1- Chi arbitrerà le divergenze?

Il quesito era stato accennato verso la fine della Prima Parte del presente Rapporto[1], dedicata alla storia dello svolto nel partito russo in cui prevalse (1926) la dottrina della costruzione del socialismo in Russia prima e senza la rivoluzione proletaria in Europa; e con essa prevalse la corrente rappresentata da Stalin e, allora, da Bucharin e molti altri, poi passati a loro volta all'opposizione, e con essa caduti sotto le repressioni.

Se si ritiene che, fino alla morte di Lenin e dopo, il partito abbia seguito la giusta linea storica e politica costruita genialmente in lunghi decenni, e culminata nella totalitaria assunzione del potere dello Stato alla testa della classe dirigente e guidatrice del proletariato salariato, con l'alleanza della subordinata classe dei piccoli contadini, come passaggio alla dittatura del solo proletariato e alla trasformazione socialista dopo l'avvento della vittoria politica e sociale operaia in almeno gran parte dell'Europa borghese; se si ritiene tutto ciò, che cosa spiega - qui era, se non il dubbio, il quesito - come il partito, tanto ben preparato da una tradizione potente, si sia potuto spezzare pronunciandosi per la tesi disfattista, contro rivoluzionaria, del socialismo in un solo Paese, con tutto ciò che ne derivava per il Partito e, più ancora, per l'Internazionale?

Vi era una forza storica, un ente, un Corpo, che si potesse consultare per scongiurare l'errore e la catastrofe, dato che l'ingranaggio del partito bolscevico, e con esso quello dell'Internazionale Comunista, miseramente fallirono, anzi avallarono come linea ortodossa e rivoluzionaria quella che poi è rovinata fino al tradimento e al passaggio al nemico borghese?

Dove, in genere, si deve collocare la direzione, la guida suprema, dell'azione della classe lavoratrice nella lotta per il socialismo?

La questione era già costata altre crisi ed altre dure prove e sconfitte. Essa esiste fin dai difficili periodi in cui l'Europa progredita doveva essere ancora duramente scossa per far largo, sulle rovine degli istituti medioevali, alle nuove forme sociali capitalistiche, che non potevano prorompere rigogliose senza l'ossigeno delle libertà nazionali e giuridiche.

Essa spezzò ancora una volta l'Internazionale operaia dopo il 1871, con lo storico conflitto tra Marx e Bakunin, fra gli «autoritari» e i libertari, che in vasti ambienti e per lunghi decenni furono scambiati per l'ala più risoluta e più attiva del movimento delle classi lavoratrici.

Gli anarchici ammisero, senza capire di essere totalmente avvolti nelle nebbie delle ideologie borghesi, che ogni individuo potesse segnare da solo le vie della propria azione e, svincolandosi da ogni esterno controllo di forze, risolvere implicitamente anche il problema economico della sottrazione del prestatore di lavoro allo sfruttamento padronale, «continuando» la via borghese che aveva liberato la coscienza individuale dalla soggezione religiosa e il diritto personale dalle soggezioni giuridiche. Facendosi poi chiamare anarchici organizzatori o comunisti (sebbene, per non chiamare partito il loro insieme, appartenessero, in quella celebre polemica, all'Alleanza della democrazia socialista, terminologia ben degna dei peggiori odierni mestatori politici) ammisero le unioni operaie di difesa sindacale, e parlarono vagamente di future piccole «Comuni» locali, formatesi per spontanea, libera adesione degli uomini di un territorio, autonome fra loro e nel trattare l'una con l'altra.

Una classica polemica di Marx ed Engels stritolò questo sistema barcollante e dimostrò che la spontaneità e l'autonomia sono idee non aderenti al corso rivoluzionario proprio di una ben definita classe sociale, il quale si fonda sulla formazione di un partito unico e centrale sovrastante i gruppi di professione e di località e tale da dominarne i capricci locali e occasionali. Spiegò che non dalle coscienze ma dalle convergenti forze e violenze materiali sorge quel processo sommamente autoritario (Engels) che è una rivoluzione, e che mai questa smantellerà i vecchi istituti senza applicarvi un nuovo potere, uno Stato, una dittatura, una autorità[2].

2- Libertà e necessità

L'opposto dialettico dell'abusato termine di Libertà non è Autorità ma Necessità. La società umana non può sottrarsi alla necessità di piegarsi alle forze materiali dell'ambiente, se non, in limiti relativi, accettandole, conoscendole e prevedendo lo svolgersi dei loro processi. Anche nella concezione marxista vi è un traguardo ultimo, in cui la società umana si solleverà sul regno della necessità, ma lo farà come un tutto organico e coordinato, non come un ammasso corpuscolare di bizzosi, ribelli a checchessia e a chicchessia. Quel lontano passaggio della collettività umana, e non degli uomini singoli, alla Libertà si persegue non abbattendo alla spicciolata brandelli di «autorità», forme sorte non dal prepotere arbitrario di uomini o gruppetti, ma dalle leggi stesse dell'utile corso storico. Soggetti di una tale avanzata sono le classi in cui la società si divide, capaci di rendersi artefici del prorompere di forme sempre nuove. In ciò le rivoluzioni: in tutte, e anche in quella proletaria del tempo moderno, sono in lotta non l'autorità e la libertà, ma due autorità, l'una contro l'altra armate.

Per l'anarchico puro - del resto sempre più rispettabile di quello semipuro e intrigante di blocchi politici - Stalin, o chi oggi per lui, vale Lenin, e Lenin vale Kerensky o Nicola II, dopo una certa strizzatina d'occhio di simpatia verso il penultimo nominato. L'anarchico odia lo Stato, e non può capire che noi lo odiamo quanto lui e più di lui, mentre non accadrà mai che sia lui a fregarlo via.

Noi con Marx dal primo sorgere della teoria, già precisa e definita nel Manifesto, già dichiarata nei primi scritti filosofici di Marx e di Engels, già completa nella Miseria della Filosofia contro Proudhon (« non dite che vi può essere movimento sociale senza movimento politico»), crediamo dunque alla Necessità, che, nel senso dell'effetto dell'ambiente naturale e cosmico, è insorpassabile dalla nostra specie, e crediamo all'Autorità come sola via delle forme di sviluppo della specie stessa, a cui tuttavia poniamo un termine nel futuro, sotto determinate condizioni di sviluppo materiale delle forze produttive formatesi nello svolgersi della specie e del suo organizzarsi.

Dove collochiamo questa Autorità? Se si ricorre al fattore Autorità, al fattore Potere, al fattore Dittatura, bisogna pur dire dove rivolgersi per consultarlo e poi seguirne il detto - dato che l'azione sconnessa e senza questa guida centrale, cui si riportano i libertari, è per noi condannata ad una squallida sterilità.

Noi dobbiamo collegare l'Autorità con la classe, ed escluderne tutte le altre, quelle che già oggi posseggono un'altra Autorità, e quelle che con la classe dominante, nella forma di produzione vigente, sono direttamente legate. Quindi la Dittatura, dopo la vittoria politica, e l'Autorità interna nel Partito prima e dopo, evidentemente escludono le altre classi. L'Autorità non sorge dalla consultazione generale, dalla Democrazia assoluta; a tanto arrivano forse gli stessi anarchici, anche se esitano di fronte al problema: È giusto togliere al borghese, al proprietario, all'imprenditore, i «diritti dell'uomo»?

Noi dunque porremo alla consultazione un primo limite: essa comprenderà solo elementi della classe lavoratrice salariata.

3- Dalla democrazia all'operaismo

Non è un gran passo risolvere il problema della «formazione delle liste» con l'impiego di una statistica o di un'anagrafe da cui risulti la figura sociale o la qualifica professionale di ciascuno. Se infatti, entro una qualunque circoscrizione, sia essa luogo di lavoro o territorio di residenza o di contingente presenza fisica, interrogassimo i soli operai salariati, raccoglieremmo probabilmente una gamma di risultati reciprocamente contrastanti; e il trarne la verità arbitrale col solito gioco di una somma bruta di cifre non ci porterebbe lontano dai metodi insipidi della democrazia generica, che è poi la democrazia borghese, quella che è stata inventata (applicandola per la prima volta a tutti i viventi) proprio per poggiarvi sopra il potere della classe abbiente e capitalistica.

Sono cose molto diverse, per un lavoratore, comportarsi come un componente della società borghese o come un componente della classe proletaria. Agli esordi storici egli non ha fatto ancora i passi che lo condurranno a non prendere il potere da chi lo paga, come per secoli hanno fatto i servi delle famiglie nobiliari dominanti. In molti casi, se non nella maggior parte dei casi, era l'interesse economico a far rispondere il servo come conveniva al signore che lo manteneva. Nei primi tempi del capitalismo, economicamente il salariato della manifattura fu dal padrone imprenditore portato in alto dalla condizione del servo rurale o del servo di bottega e dello stesso piccolo contadino e piccolo artigiano: effetto dell'enorme potenzialità produttiva del lavoro associato rispetto a quello isolato.

L'operaio risponde come componente di una classe quando il corso storico lo ha legato alle sorti della sua classe in un lungo periodo e sopra vasti spazi, che comprendono le più diverse categorie professionali e i più lontani comprensori locali.

Una questione come quella posta più sopra non può dunque essere sciolta con canoni giuridici o interpellando corti costituzionali, ma solo in base alla storia dello svolgersi del modo di produzione capitalistico, anzi, più ancora: in base ad una prospettiva, stabilita in dottrina, di questo sviluppo futuro. Solo su tali basi gli antagonismi di classe diventano visibili e operanti: il problema dell'Autorità ce lo possiamo porre non in sede di filosofia morale, o della storia, ma solo dopo aver stabilito i termini (che ci hanno occupato nella seconda seduta e nella precedente puntata di questo resoconto) delle tappe che turbinosamente attraversa il decorso dell'economia capitalistica nel suo insieme mondiale.

L'errore, particolarmente insidioso, di cui ci dobbiamo liberare è che la bussola dell'antitesi di classe si orienti solo che la si collochi tra il singolo salariato e la sua azienda, nel momento della corresponsione della busta paga della settimana in corso. In generale la bussola non si orienterà o ci indicherà il sud conservatore: segnerà il nord rivoluzionario solo quando l'operaio di cui si tratta sarà assurto al legame con i suoi compagni di tutte le aziende e di tutti i paesi, con se stesso e con i suoi predecessori e successori di tempi passati e futuri, collocati in altri tornanti e vortici dell'infernale divenire «anarchico» dell'economia di azienda e di mercato, dove nulla è sicuro e protetto, quali che siano le vanterie democratiche ed assistenziali, per la comunità dei senza-riserva.

4 - Corso economico e rapporti di classe

Si dànno luoghi e tempi in cui il capitalismo favorisce gli interessi assoluti e relativi dei propri salariati, anche quando sono maggiori i saggi del suo prelievo sulla periodica «busta paga», sia a titolo di profitto per i soggetti della classe «riservista», sia anche a titolo di investimento privato o pubblico nella progrediente macchina produttiva. Non è, questa, una rara eccezione, e diverrebbe anche regola, se la forma capitalistica riuscisse a dimostrarci, magari nel corso di un'umana generazione, di poter scongiurare le guerre distruttive e le crisi generali di produzione e di occupazione, fasi in cui l'uragano economico travolge alla prima ventata i senza-riserva, i membri della classe operaia. La condanna che Marx pronunciò contro l'appropriazione del plusvalore non sorge (come egli dice con una delle sue frasi da gigante della scienza sociale) dalla anatomia delle classi, dalla revisione con mentalità da ragioniere di ogni busta paga. Non si tratta di una censura contabile, giuridica, egualitaria, giustizialistica, ma di una nuova e ciclopica costruzione della storia intera.

Questo punto essenziale può quindi essere meglio inteso dopo i risultati del nostro schizzo di storia del recente capitalismo, di cui, nella precedente seduta[3] è bene emersa la precarietà di tutte le conquiste, la labilità delle avanzate nella produzione dei beni, alle quali seguono, inesorabili, in periodi successivi le precipitose discese. Nel corso generale aumentano la potenza delle risorse tecniche e la conseguente produttività di beni e valori a parità di sforzo di lavoro. Queste risorse, in linea generale progredienti di decennio in decennio, cui fa eco il continuo inno a vittorie della scienza e della tecnica, dovrebbero facilitare le riprese, il richiamo al lavoro dei caduti nei vuoti dell'armata di riserva, la febbrile ricostruzione delle attrezzature distrutte e il riattivamento di quelle abbandonate. Ma una serie di fattori negativi ed opposti mette a dura prova il vantato maggior potenziale del moderno industrialismo, orgoglio dell'epoca e contrappeso invocato per le sue infamie, assurdità e follie.

La popolazione cresce rapidamente colmando gli stessi vuoti aperti dalle guerre prolungate. Crescono anche paurosamente i bisogni naturali e soprattutto quelli artificiali, che le crisi e la miseria esasperano. La produzione agricola non riesce a tenere il passo con quella industriale e, nell'economia mercantile, non è suscettibile di rapide riprese dopo i dissesti. I rapporti delle nazioni produttrici con i mercati di consumo sono ad ogni guerra rivoluzionati e sconvolti, e la lotta per riattivarli si fa con sperpero enorme di energie attive. Le crisi, che all'inizio del capitalismo colpivano un gruppo di nazioni dopo l'altro, tendono, in questa fase di assurdi legami finanziari al di sopra dei confini, a raggiungere sempre più l'intero mondo della produzione industriale. Il sistema coloniale imperiale si scontra ad ogni ripresa con maggiori urti e resistenze.

Se consideriamo le prime crisi dell'industria inglese descritte da Marx, che si ripercuotevano con frequenza decennale sulle nazioni subordinate, vediamo che una rapida fase di miseria equilibrava il blocco da sovraproduzione, e la ripresa si effettuava su un campo sempre più vasto. Man mano osserviamo che, dopo la prima guerra mondiale, nella grande crisi di interguerra scoppiata in America, e poi durante e dopo la seconda guerra, lo sconvolgimento dell'economia mondiale è stato sempre più profondo, più vasto, più lento ad esser superato, e gli sbalzi aziendali e nazionali di attivi e passivi sempre più ubriacanti.

5 - Miseria dei rischi crescenti

Se abbiamo ricordato tutto questo in sintesi, ed in rapporto alla dimostrazione stabilita sui dati economici, è stato per mostrare che la precarietà in cui il salariato vive nella società moderna non risulta tanto, oggi, dal suo tenor di vita nei periodi in cui la macchina della produzione marcia ed accelera, quanto dall'integrale delle sue condizioni di vita in lunghi periodi di corsa sull'orlo dell'abisso e di alternato precipitare in esso. Per quante impalcature di assistenza ed assicurazione la «civiltà» borghese possa costruire, è certo che in pochi giorni o settimane ogni protezione del salariato, senza proprietà e senza risparmio, sparisce se arrivano la nera crisi e la dilagante disoccupazione. Ben diversa la sorte delle classi «a riserva». A proposito dell'economia occidentale e della sua vantata progressione verso il benessere, la generale prosperità, porremo in evidenza i dati economici dell'inconsistenza delle difese per chi altro non possiede che il proprio impiego, il posto, l'americano job, e gli stessi attrezzi e le provviste raccolti nella sua abitazione (il cui possesso nelle più vantate forme non detiene che come un debito); tutti «beni» che una crisi economico-bancaria o di circolazione rapidamente volatilizzerà non appena gli sarà rifiutato l'unico suo cespite attivo, il tempo di lavoro: mentre il progresso tecnico, la produttività cresciuta, l'automazione, gli scavano sempre più profondo sotto i piedi un tale rischio[4].

Non ci spingiamo qui nella dimostrazione economica - da cui trarremo trionfanti le tesi di base del marxismo - ma ci limitiamo ad illustrare la scala, il campo, a cui si rendono sensibili i rischi del proletariato moderno. In cerchi ristretti e per periodi speciali, essi restano inavvertiti, come avvenne per il proletariato inglese dei tempi classici e come avviene per quello americano d'oggi. Abbiamo visto questi Stati capitalistici passare come salamandre attraverso le guerre. Abbiamo anche visto, però, come li sconvolse l'uragano del 1929-32 e come alla prosperity del nuovo paese-guida del capitalismo, gli Usa, si sia contrapposta dopo la seconda guerra mondiale la dura austerity dell'orgogliosa, scavalcata Albione. Questi paesi non vinceranno sempre le guerre, né il sistema economico-finanziario mondiale ripercuoterà sempre in misura massima sugli altri Stati - che, come quelli minori d'Europa, ancora soffrono dei disastri dell'ultimo conflitto - il gioco delle crisi di anarchia produttiva e distributiva.

Allo stato del fatti, è tuttavia difficile ottenere dai proletari di Gran Bretagna e d'America una sensibilità a questi rischi futuri, una reazione di classe. Facciamoli votare in un consiglio mondiale dei salariati, ed essi risponderanno purtuttavia a favore del sistema capitalista. Ce lo attestano la storia del tradunionismo e del laburismo inglese e quella delle organizzazioni sindacali d'America, oltranziste nei conformismo, e che non fanno da base a un partito politico appena distinto da quelli borghesi. E si dovrà rispondere al solito insidioso argomento: Lì non ci sono distanze sociali in aumento; non v'è lotta di classe; non v'è incertezza sulla vita della macchina economica.

6 - La classe si cerca altrove

Un anticipo di questo arduo punto fu la lotta della sinistra nell'Internazionale di Mosca contro la proposta di far entrare il microscopico partito comunista inglese nel Labour Party, pure sostenuta da Lenin come extrema ratio del calare dell'onda rivoluzionaria europea verso il tramonto, che per noi era certo fin dal 1920 e tuttavia non consigliava di cercare appoggi né dal lato socialdemocratico né da quello sindacalista-anarchico[5].

Nel Dialogato coi Morti abbiamo usato una potente citazione di Lenin su questo punto[6]: dove riposa l'autorità del movimento della classe proletaria? Egli non parlò né di numero, né di statistica conta, ma ricordò l'appoggio sulla tradizione e l'esperienza delle lotte rivoluzionarie nei più diversi paesi, l'utilizzazione delle lezioni di lotte operaie di tempi anche lontani. Il corpo dei lavoratori rivoluzionari di tutti i paesi, cui egli rimandava gli ansiosi di consultazioni decisorie di difficili problemi (come in quel punto illustrammo) non ha limiti né nel tempo né nello spazio; non distingue, nella sua base di classe, razze, nazioni, professioni. E (mostrammo) non può neppure distinguere generazioni: deve coi vivi ascoltare anche i morti, e, in un senso che ancora una volta rivendichiamo non mistico né letterario, i componenti della società destinata a presentare caratteristiche diverse e opposte a quelle del capitalismo, che purtroppo, giusta le parole di Lenin, e quelle da lui citate di Marx, stanno ancora stampate nel cuore e nella carne dei lavoratori attuali.

Questa unità vastissima di spazio e di tempo è un concetto dialetticamente opposto al fascio, al blocco immondo di tante vantate collettività che si coprono del nome di operaie (e mille volte peggio, di popolari). Si tratta di unità qualitativa, che raccoglie militanti di formazione uniforme e costante da tutti i lidi e da tutte le epoche; e l'organismo che risolve il problema non è che uno, il partito politico, il partito di classe, il partito a base internazionale. Il partito che ritorna nelle incessanti, fondamentali richieste di Marx, di Engels, di Lenin, di tutti combattenti del bolscevismo e della Terza Internazionale degli anni gloriosi.

L'appartenenza al partito non si stabilisce in base a dati statistici o ad un'anagrafe sociale: essa è in relazione al programma che il partito stesso si pone, non per un gruppo o per una provincia ma per il corso di tutto il mondo del capitalismo, di tutto il proletariato salariato in tutti i paesi.

Un andazzo che mai la sinistra marxista italiana e internazionale autentica ha gradito è quello di contrapporsi agli opportunisti (largamente abbarbicati dovunque alla bassa forma della concezione operaistica) con la denominazione di partito comunista operaio, ovvero dei lavoratori. Da quando col Manifesto siamo saliti dal movimento sociale al movimento politico, il partito si è aperto anche agli elementi non salariati che abbracciano la sua dottrina e le sue storiche finalità; e questo risultato ormai secolare non può essere né invertito né coperto da ipocrisie demagogiche.

Questi concetti abbiamo dovuto ristabilire di recente[7]di fronte alla deforme difesa del «Partito» e della sua funzione, che nel XX Congresso si è ostentato di fare nei riguardi di un solo partito, quello sovietico, mentre per gli altri Paesi si è apertamente annunciato di voler allargare ancora i fianchi di quelle barcacce oscene che si chiamano partiti « comunisti» (o che altro, e peggio) in Occidente, per disfare la storica scissione operata da Lenin in corrispondenza alla denuncia della degenerazione della Seconda Internazionale nella guerra 1914-18.

E ricordammo i punti base che garantiscono la vita interna del partito, non dalla sconfitta in campo aperto o dalla perdita di forza numerica, ma dalla peste opportunistica. Basterà appena farvi cenno.

 

7- Interna vita del partito di classe

Lenin - la citazione è spesso ricorsa negli ultimi dibattiti - era per la norma del «centralismo democratico». Nessun marxista può mettere menomamente in discussione l'esistenza del centralismo. Il partito non può esistere se si ammette che vari pezzi possano operare ciascuno per conto suo. Niente autonomie delle organizzazioni locali nel metodo politico. Queste sono vecchie lotte che già si condussero in seno ai partiti della II Internazionale, contro ad esempio l'autodecisione del gruppo parlamentare del partito nella sua manovra, contro il caso per caso per le sezioni locali o le federazioni, nei comuni e nelle province, contro l'azione caso per caso di membri del partito nelle varie organizzazioni economiche, e così via.

L'aggettivo democratico ammette che si decida nei congressi, dopo le organizzazioni di base, per conta dei voti. Ma basta la conta dei voti a stabilire che il centro obbedisce alla base e non viceversa? Ha ciò, per chi sa i nefasti dell'elettoralismo borghese, un qualche senso?

Ricorderemo appena le garanzie da noi tante volte proposte ed illustrate ancora nel Dialogato[8]. Dottrina: il Centro non ha facoltà di mutarla da quella stabilita, sin dalle origini, nei testi classici del movimento. Organizzazione: unica internazionalmente, non varia per aggregazioni o fusioni ma solo per ammissioni individuali; gli organizzati non possono stare in altro movimento. Tattica: le possibilità di manovra e di azione devono essere previste da decisioni dei congressi internazionali con un sistema chiuso. Alla base non si possono iniziare azioni non disposte dal centro: il centro non può inventare nuove tattiche e mosse, sotto pretesto di fatti nuovi.

Il legame tra base del partito e centro diviene una forma dialettica. Se il partito esercita la dittatura della classe nello Stato, e contro le classi contro cui lo Stato agisce, non vi è dittatura del centro del partito sulla base. La dittatura non si nega con una democrazia meccanica interna formale, ma col rispetto di quei legami dialettici.

Ad un certo punto nell'Internazionale comunista i rapporti si capovolsero: lo Stato russo comandava sul partito russo, il partito sull'Internazionale. La sinistra chiese che si rovesciasse questa piramide[9].

, Non seguimmo i trotskisti e gli anarcoidi quando fecero della lotta contro la degenerazione della rivoluzione russa una questione di consultazione di basi, di democrazia operaia o operaio-contadina, di democrazia di partito. Queste formule rimpicciolivano il problema.

Sulla questione dell'autorità generale cui il comunismo rivoluzionario deve far capo, noi ritorniamo a trovare i criteri nell'analisi economica, sociale e storica. Non è possibile far votare morti e vivi e non ancora nati. Mentre, nella originale dialettica dell'organo partito di classe, una simile operazione diviene possibile, reale e feconda, seppure in una dura, lunga strada di prove e di lotte tremende.

 

8 - Le meschine comunità periferiche

Sulla sua possente strada che cerca e scopre la via unitaria delle forme di vita di relazione della specie umana in un corso grandioso e mondiale, più e più volte il socialismo si è trovato e si trova davanti lo stesso nemico: la frammentazione, la molecolarizzazione, la rottura in piccole isole dei complessi sociali e della loro vita. Questi tentativi si sono scritti in controsenso alla stessa grandezza della rivoluzione capitalistica borghese, che nell'epica sua battaglia contro la minutaglia salita dal medioevo costruì le macchine storiche unitarie che si chiamarono Stati nazionali.

Il marxismo denunziò la pretesa di universalità di queste formazioni della storia, e la loro menzognera conquista di una unità centrale, non tagliandole con barriere verticali tra province, regioni e comuni, ma tagliando, orizzontalmente, la loro costruzione sul territorio governato; ponendo la classe che stava sotto il peso sociale contro quella sovrastante che teneva nel pugno le leve centrali di tutto il sistema. Non si propose di strappare a questa brandelli del suo dominio di classe; ma di toglierle tutto il blocco insito nel nuovo modo di produzione associata in masse, che faceva ruotare in un moto unico la produzione e la distribuzione dei beni e dei servizi, sempre più generali e complessi.

Associò tutti i lavoratori della nazione in un blocco tanto unico e stretto al suo centro, quanto quello dello Stato oppressore, e andò assai oltre, cercando di fare dei partiti proletari di tutti i paesi un corpo unico centralizzato.

Mille ideologie forcaiole si posero contro questa unica via del cammino rivoluzionario, questo unico mezzo per uscire dalle tenaglie del sistema borghese internazionale. Alla base di esse sta la solita ubbia della libertà, sciocca ombra del fondamentale inganno dell'ideologia capitalista, che non osando vantarsi se non copertamente di avere uniti i suoi già dispersi governanti, si vanta invece di averli uno per uno sciolti da secolari legami e pressioni.

La libidine del libero convellersi capriccioso dell'individuo, e del suo vivere per sé, che tutte le fallaci filosofie gli propinarono trattandolo da spirito o da carne, non da specie e da umanità, si tradusse nella miopia, tra le altre, del limite familiare, poi di quello locale e campanilistico. Ad un certo momento si cercò di cambiare nomi e connotati alla teoria proletaria chiamandola non più socialismo, ma comunalismo. Al solito, ciò pretendeva di essere un passo a sinistra; e se ne stava innamorando uno dei tanti che ebbero la sventura di scambiare se stessi per marxisti rivoluzionari: nella fattispecie, si trattava della meteora socialista dal nome di Benito Mussolini, al quale fu il caso di dare il primo di numerosi tratti di... corda.

9 - Sfilata di cordiali nemicissimi

La cronaca della politica italiana si tesse di una catena di esempi di queste idiozie spezzettanti, incardinate sui gruppetti spontanei e le piccole cerchie di locali interessucci, che si volevano tirare fuori o si illudevano di tirarsi fuori dalla tempesta della storia nazionale e mondiale con questo espediente indegno della grande borghesia quanto del proletariato, e proprio delle malfamate classi piccolo-borghesi, in Italia più che altrove patite di individualismo, di localismo, di libertarismo e di anarchia nel cianciare, ma nella carne della loro carne proclivi soltanto al cucciare e servire sotto la frusta di tutti i poteri.

Le edizioni di questa mania[10] sono state inesauste, tutte ruotando intorno ad un associazionismo in gruppi «liberi », «spontanei », «autonomi », in quanto chiusi in orizzonti angusti, imbelli e conformisti ad ogni conservazione.

Che cosa disse di diverso il mazzinianismo nelle sue formulazioni economiche e sociali davvero bambine, preconizzando le cooperative produttrici, se pure politicamente la sua repubblica passò per unitaria contro la versione federale di Cattaneo? Ma in effetti, come mostra il caso svizzero, nella repubblica unitaria borghese il piccolo gruppo è meno legato che in quella federale e sotto i famosi governetti cantonali.

Che di diverso ci hanno cucinato i liberali-radicali di sinistra sguaiatamente dilagati alle cricche e camorre locali dal classico unitarismo statale di Cavour all'inarrivabile giolittismo, forma degenere di un Piemonte soggiogatore di staterelli feudali, e modello nostalgico del comunismo degli odierni « ordinovisti », che scambiano, a loro volta, l'economia comunista integrale con un gioco di libere aziende locali di produzione?

E che altro hanno inventato i cattolici riformatori e demosociali di Sturzo, del partito popolare, e della democrazia cristiana, e in genere il movimento della liberazione nazionale dal fascismo, con le sue parodistiche autonomie regionali, suscettibili d'un mangia-mangia ben più succhione di quello diffamato dei centralizzati e monopartitistici fascisti?

Perfino il movimento, subito scomparso, del dannunzianesimo fiumano credette di imitare le forme sovietiche con un simile corporativismo di mestiere, non sovrastato da una forza politica centrale unica.

Tutte queste smanie di campanile e di provincia sono state sempre corteggiate dal sindacalismo del tempo soreliano e dall'anarchismo dei vari gruppi, che hanno sempre creduto che al capitale e al governo del capitale si potessero strappare dalle grinfie le vittime ad una ad una, non recidendone le canne bramose con un colpo solo.

Torino vide già il disdoro per il Partito comunista di Livorno, cui aveva dato poderosi contributi con le azioni disfattiste durante la guerra e con la fiorente frazione antiparlamentare in seno al partito socialista del 1919, nella versione aziendista e frammentista del movimento dei consigli, che induceva gli operai a lasciare il partito, e anche a lasciar vivere lo Stato di Roma, pur di prendere in controllo e gestione una per una le aziende industriali[11].

Oggi, nel risibile periodo delle elezioni comunali, vera sbornia drogata del localismo italiota, affiora un altro movimento, che si chiama «Comunità»[12] e sogna basi territoriali appena intercomunali, circondariali forse, per fondare una fantasima di società nuova.

In tutte queste forme la caratteristica è sempre la stessa; vi accedono i lavoratori proletari, contadini, coloni, mezzadri, bottegai, bolsi intellettuali di discipline serve dell'affarismo capitalista (di questo, esempio precipuo è la chiassosa pseudo-scienza urbanistica, che crede che le sedi edilizie abbiano preceduto le forme sociali, e non l'opposto) e autentici industriali nella veste ipocrita di benefattori paternalisti.

Forse lungamente ancora le debolezze democratiche liberali e anarchicheggianti, che infestano questa nazione, ci ammorberanno da ogni lato. Ma noi, ben distinti da tuttaquesta genia, le getteremo contro la formula con cui lottammo durante e dopo la prima guerra mondiale, e accettando lieti la sfida alternante della dittatura nera. Unico partito che ha per-motto: chi non è con noi è- contro di noi; unico potere da conquistare e maneggiare alla stessa stregua contro tutte le forze opposte, contro tutti i dissensi, anche ideali.

 

* Terza parte del resoconto alla riunione generale del Partito, Torino, 19·20 maggio 1956, intitolato La Russia nella grande rivoluzione e nella società contemporanea e integralmente riprodotto in Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, cit., pp. 689-742.

[1] Ripiegamento e tramonto della rivoluzione bolscevica, ivi, pp. 706-707.

[2] Cfr. F. Engels, Dell'autorità, 1874, in K. Marx - F. Engels, Scritti italiani, Milano 1955, pp. 93-104 e, per l'insieme della polemica, il già citato K. Marx e F. Engels, Critica dell'anarchismo, ed. Einaudi, 1972.

[3] Intitolata La mentita opposizione tra le forme sociali russe e occidentali, reperibile alle pp. 709-727 di Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, cit.: cfr. in particolare L paragrafi 13-17

[4] Si veda, sul tema di questo e del precedente paragrafo, La rivoluzione anticapitalista occidentale, Il' parte del rapporto alla riunione di Genova del 26 aprile 1953, poi ripubblicata nell'opuscolo Sul filo del tempo. Contributi all'organica ripresentazione storica della teoria rivoluzionaria marxista, pp. 32-36 (ora disponibile in edizione fotostatica 1990). Cfr. inoltre, con particolare riferimento alla «teoria del benessere», Traiettoria e catastrofe della forma capitalistica nella classica monolitica costruzione teorica del marxismo, resoconto del rapporto alla riunione di Piombino del 21-22 settembre 1957 nei nr. 19-20/1957 de «Il programma comunista» (ora in A. Bordiga, Economia marxista ed economia controrivoluzionaria, ed. Iskra, Milano 1976, pp. 159-214).

[5] Cfr. il II volume della nostra Storia della Sinistra Comunista dedicato al biennio 1919-1920 e intitolato Dal Congresso di Bologna del Psi al II Congresso dell'Internazionale Comunista, Milano, 1972, pp. 648-654.

[6] Dialogato coi Morti, p. 112: «La classe operaia… nella sua lotta in tutto il mondo ... necessita di un'autorità ... nella misura in cui il giovane operaio necessita dell'esperienza dei combattenti più anziani contro l'oppressione e lo sfruttamento ... dei combattenti che hanno preso parte a molti scioperi e a diverse rivoluzioni, che hanno acquistato saggezza grazie alle tradizioni rivoluzionarie, ed hanno quindi un'ampia visione politica. L'autorità della lotta mondiale del proletariato è necessaria agli operai di ogni paese... Il corpo collettivo degli operai di ogni paese che conducono direttamente la lotta sarà sempre la massima autorità su tutte le questioni». E il Dialogato commenta: «Il centro di questo passo sono i concetti di tempo e di spazio portati all'estensione massima: tradizione storica della lotta, e campo internazionale di essa. Noi aggiungiamo alla tradizione il futuro, il programma della lotta di domani... Chi ciancia ora di poteri e di autorità affidati a un capo, a un comitato direttivo, ad una consultazione di contingenti corpi in contingenti territori? Ogni decisione sarà per noi buona, se starà nelle linee di quell'ampia e mondiale visione. Può coglierla un occhio solo, o milioni di occhi. «Questa teoria eressero Marx ed Engels, da quando spiegarono contro i libertari in quale senso sono autoritari i processi delle rivoluzioni di classe, in cui l'individuo sparisce, come quantité négligeable, con i suoi capricci di autonomia, ma non si subordina a un capo, a un eroe, o ad una gerarchia di passati istituti» (pp. 112-113).

[7] Appunto nel Dialogato coi morti, cit., pp. 112-115.

[8] S'intende il Dialogato coi Morti, cit., pp. 114-115.

[9] Così A. Bordiga nel suo discorso all'Esecutivo Allargato del Comintern del febbraio-marzo 1926. Cfr. il Protokoll der Erweiterten Exekutive der Kommunistischen Internationale, Amburgo 1926, Reprint Feltrinelli, Milano 1967, pp. 122-144 e, in particolare, p. 139.

[10] II fenomeno è oggi più che mai internazionale; il crollo dello stalinismo e della sua variante titoista lo ha reso di ancor più morbosa attualità in quella che si chiamava URSS e più tragicamente, nei Balcani; ma sue «effiorescenze» si registrano un po' dovunque, non solo nell'ex blocco dell'Est

[11] Per la nostra cntica del gruppo torinese dell'Ordine Nuovo sin dalla sua fondazione, si vedano il I voI. della nostra Storia della Sinistra Comunista, Reprint 1991, pp. 173-174, ma soprattutto il II vol., ediz. I1 Programma Comunista, 1972, pp. 187-294.

[12] Il movimento omonimo fondato ad Ivrea da Adriano Olivetti. E che dire, oggi 1993-1994, delle varie Leghe federaliste?

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