Esplode la disperazione. Ad agosto 2012, è esplosa la protesta dei minatori della miniera di carbone Carbosulcis di Nuraxi Figus, nel Sulcis, Sardegna del Sud Ovest. Poco dopo, hanno ripreso ad agitarsi gli operai della fabbrica dell’Alcoa (Aluminum Company of America) di Portovesme, a pochi passi da Nuraxi Figus. Il Sulcis è la provincia più povera d’Italia: 30mila occupati su 130mila abitanti, 8mila posti persi in tre anni. Alla Carbosulcis lavorano più di 500 proletari, mentre con la chiusura di Alcoa si perderanno altri 2mila posti.

Ma il Sulcis è anche una delle provincie più inquinate, avvelenate e malsane d’Italia: e la causa di questo inquinamento drammatico è proprio l’attività mineraria e metallurgica. Lettera morta da anni è un progetto di messa in sicurezza e rivalorizzazione delle miniere, che restano così abbandonate con i loro veleni: ma sono pur sempre in relazione con l’esterno, perché i veleni non sono relegati nei pozzi, entrano nell’ambiente. Basti pensare alle falde acquifere e ai fiumi sotterranei. Superando poi l’altopiano dove è posta la miniera di Nuraxi Figus e dirigendosi verso il mare, ci si affaccia sulla costa di Portovesme, e qui ci accoglie un panorama industriale: tra i fumi delle ciminiere, il versante degrada tristemente verso un’ampia laguna di fanghi rossi con diga a mare – gli scarti della lavorazione dell’alluminio. L’aria e il sangue sono ricchi di piombo. E’ una storia molto simile a tante altre, come ad esempio l’acciaieria di Taranto. I proletari possono solo “scegliere” se morire di fame o avvelenati.

 

 

 

 

 

Breve storia della Carbosulcis e di Alcoa. Prima di venire alle vicende odierne, diamo pochi cenni sul passato di Carbosulcis e Alcoa. In duecento anni di storia sarda, il carbone del Sulcis ha avuto un solo grande momento di gloria: era il 1935, e il regime fascista annaspava sotto i colpi della “perfida Albione” e delle sue sanzioni economiche. Nonostante lo zolfo, il basso potere calorifico e le pietre, la Sardegna “offriva alla patria” la risorsa energetica del proprio sottosuolo: carbone da autarchia. La fine della guerra gettò l’industria mineraria in una grave crisi. Gli enti pubblici che via via erano obbligati dallo Stato a rilevare le miniere dovevano fare i conti con la bassa produttività, la poca qualità, gli alti costi di estrazione. Il progetto dell’Enel di produrre energia con il carbone dura fino al 1971, perché l'energia che si ricava in questo modo è troppo cara. Dall'Enel, l'azienda passa all'Egam, poi all'Eni nel 1978. Nel 1985, lo Stato mette 512 miliardi che non portano a niente, perché fino al 1993 non si estrae neanche un chilo di carbone. L'Eni abbandona la partita. Se pure negli anni ‘70 Enel ed Eni erano enti pubblici abituati a una certa disinvoltura nella spesa, non potevano certo non vedere che sul mercato internazionale si acquistava un ottimo carbone a un prezzo di molto inferiore a quello del costo di estrazione del carbone del Sulcis. Nel 1994, le proteste dei 950 minatori in cassa integrazione convincono il governo a emanare un decreto che decide per l’ennesima volta la riapertura delle miniere, la riapertura degli impianti, lo stanziamento di 420 miliardi di lire a fondo perduto e l'obbligo per l'Enel di comprare l'elettricità dal Sulcis, pagandola tre volte il prezzo di mercato: l'Enel si rifà aumentando il prezzo nelle bollette. Nel 1996, la Carbosulcis viene acquisita dalla regione Sardegna e, sotto la sua gestione, accumula un passivo di 16 milioni (la Regione ha pagato 30 milioni in buste paga). 

 

 

 

 

 

Quanto all’Alcoa, la sua è una classica storia di profitti privati e perdite pubbliche, di aiuti di Stato e di privatizzazioni che alla fine presentano il conto – come nel caso dell’Ilva. Anche lo stabilimento di Portovesme e quello di Fusina, in Veneto, vengono dalle partecipazioni pubbliche: si chiamavano Alumix e appartenevano all’Efim, struttura nata per guidare le industrie meccaniche, poi diventato un carrozzone con perdite miliardarie. E così, con la sua liquidazione nel 1995, la produzione di alluminio passa alla multinazionale statunitense Alcoa, terzo gruppo mondiale, un colosso da 61mila dipendenti nel 2011, 25 miliardi di dollari di fatturato, 614 milioni di utili nel 2011 contro i 262 del 2010. Dopo aver goduto, fin dal 1995, di un ingente sconto sul costo dell’energia da parte dello Stato italiano, fatto passare per 10 anni come incentivo alla privatizzazione, l'Alcoa, nel 2008, torna alla carica lamentando l'alto costo della produzione sarda, proprio a causa dell’alto costo dell'energia. Le richieste della multinazionale si arenano dopo la delibera della Commissione europea del 19/11/2009 che bolla gli incentivi, come un aiuto dello Stato Italiano, vietato dalle regole sovranazionali europee. La Commissione valuta per difetto in tre miliardi di euro gli aiuti statali a favore dell’Alcoa. L’Unione Europea evidenzia anche che i costi di questi aiuti sono stati recuperati attraverso l'aumento delle bollette dell'energia elettrica [1]. Il costo dell’alluminio è diminuito a livello mondiale nonostante sia aumentato il costo della materia prima: occorre aumentare la produttività! Quindi l’Alcoa, in nome della produttività, del risparmio sulla bolletta energetica e della ricerca di manodopera a basso costo, avvia la messa in riposo di tutti gli stabilimenti europei, e si trasferisce in Arabia Saudita, con un investimento da 11 miliardi.

 

 

 

 

 

Gli aiuti di Stato. L'elemento comune a queste due vertenze è rappresentato dalla leva del Debito di Stato e dunque dall’intervento statale massiccio, sotto l'aperta minaccia dei licenziamenti e della chiusura delle fabbriche da parte delle aziende. La nostra critica all'uso capitalistico del debito pubblico è antica e si discosta radicalmente dalle posizioni borghesi [2]: per noi, non è affatto una sorpresa l’intervento della Stato in economia, anche da parte dei pretesi campioni del liberismo. L’indebitamento pubblico è uno strumento necessario al capitale: fra le varie funzioni cui assolve, vi è la necessaria centralizzazione dei piccoli capitali che, altrimenti polverizzati, rimarrebbero improduttivi. Di tale indebitamento hanno usufruito a piene mani la borghesia, le mezze classi e l’aristocrazia operaia, e finché l’economia era in fase di crescita post bellica nessuno si è lamentato. Ora, in una fase di sovrapproduzione di merci e capitali, tale indebitamento, da strumento di accumulazione allargata e accelerata del capitale, è diventato un freno: ecco che allora tutti lo dipingono come il problema principale, una vergogna da eliminare e da pagare… scaricandone i costi sui proletari, ovviamente!

L’indebitamento pubblico è servito anche a finanziare gli ammortizzatori sociali, ma lo Stato, al tempo, non li ha concessi per carità e misericordia: il sistema di produzione capitalistico associa l’aumento continuo della produttività e l’intensificazione del lavoro per i proletari occupati alla crescente disoccupazione. La borghesia sa bene che deve tenere a bada le tensioni sociali che si scatenerebbero spontaneamente da situazioni di vita troppo disperate, ed è per questo che, nei limiti delle possibilità concesse dalla congiuntura economica e in base ai rapporti di forza con il proletariato, concede aiuti anche sotto forma di sovvenzioni a imprese non produttive. In tempi di crisi nera, però, oltre a chiudere i rubinetti, si cerca di far ricadere sul proletariato la colpa di decenni di assistenzialismo, che hanno generato anche clientele politiche all’interno dei partiti della sinistra borghese e piccolo borghese e dei sindacati.

Anche nel Sulcis, il passato recente è una storia di enti di Stato, ereditati dal fascismo, e di soldi pubblici convertiti in ammortizzatori sociali per cercare di disinnescare la bomba sociale che sarebbe scoppiata se tutti i proletari licenziati fossero caduti nell’esercito di riserva dei disoccupati in una tornata sola.

 

Oggi. I minatori si sono asserragliati a 400 metri di profondità per sostenere il progetto aziendale di stoccaggio dell’anidride carbonica in miniera. Il progetto è stato bocciato dall’Unione europea e non ha il sostegno del governo. Questo il motivo contingente della protesta. Si tratterebbe di un progetto sperimentale atto a valutare gli impatti di una tecnologia ancora in fase di studio e con un costo molto elevato. Non sarebbe quindi la soluzione al problema del caro-energia nel Sulcis. L’azienda ha anche presentato un progetto per l’estrazione di metano dal sottosuolo attraverso l’immissione di anidride carbonica ad alta pressione: tecnologia che i geologi accusano di provocare il fracking, scosse di assestamento del terreno con conseguente liberazione in aria dell’anidride carbonica. Come abbiamo detto sopra, l’Enel ha l’obbligo di comprare il carbone dalla Carbosulcis, ma non quello di usarlo! Il carbone estratto e pagato, infatti, viene ritirato solo in minima parte dall’Enel, che invece brucia nella sua centrale prevalentemente carbone cinese. L’Enel paga più di 40 euro per ogni tonnellata di carbone del Sulcis, mentre quello cinese costa 8 euro a tonnellata. Ma l’Enel paga alla Carbosulcis 80 euro a tonnellata per immettere in miniera le ceneri e i residui di combustione della sua centrale. Ecco in cosa consiste il business della miniera: discarica di rifiuti industriali altamente inquinanti.

Ma si minaccia la chiusura entro la fine del 2012. I minatori sono esasperati: “Andremo fino in fondo”, “Abbiamo dell’esplosivo, e lo useremo”. I giornalisti scrivono di “toni duri”: ma, ahinoi!, sono toni duri contro se stessi! Minacciano di andare fino in fondo… ma poi precisano che sono disposti pure ad ammazzarsi pur di conservare il “posto di lavoro”, e proprio quel particolare posto di lavoro, a cui si sentono attaccati. Lo stesso operaio che difende appassionatamente il progetto aziendale di stoccaggio della CO2 in miniera come la soluzione ai problemi dei minatori della Carbosulcis è poi quello che, in un momento di disperazione, arriva a tagliarsi le vene davanti ai giornalisti. E’ vero: c’è un primo tentativo da parte dei minatori di mettere mano all’esplosivo, ma vengono subito fermati dai rappresentanti sindacali, che dichiarano: “Al momento governiamo la situazione, ma non siamo in grado di prevedere come possa evolvere”. Pompieri! Poi, alcuni minatori si asserragliano nella santabarbara della miniera, con 691 chili di esplosivo e 1220 detonatori: minacciano di usarli… contro loro stessi! Sono orgogliosi di ricevere la solidarietà del capo dello Stato e avviano con lui uno scambio di lettere, come se questo potesse servire a dare una svolta alla vertenza: "I minatori Carbosulcis e le loro famiglie, confortati e raggiunti dal Suo sensibile interessamento verso questa causa che coinvolge l'intero territorio del Popolo sardo, in un momento di grande scoramento e disperazione, si esprimono unitariamente nel più sentito e profondo ringraziamento. A Lei rivolgiamo un sentito appello affinché venga perseguita l'unica soluzione possibile con l'attuazione del decreto del Presidente della Repubblica del 28 gennaio 1994, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.56 del 9/3/94, che sancisce il finanziamento e la realizzazione del sistema integrato Miniera-Centrale. In fiduciosa attesa tutti noi Le rivogliamo un grazie di cuore per quanto farà". Una nostra lettrice ha partecipato all’assemblea e ne è rimasta delusa per il modo in cui era pilotata dai sindacati, con gli operai che imploravano la comprensione del “buono Stato”.

 

 

 

 

 

Che cosa vogliono i minatori, quali sono i loro obiettivi? Una centrale elettrica alimentata dal carbone del Sulcis, da considerare “energia a emissioni zero” per il fatto che la CO2 prodotta dalla combustione sarebbe immagazzinata nelle gallerie della miniera. La protesta si conclude quando i minatori ottengono dal tavolo ministeriale una dilazione ai tempi di chiusura.

 

 

 

 

 

Che cosa vogliono i lavoratori dell’Alcoa, quali sono i loro obiettivi? Un piano energetico che renda competitive le loro aziende, energia a basso costo. E’ da decenni che la vertenza Alcoa si trascina dentro questa prospettiva puramente aziendale. Tre operai si sono asserragliati su un serbatoio a settanta metri di altezza. Hanno detto di essere pronti anche a dare la vita. Hanno manifestato a Roma scontrandosi con la polizia, e hanno dichiarato di essere anche disposti a prendere le manganellate (e le hanno prese, a Cagliari, a fine settembre) pur di ottenere un tavolo di trattativa a palazzo Chigi. Molto clamore ha suscitato la loro ostilità nei confronti del responsabile del lavoro del PD, Fassina. Ma questa delusione nei confronti della politica “di sinistra” da cui si sentono traditi è più che altro dovuta alla delusione per gli esiti della privatizzazione, voluta anche dal PD, e al fatto che neanche quando il PD era al governo l’azienda ha ottenuto energia a basso costo. Quando un falso ordigno è stato trovato nei pressi dello stabilimento, gli operai si sono subito dissociati da qualsiasi atto violento, per poi andare a Roma e subire la violenza dello Stato, attraverso il suo braccio sbirresco. A Roma, alcuni operai hanno dato fuoco alla bandiera italiana, ma hanno poi dovuto subire i rimproveri dei compagni di lavoro. Dalla trasferta nella capitale i lavoratori sono rientrati con il magro “risultato” di un rallentamento nella chiusura dell’impianto: ma la promessa viene subito disattesa dall’azienda. Che fanno allora i sindacalisti? Si barricano anche loro sul serbatoio d’acqua a settanta metri d’altezza! L’assemblea li invita a scendere e intraprendere azioni di lotta più efficaci. A Cagliari, si tiene un incontro su ordine e sicurezza voluto dal Ministero degli interni, in cui si decide di monitorare le diverse vertenze che potrebbero alimentare la tensione sociale: purtroppo, il viceministro ha ragione quando esprime tutta la propria fiducia per la maturità e il senso di responsabilità dimostrati dai lavoratori. I sindacalisti dicono: “Ormai anche noi facciamo fatica a calmare gli animi”. Viceministro e sindacati sperano che gli operai non si facciano infiltrare da elementi esterni e provocatori, agitatori e sovversivi, che vorrebbero strappare i proletari alla loro pretesa “autonomia”: ossia, la loro attuale sottomissione all’ideologia dominante.

 

Il proletariato deve ripartire da zero. Ha senso nasconderselo?  Gli diamo forse una mano, tacendo questo fatto o edulcorandolo? Dobbiamo aiutare la nostra classe a liberarsi dalla morsa soporifera e inebetente in cui la stringono, a difesa dell’economia nazionale, tutte le forze politiche borghesi e piccoloborghesi dell’arco parlamentare e le direzioni sindacali, agenti della borghesia in seno al proletariato. In positivo, sul da farsi, non abbiamo nulla da aggiungere a quanto diciamo da tempo: possiamo solo ribadire che anche queste due vertenze dimostrano la necessità dei nostri obiettivi e dei nostri metodi di lotta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Che cosa chiedono i sindacati e i partiti opportunisti? Un nuovo piano industriale, un tavolo di trattativa a Palazzo Chigi. Noi diciamo agli operai dell’Alcoa e ai minatori della Carbosulcis che devono lottare per il salario integrale ai licenziati e ai disoccupati, ma che non lo otterranno mai con gli appelli al buon cuore della borghesia e del suo Stato. Possono ottenerlo solo colpendo i padroni e il loro Stato nel loro punto sensibile, il profitto: bloccando la produzione e i nodi di smercio. Perché dunque non bloccare la più importante realtà produttiva della Sardegna, la raffineria Saras, e chiedere la solidarietà degli operai che ci lavorano? Perché non unirsi a tutte le altre vertenze e bloccare il Porto canale o le grandi vie di comunicazione? Noi non pensiamo che sia facile perseguire questi obiettivi e organizzarsi attraverso questi metodi di lotta. Ma potete sperimentare sulla vostra pelle dove vi ha condotto la politica e la prassi delle vie facili, proposta da sindacati e partiti della sinistra borghese e piccolo borghese.

Oggi, nuove generazioni si affacciano sulla scena e su di loro ha sempre meno presa la cappa di piombo calata sulle spalle dei proletari, nel secondo dopoguerra, dalla borghesia e dai suoi servi, grazie alla prosperità economica e con il ricorso al debito pubblico: a meno di nuove misure d’interventismo statale o di militarizzazione dell’economia, quel periodo è superato. Queste nuove generazioni sperimentano sulla propria pelle il ritorno alla condizione di senza riserve, la propria antitesi rispetto agli interessi aziendali e il vero ruolo dello Stato. Noi facciamo affidamento su queste nuove generazioni più combattive e in esse riponiamo le speranze per il ritorno alla lotta di classe. Sono loro che devono finalmente rifiutare i sacrifici “in nome del bene dell’azienda e dell’economia nazionale” e organizzarsi in maniera indipendente dai sindacati e partiti opportunisti, per difendere finalmente i propri interessi. Noi saremo al loro fianco nel lungo e tortuoso cammino della ripresa classista, perché è solo con la lotta, l’unità e l’organizzazione che possiamo sperare di difenderci dall’attacco del capitale.

 


[1] Nel 2004 e nel 2005, il governo italiano ha prorogato gli aiuti, che la Commissione giudica “illegittimi”: “La tariffa contestata – scrive la Commissione – è sovvenzionata mediante un pagamento in contanti da parte della Cassa conguaglio che è un ente pubblico […] Le risorse necessarie sono raccolte mediante un prelievo parafiscale applicato alla generalità delle utenze elettriche mediante la componente A4 della tariffa elettrica”. Nonostante queste cifre, la somma che Alcoa è chiamata a restituire è di 300 milioni di euro, ancora non versata. (cfr. Il fatto quotidiano, 27/8/2012).

 

[2] Si veda, per esempio, l’articolo “No-debt: Ribelli al debito, proni al capitale”, Il programma comunista, n.3/2012.


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