la conqui­sta dei pubblici poteri fa parte integrante del programma fondamentale del partito, al quale esso non può rinunciare senza perdere il suo carat­tere», - e ciò pochi giorni dopo aver proclamato la volontà di butta­re alle ortiche il vecchio programma di Genova di cui appunto quell’inciso faceva «parte integrante»! Il numero, che porta il titolo sull’in­tera pagina: Per una coraggiosa soluzione del conflitto tra le tendenze, prevede che dal congresso rinviato al 5-8 ottobre uscirà un lacrimevole minestrone, perché né la destra né il centro sapranno essere sinceri e il secondo sacrificherà sull’altare della unità le «tesi» mille volte ripetute a voce e per iscritto, e mille volte rimangiate nei fatti. Citiamone un solo brano:

 

«La preoccupazione unitaria, eccitata e rinsaldata dall’imminenza della lotta elettorale cui tutti si sentono solidalmente legati, farà da colla per l'unione e la confusione. Il partito manterrà una formale unità risultante da una serie di com­promessi, di rinunzie, di ipocrisie, tutti egualmente deleteri perché si rifletteranno sull’azione successiva, che sarà sconnessa, slegata e discorde come le parti costituen­ti del partito stesso.

«Sola contro questo miscuglio a insistere sulla necessità di costringere il partito alla vera revisione del programma, che importi di conseguenza la scissione tra socialdemocratici e comunisti, resterà la pattuglia massimalista antielezionista. Non vogliamo ora dire se il partito si scinderà oppure no...; se la scissione sarà evitata (e sarà male) oggi, avverrà inevitabilmente domani».

 

Non occorrono altre prove sia della nostra chiara valutazione del partito di allora, della nota destra e dell’equivoco centro che, proprio in quei giorni, Lenin poneva in tutta Europa con le spalle al muro, sia della nostra decisione di lottare per il punto che Mosca e Lenin mostra­vano chiaramente di volere e che in Italia nessuno all’infuori di noi vo­leva, ossia la scissione del partito imposta e resa improrogabile dall’acce­sa situazione nazionale e - assai più - internazionale (ancora una volta ne «Il Soviet» si proclama che «il bolscevismo è pianta di ogni clima», allo stesso modo che lo è per i borghesi la democrazia senza che i rifor­misti si credano in dovere di accusarli, come accusano noi, di «mime­tismo»: i «principi di Lenin non sono che il fondamento universale del programma e della tattica socialista - ove non si è imputtanita»).

Il numero del 28 settembre non concede molto spazio alla polemi­ca congressuale, ormai esauriente da parte nostra: vi sono in seconda pa­gina la convocazione della Frazione per il 4 ottobre a Bologna, e note minori. È bene dire che il settimanale è sempre di quattro pagine, ma non ha il carattere di rivista, perché almeno le ultime due sono dedicate alla cronaca del movimento militante del partito e dei sindacati operai. Orbene, la prima pagina di questo numero stabilisce la nostra originale posizione sulla prospettiva politica italiana. Si era quasi in «preallarme»: D'Annunzio (mai preso da noi troppo sul serio) era andato a Fiume, e Nitti, per incretinire il socialismo parlamentare, agitava lo spettro della dittatura che si chiamava ancora militare, non fascista. I fascisti di Mus­solini mostravano di plaudire a D'Annunzio, e Nitti lo chiamavano Ca­goia. Il prevedibile attacco di una destra fascista al governo, e in genere alle «sacre» garanzie democratiche, non ci faceva tremare. La dittatura di classe capitalistica c'è sempre stata, e lo spauracchio di un peggio ha sempre avuto effetto di inganno controrivoluzionario e di caduta del pro­letariato nella veramente peggiore piovra opportunista. Il fascismo è ve­nuto, se n'è andato, e alla fine siamo ancora lì.

Ecco il testo della breve nota, intitolata Gli avvenimenti:

 

Vigilare! Sì, vigilare.

«La crisi borghese è in uno stadio acuto, non tanto forse pel gesto di D'An-nunzio, quanto per l'imminente definitiva negazione da parte degli alleati delle aspirazioni imperialistiche italiane [su Fiume e sulla Dalmazia, come nel trattato segre­to di Londra del 1915].

«Noi non ci preoccupiamo eccessivamente dello spauracchio della "dittatura militare". Prima perché siamo convinti che nel campo borghese tutto finirà o con la permanenza di Nitti al governo o con una crisi a fondo parlamentare che, come le precedenti, non muterà sostanzialmente le condizioni della politica borghese e della lotta di classe; secondariamente perché ci rifiutiamo di accedere alla insidia relativista di difendere l'attuale regime governativo contro un altro peggiore, come non mancheranno di sostenere i riformisti del partito coll’abituale loro mentalità e tattica di conservatori (6).

«La dittatura militare c'è già: mille sintomi la rivelano sotto l'ipocrisia democratica del governo parlamentare: dopo l'armistizio essa non è cessata, con l'avven­to di Nitti è rimasta: ricordate il 20 e il 21 luglio coi preparativi e gli ordini di massacro al minimo scatto proletario? La smobilitazione non la elimina, quando si rimpiazzano da Nitti i reggimenti ormai stanchi di far servizio di P. S. con l'aumen­to dei corpi speciali [guardia regia!] e l’arruolamento di migliaia di poliziotti e carabinieri in più.

«Potrebbe cadere la vernice parlamentare della dittatura di classe che il capi­talismo esercita con la sciabola dei suoi mantenuti: e sarebbe un vantaggio per la causa della rivoluzione proletaria.

«Gettando la maschera, la borghesia rinunzierebbe a tutte quelle risorse che ancora le offre l'abile impiego del tranello democratico ed elettorale.

«Il proletariato e il partito socialista sarebbero così dalla stessa classe domi­nante liberati dalle pastoie dell’addormentatore elettoralismo, e darebbero subito o a brevissima scadenza un'adeguata risposta movendo all’assalto rivoluzionario per la dittatura proletaria. Salutem ex inimicis.

«Ben venga la liquidazione del nittismo corruttore! Il proletariato l'accoglierà non col difendere il regime parlamentare - come sognano i riformisti - ma per iniziare l'offensiva contro tutti i borghesi [...]» (7).

 

In queste poche battute è condensata la posizione della Sinistra mar­xista nei casi in cui la «minaccia fascista» incombe sulle «libere istitu­zioni» del mondo contemporaneo: un'occasione storica favorevole, pur­ché accolta con virili propositi di lotta e non con l'ignobile piagnisteo sulla deflorata libertà. Il titolo che quei sintomi «tremendi» ci detta­vano era: Mentre si svolge la crisi del regime borghese. Ma il partito proletario, ahi di lui, non sognava che l'orgia delle schede!

Val la pena di ricordare che, nel dibattito su Fiume col quale la le­gislatura si chiuse (e «Il Soviet» deplora che «il gruppo parlamentare non abbia avuto l'onestà e il coraggio di votare a favore del ministero» per il quale apertamente parteggiava, «così come deploreremmo che l'im­minente congresso non avesse [come non ebbe] quello di escludere dal partito la tendenza che il gruppo nella quasi totalità rappresenta»), Tu­rati si era rivolto ai nazionalisti, oppositori più o meno sinceri del loro più o meno sincero avversario Nitti, con le parole: «Ogni passo che voi fate sulla via per la quale vi siete messi, è un passo che fate verso il bolscevismo [...]. Voi lavorate per esso: noi resistiamo ad esso e a voi, ed è per questo [rivolto al banco del governo] che forse avrete anche i nostri voti, perché se le opposizioni andassero al ministero, andremmo incontro non ad una crisi ministeriale, ma ad una crisi di regime, an­dremmo [orrore!] verso il bolscevismo». La direzione massimalista, che di fronte alla crisi di Fiume si era lavata le mani con una postuma ap­plicazione del vecchio «né aderire né sabotare» («non parteggiamo né per l'una né per l'altra parte», quasi non si trattasse di combatterle en­trambe!) con la scusa ferravilliana di «assistere vigili al crollo che si prepara», si limitò a registrare il «nuovo incidente sul lavoro» del vecchio leader, archiviandolo come voleva un'antica consuetudine e così dandogli, previa la solita «protesta», la propria assoluzione (8). «Il Soviet» insorse con violenza e, ricondotta la «baruffa» tra gover­no e nazionalisti alle sue vere proporzioni non di lotta per o contro l’«italianità di Fiume», sulla quale entrambi giuravano, ma «per chi debba fare le elezioni», trasse dall’episodio una lezione non personale locale, ma generale: nell’ambiente parlamentare

 

«non sono possibili soluzioni estreme, e il gruppo è sempre costretto a scegliere tra un più o un meno peggio se vuol avvalersi dell’arma che gli è stata affidata [...]. I più fieri massimalisti al parlamento non potranno fare di meglio [...]. Nel parla­mento borghese le posizioni sono quelle che sono, e sono create dalla borghesia: an­che la assenza o il disinteresse [la famosa tartufesca «intransigenza»] possono in determinate circostanze fare il gioco di un gruppo anziché di un altro».

 

Il numero del 5 ottobre reca su quattro colonne il titolo: Alla vi­gilia del congresso socialista di Bologna. E, sotto, un motto lapidario a firma Lenin: Abbasso il capitalismo! Abbasso la bugiarda democrazia bor­ghese! Viva la repubblica universale dei Soviet! Questo, o giovani che leggerete dopo 53 anni, era il leninismo. Non ne esiste un altro, che salvi la democrazia, che salvi i paesi capitalisti!

Riportiamo la noterella: Domande ai compagni massimalisti elezio­nisti.

 

«Siamo desiderosi di avere dai compagni della Frazione massimalista elezionista una precisa risposta ai seguenti precisi quesiti:

«1. Voteranno essi per la rinnovazione del programma del partito approvato a Genova nel 1892, come si desume dal programma della Frazione massimalista a fir­ma Gennari, Serrati, Bombacci e Salvatori? E qual è il nuovo programma che essi propongono in sostituzione dell’antico?

«2. Voteranno essi per la eliminazione dal partito di coloro che si trovano nelle condizioni contemplate dalla Il delle tesi di Lenin, comprese integralmente nel pro­gramma suddetto?».

 

Si trattava delle tesi di Lenin al I congresso della III Internazio­nale fondata in marzo a Mosca, che escludevano dalla nuova Internazio­nale i socialdemocratici e i negatori per principio della dittatura proleta­ria (9). Nello stesso numero è anticipato l'esito di un congresso basato non già sulla definizione delle basi programmatiche e quindi tattiche del partito, ma sulla solita analisi della situazione contingente (prognosi che il lettore potrà confrontare con quella opposta dell’«Ordine Nuovo») (10).

Rispose alle nostre domande il congresso. In esso eravamo pochi, ma la nostra battaglia fu spinta a fondo. L'oscena maggioranza che non ci venne fatto con nessun mezzo di sbloccare non poté né intimidirci né sopraffarci. Le fu detto quanto meritava!

 

 (1) Non risulta che il messaggio sia stato reso noto in Italia: il testo tedesco si legge in «Kommunistische Internationale», nr. 4/5 dell’agosto 1919, pagg. 134 segg.

 (2) Cfr. più oltre, pag. 71.

 (3) Intitolato Socialismo ed anarchia: l'orizzonte si rischiara.

 (4) Pour la bonne bouche. Allora come oggi (poi si dice di aver scoperto «vie nuove»!) ci si accusa, con aria di compatimento, di riflettere nel nostro estremismo le «condizioni locali» del solito Mezzogiorno tirato in ballo di volta in volta come covo di sovversivismo esagitato e di... feudalesimo. «Il Soviet» ribatte; «Le ragioni locali ci indurrebbero piuttosto alla partecipazione che alla astensione. Ma siccome per noi le ragioni locali sono zero dinanzi all’andamento generale del movimento, così siamo e restiamo astensionisti».

 (5) I due articoli sono intitolati rispettivamente: Il sistema di rappresentanza comu­nista e Formiamo i Soviet?

 (6) Del resto, non li autorizzava a ciò lo stesso «programma» massimalista­elezionista agitante lo spettro di un Noske italiano se mai non si fosse andati alle elezioni? Il punto è importante, perché nel tranello del «governo migliore» cadrà in futuro la stessa Internazionale con la sua parola d'ordine del «governo operaio», concepito quale favorevole trampolino al «balzo rivoluzionario». Noi non abbiamo aspettato il 1922 per denunciare l'antichissima tagliola!

 (7) La nota segnala, per finire, la proposta di sciopero nazionale di solidarietà per i metalmeccanici in lotta da quasi due mesi, che naturalmente la CGL non raccolse.

 (8) La simpatia perfino lirica di Turati per Nitti traspare da tutte le lettere del settembre 1919 nel Carteggio con la Kuliscioff, Torino, Einaudi 1949-1953, vol. I.

(9) Cfr. la Risoluzione sulla posizione verso le correnti socialiste e la conferenza dì Berna, dove Turati e C., sono ancora espressamente inclusi in quel «centro», la rottura organizzativa col quale - e a maggior ragione se, come sarebbe stato giusto, li si fosse riconosciuti parte integrante della destra - è «una necessità assoluta» (punto 2)

(10) Cfr. più oltre, pagg. 80-82.

 

4. - PARENTESI SU LENIN E IL PARTITO ITALIANO

 

Nel congresso e in tutti i decenni che lo seguirono si speculò sul fatto che Lenin era contro noi: non è forse vero che, anche prima del II congresso della Internazionale comunista, Lenin e i bolscevichi russi erano per la partecipazione alle elezioni? Ma, anzitutto, questa sarà pre­scritta ai partiti divenuti comunisti dopo le scissioni, e con un metodo che stava agli antipodi di quello indegno cui si predisponeva il Partito socialista italiano, falsa seziona della III Internazionale; in secondo luo­go, sia nella circolare dell’Esecutivo del Comintern su «Il parlamento e la lotta per i soviet» del 1° settembre 1919 (conosciuta assai più tar­di in Italia), sia nelle tesi su «Il comunismo, la lotta per la dittatura del proletariato e l'utilizzazione dei parlamenti» e relativa introduzione, dovute a Lenin, Bukharin e Trotsky e presentate al secondo congresso mondiale, l'impiego del «mezzo sussidiario» della tribuna elettorale e parlamentare era subordinato all’accettazione dei postulati ineludibili dell’antidemocrazia, dell’antiparlamentarismo, dell’instaurazione della dit­tatura proletaria esercitata dal partito di classe - insomma, di tutto ciò che per i bolscevichi definiva il partito comunista mondiale e che i massimalisti, nessuno escluso, rifiutavano di porre all’inizio del loro pro­gramma come presupposto di tutto il resto e come discriminante unica e definitiva dalla socialdemocrazia in tutte le sue varianti. Abbiamo quindi il diritto di dire che eravamo allora i soli ad essere sul terreno leninista e bolscevico per il 95 per cento delle posizioni teoriche e tattiche, mentre la divergenza sulle elezioni, anche se la riferiamo non all’Italia 1919 (dove era sacrosanta) ma alla generale politica mondiale comunista di cui diremo a lungo nel seguito (poco curandoci della provincia Italia, come non se ne curò mai troppo la Sinistra nei con­gressi di Mosca, che chiese fossero rivolti all’Europa e al mondo) poteva valere il 5. Solo l'avvenire ha potuto chiarire chi male poneva il non fondamentale problema.

Bisogna però aggiungere che, nelle lettere e negli scritti di Lenin in quel torno di tempo ricorre come nota dominante la conoscenza solo incompleta e sommaria degli sviluppi del movimento in Europa e soprattutto in Italia e Francia. Vi è una sua lettera a Serrati poco dopo la chiusura del congresso; redatta il 28 ottobre 1919, fu pubblicata sull’«Avanti!» solo il 5 dicembre 1919. Lenin scrive mentre ha notizie «molto scarse» su una «brillante vittoria del comunismo» a Bologna. Prima però di riportarne il testo, ricordiamo che nel famoso opuscolo sull’Estremismo (cui abbiamo dedicato lunghe chiose (1)) Lenin scriverà, pochi mesi dopo, di conoscere soltanto qualche numero del «Soviet»e di non approvarne il boicottaggio del parlamento, ma di dargli ragione nell’invocare la scissione dai socialdemocratici. L'ulteriore studio della politica italiana condurrà Mosca a scindersi dagli stessi massimalisti e da Serrati riconoscendo in essi il vero «centro» italico.

Già nel 1918 Lenin aveva espresso un serio ottimismo sulle notizie dall’Italia e, a parte severi giudizi su Turati, anche sul PSI. Il 30 agosto 1918: «Tutti i segni indicano che l'Austria e l'Italia sono alla vigilia della rivoluzione: la disgregazione del vecchio regime in questi Paesi avanza a rapidi passi». Il 22 ottobre egli si compiace dei tremendi fischi con cui gli operai italiani accolgono il traditore Gompers, e ci scherza: si direbbe che gli operai italiani permetterebbero di viaggiare in Italia solo a Lenin e a Trotsky!

Il 19 agosto 1919, scrivendo ai «compagni Serrati e Lazzari» e compiacendosi dell’avvenuta rottura del PSI con «l'Internazionale gialla di Berna, stato maggiore senza esercito», Lenin si rammarica di «conoscere pochissimo del vostro movimento», e conclude:

 

«La dittatura del proletariato e il sistema sovietico hanno già vinto moral­mente in tutto il mondo. Vittoria vera e definitiva, la quale, nonostante tutte le difficoltà, i fiumi di sangue, il terrore bianco della borghesia ecc., si affermerà in tutti i paesi del mondo. Abbasso il capitalismo! Abbasso la bugiarda democrazia borghese! Evviva la repubblica mondiale dei Soviet!». (La lettera apparve il 3 settembre sull’«Avanti! »).

 

Queste citazioni vanno oltre la bassa questione delle elezioni, ma valgono a smentire il gigantesco falso di Stalin. Lenin guardò sempre, fino alla sua morte, a come camminava per l'Europa e il mondo la miccia accesa in Russia; ogni diversa affermazione è menzogna infame! Diamo il testo della lettera posteriore al congresso di Bologna (2):

 

«Al compagno Serrati e ai comunisti italiani.

«Caro amico, le notizie che noi riceviamo dall’Italia sono molto scarse e ci perven­gono solo per mezzo di giornali stranieri non comunisti. Abbiamo saputo del vostro congresso di Bologna e della brillante vittoria del comunismo. Mi rallegro di tutto cuore con voi e con gli altri comunisti italiani e vi auguro un successo ancora più grande e migliore.

«L'esempio del Partito socialista italiano avrà grande influenza in tutto il mondo. Particolarmente la vostra decisione sulla partecipazione alle elezioni al parla­mento borghese mi sembra molto giusta. Spero che essa contribuisca a comporre i dissensi che sono sorti oggi, a questo proposito, tra i comunisti tedeschi.

«Non dubito che gli opportunisti aperti o mascherati - ed essi sono molti nel gruppo parlamentare socialista italiano! - tenteranno di annullare le decisioni del congresso di Bologna.

«La lotta contro queste tendenze non è ancora finita, ma la vittoria di Bologna vi renderà più facili altre vittorie.

«In rapporto con la situazione internazionale dell’Italia compiti molto diffi­cili stanno davanti al proletariato italiano...

«Può darsi che l'Inghilterra e la Francia, con l'appoggio della borghesia italiana, tenteranno di spingere il proletariato verso un insurrezione prematura per schiacciarlo più facilmente. Ma non riusciranno nei loro piani. L'eccellente lavoro dei comunisti italiani è sicura garanzia che essi riusciranno a conquistare al comu­nismo tutto il proletariato industriale ed agricolo ed anche i piccoli proprietari; allora, se il momento dell’azione sarà scelto bene relativamente alla situazione internazionale, la vittoria della dittatura del proletariato sarà definitiva. I successi del comunismo in Francia, in Inghilterra e in tutto il mondo ci garantiscono egualmente questa vittoria.

«Con saluti comunisti

                                                                      Mosca, 29 ottobre 1919».

 

Che la lettera sia ottimista sul congresso italiano e sul comunismo francese ed inglese non è da rimproverare al suo autore. Il rivoluzio­nario ha il dovere dell’ottimismo, e non va dimenticato che si era al massimo degli sforzi criminali di Francia e Inghilterra nel vano conato di strozzare la rivoluzione di Ottobre. Ma la lettera dice chiaro che occorreva tagliare via dal partito la destra, anche se solo più tardi Lenin vide che occorreva tagliare anche il centro serratiano - e inesorabil­mente lo volle.

Il Lenin che scrive non sa ancora quanto sia vana la demagogia dei massimalisti sparafucile che osano dire: Forse la insurrezione scop­pierà prima delle elezioni, e allora tanto meglio! Qui Lenin dà una lezione del come il marxista comunista calcola e sceglie il momento della insurrezione: come in Russia nel 1917, può essere questione di giorni e di ore! In Italia conveniva nel 1919 non fare passi falsi. Il brano grande della lettera è quello sulla possibile provocazione delle democrazie intesiste. Esso sembra dedicato al massimalismo bagolone di cui pure Lenin non conosceva i capolavori demagogici: l'eguale faci­lità a blaterare di «rivoluzione alle porte» e viceversa lasciare in balia di se stesso anche il minimo sussulto proletario; la prontezza a tutto meno che a occuparsi del pur ardente «proletariato agricolo», e il disprezzo da falsa sinistra per il «piccolo contadiname»; la perenne oscillazione fra l'elogio della violenza tutto-fare in un linguaggio che Turati non avrà torto di chiamare anarchico, e un fondamentale legalita­rismo e gradualismo precipitosamente riaffermato di fronte alle conse­guenze di una propaganda verbosamente - e solo verbosamente - «estremista». Sarà amaro per Lenin constatare che, pochi mesi dopo, Serrati e Treves si serviranno in commovente sintonia della sua lettera per dire: Vedete? Adelante Pedro, con juicio!, e riprendere la marcia a braccetto contro Lenin e, spudoratamente, in nome di... Lenin.

Dire Lenin è, bisogna ripeterlo, dire il partito bolscevico e l'Inter­nazionale. Che l'uno e l'altra sopravvalutassero il PSI in nome di un passato che l'aveva visto presente a Zimmerwald e Kienthal, e della pronta adesione al Comintern, poco conta (ma dov'erano i famosi «occhi di Mosca»?): conta che il C.C. del partito russo mandasse ai delegati riuniti a Bologna non solo e non tanto un appello in difesa della «for­tezza assediata», ma la riaffermazione della propria coscienza d'essere la «prima fortezza» della rivoluzione mondiale e della propria volontà di combattere, senza «perdersi di coraggio, per rimanere tale». Rileggia­mola, nella sua rude forma non di lacrimoso S.O.S., ma di autentica diana di battaglia (3):

«[...] Voi sapete, cari compagni, che è da due anni che noi lottiamo contro i nemici borghesi che ci circondano da tutte le parti. La nostra repubblica socialista è come una fortezza assediata. Invano da due anni noi aspettiamo il valido aiuto dei proletari di Europa, perché i governi borghesi di Europa, di America e del Giappone sono essi che armano ed organizzano la controrivoluzione russa. Ma il proletariato russo non si perde d'animo. Si difende contro i suoi nemici e crede che il giorno della solidarietà proletaria non sia lontano. Il proletariato russo sa bene che tutti gli operai del mondo sentono e intendono che la repubblica dei Soviet è una prima fortezza delle crescenti forze proletarie, e che fra breve sotto la bandiera rossa della Terza Internazionale si raccoglieranno milioni di uomini del lavoro, per la conquista del mondo, per la liberazione dalla schiavitù capitali­stica, per la Rivoluzione Socialista.

«Solo la Terza Internazionale, nella quale non trovano posto i rinnegati del socialismo, portavoce della borghesia, saprà guidare le masse alla lotta finale. Viva il proletariato italiano! Viva la Terza Internazionale! Viva la repubblica mondiale dei Soviet!

«P. il Comitato centrale del Partito comunista russo

                                                                      NIKOLA BUKHARIN».

 

La lettera di Lenin, come il Saluto ai comunisti italiani, francesi e tedeschi - rovente di sdegno per le controfigure «straniere» dei massimalisti di casa nostra -, e come il messaggio di Bukharin, alla data 1972 è anche documento contro lo stalinismo e il krusciovismo imbroglioni. Nella mente di Lenin e dei bolscevichi la dinamica della rivoluzione internazionale era ad ogni momento presente. Parigi e Londra avrebbero dovuto saltare forse prima di Berlino e Roma, e con esse la sottaciuta ma più nefanda di tutti America quacquera pacifista ed ipocrita, rovina allora e sempre dell’avanzata e rivoluzionaria Europa, questa Europa che da decenni nel suo amplesso si disonora e si è disono­rata fino a Mosca. Che contano, a questa scala, le porcherie parlamentari ieri dei Turati (non senza una più nobile coerenza), poi dei Togliatti e oggi dei Longo e C.?

 

(1) Cfr. il nostro volume La sinistra comunista in Italia sulla linea marxista di Lenin.

(2) Come tutte le precedenti citazioni, da Lenin, Sul movimento operaio italiano, Editori Riuniti, Roma 1962.

(3) Dall’«Avanti!» del 6.X.1919.

 

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