PREMESSA

II proletariato è oggi più che mai stretto nella morsa delle braccia di una stessa tenaglia: il terrorismo degli stati bor­ghesi ed il pacifismo dei partiti opportunisti con in testa quelli legati allo stato russo. Scopo supremo di questa intesa fra le forze imperialiste di oriente e di occidente è di tenere di­sarmati i proletari in modo che possano subire passivamente sia nuove e catastrofi che guerre interstatali, sia l'attuale pace capitalistica che, con tutte le sue forme di oppressione, non è meno odiosa e lesiva degli interessi di classe del proletariato.

L'esperienza storica delle tremende sconfitte o anche solo paure subite in seguito alle insurrezioni armate proletarie ha aperto gli occhi alla borghesia la quale, benché dominando e dettando legge incontrastata su tutti i continenti, è costretta a difendersi preventivamente con l'uso di ogni mezzo.         

Contro la propaganda pacifista combinata con quella del terrore delle infernali macchine belliche moderne, il partito che è l'organo chiamato a dirigere l'assalto alla cittadella borghese deve prendere la posizione che gli è propria e che gli deriva dalla sua dottrina. Non bastano le nostre affermazioni coraggiose, contro queste propagande subdole e maledette. Non basta­no le nostre parole di disprezzo e di irrisione per i guerrafondai e, più ancora, per i pacifisti di tutti i colori. Bisogna che i compagni attuali e potenziali abbiano le idee chiare sul­la Questione della violenza, perché le convinzioni ferme e solide rappresentano già di per sé delle potenti forze fisiche e ci aiutano a tenerci immuni dalle infezioni pestifere che tutti i servi del capitale portano in mezzo a noi.

Ne sono soltanto questi gli scopi pratici da raggiungere per mezzo del lavoro di sistemazione teorica intrapreso dal partito. Compito del partito non è solo quello di essere preparato in sede teorica, ma anche e soprattutto quello di organizzarsi sul terreno della lotta armata e della violenza di classe. Solo co­sì esso assolverà il fondamentale comandamento della dottrina rivoluzionaria di Marx di sostituire, quando possibile, "all'arma della critica" la "critica delle armi".

L'uso della violenza è dunque parte essenziale del nostro programma ed il marxismo è la sola dottrina che lo teorizzi si­stematicamente. Marx scriveva il 19 maggio 1849: "Noi siamo spiati e non abbiamo alcun riguardo a dirlo. Quando il nostro turno verrà, non dissimuleremo il nostro terrorismo. Ma i terroristi realisti, i terroristi per grazia e diritto di Dio, sono nella pratica brutali, spregevoli e vili, e nella teoria vi­gliacchi; dissimulano e sono ipocriti. Su entrambi i piani essi sono senza onore".

I borghesi rinnegano la loro violenza rivoluzionaria non ap­pena si sono stabiliti al potere. E' noto che in Francia non si sia più ufficialmente parlato di Robespierre, come a Cromwell dissotterrato sia stato confitto un pugnale nel cuore per farlo morire una seconda volta, come Bismark sia stato congedato, e... Stalin espulso dal mausoleo.

Nella nostra dottrina, la violenza è invece organizzata co­scientemente. Ciò spiega l'importanza data dal partito alla questione della violenza o questione militare, come l'abbiamo qui chiamata per sottolinearne un determinato aspetto: quello del suo uso aperto, sia nelle guerre fra gli stati, che in seno ad uno stesso stato. E non è da oggi che i marxisti comprendono l'importanza della questione. Mehring (ala sinistra del P.S. tedesco) denunciava già l'opportunismo e pacifismo della II Internazionale proprio perché tendeva a spegnere l'interesse dei proletari per la questione militare. La storia del partito bolscevico ci mostra la grande cura sempre dedicata da Lenin al lavoro legale ed illegale ed alle organizzazioni che dovevano svolgere tale lavoro. Basti citare il suo motto? "la scienza militare è indispensabile ai proletari".

Nel III Congresso di Mosca, nel 1920, si fecero riunioni ai fini dell'organizzazione militare mondiale dell'Internazionale Comunista e ne fu iniziatrice l'entusiasta compagna Rakoska, sorella del grande bolscevico Rakosky, molto vicino a Trotsky;

Tutti i partiti comunisti pi munirono dell'inquadratura militare, ma Specie quello italiano appena fondato nel 1921, e a cur della frazione anche prima. Per esempio a Varese nel 1921 sfilarono come in "rivista" nostre numerose formazioni sebbene, per evitare motivi illegali, non recassero le loro armi, nascoste altrove.

Svolgeremo qui solo la parte generale della questione militare. Nelle prossime riunioni di partito sarà svolta la parte storica, poi quella della tattica e della strategia proletaria ne la guerra di classe contro la borghesia ed il suo apparato statale.

La guerra nella concezione borghese e in quella marxista.

La guerra è certamente un fenomeno essenziale della storia. Ma che cosa ci hanno saputo dire gli storiografi di tutti i tipi intorno alle cause e agli effetti del fenomeno bellico? Quale analisi approfondita è stata compiuta per valutare il significato della guerra, la sua natura, e le leggi che governano il suo svolgersi nelle varie epoche?

La risposta è assolutamente deludente: si son dette molte e se, ma una visione unitaria, generale ed unica non esiste nel mondo della scienza borghese, benché un ramo di questa si inte­ressi esclusivamente del fatto bellico e gli studiosi di cose militari siano, specie negli ultimi tempi, andati aumentando.

A noi marxisti ciò non desta meraviglia, si sa. Porse che esiste una definizione del valore della moneta nella scienza economica borghese? La risposta è ancora la stessa: ne esistono cento tutte fasulle, e non una ed unica come nella dottrina economica di Marx. Data la sua natura di classe sfruttatrice, e le contraddizioni in cui essa è destinata a muoversi, la borghi ,sia ha una incapacità storica a comprendere i fatti umani e sociali nel loro divenire. Il fatto guerra è ritenuto di esclusiva competenza dei militari. I teorici della guerra sono infat­ti tutti provenienti dall'esercito e relative accademie. Forse che è stata una libera scelta questa? No di certo; la borghesia vi è stata determinata dalla natura stessa della struttura economica capitalistica che - come si sa - ha spinto all'estremo la divisione del lavoro, la specializzazione, in ogni settore della produzione e quindi anche in quello della produzione scientifica. Sono così sorti gli esperti, gli specialisti di questo o quel ramo della scienza, ognuno autorizzato ad ignorare tut­to ciò che non sia la "sua materia". Al pari dell'operaio spe­cializzato, lo scienziato borghese è spesso, se non quasi sem­pre, un mutilato e deformato mentale. L'economista è un econo­mista-puro. Lo storico uno storico-puro. Fra loro, essi non si conoscono affatto, o quasi.

Non fa quindi meraviglia che le interpretazioni del fenome­no guerra siano tanto unilaterali e fuori della realtà e, per­tanto, irrazionali e assurde.

Dire per esempio che la guerra rappresenta il conflitto delle forze del bene e del male e la si può evitare con la propa­ganda pacifista, significa solo fare della morale da quattro soldi e nulla più. "Questo appello alla morale e alla giusti­zia non ci aiuta ad avanzare di un passo nella scienza" (Engels).

Assurdo poi pensare che la guerra sia un castigo di Dio, e che la preghiera sia l'adatto rimedio. Seguono le interpretazioni cosiddette biologiche della guerra ed altre ancora più ridi­cole e strane.

Ma, fra tutte queste "spiegazioni", la più insidiosa perché più generalmente accettata è quella individualistica e volontaristica che considera la guerra come un possibile "sfizio" o "capriccio" di questo o quel Grande, politico o militare che sia, il quale "liberamente" la promuove per una più o meno in­nata sete di dominio territoriale o di prestigio. Ad essa si rifà la definizione data da Carlo Clausewitz (1780-1831), ufficiale prussiano la cui scuola fu la prima a cercare di indagare e conoscere perché l'esercito francese poté vantare tante gloriose vittorie contro tutti gli eserciti europei - come ci informa un recente opuscolo scritto da un "esperto" in ma­teria ed intitolato "La Guerra - sintesi dell'evoluzione della arte militare" (tra parentesi riferiamo che questa scuola "attribuisce le vittorie napoleoniche alla presenza di fattori morali", mentre la scuola che ha come esponente E. Jomini, già ufficiale di Napoleone, le considera "il frutto di un tecnici­smo perfetto"). La definizione del Clausewitz (enunciata anche nel libro ora citato) è la seguente: "La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi".

Registriamo anzitutto il fatto che, in tale formula, il pa­cifismo piccolo borghese esce battuto, perché - logicamente - gli "altri mezzi" non sono quelli pacifici, propri della politica, invocati dagli opportunisti per risolvere i problemi so­ciali.

Noi respingiamo anche il preteso "liberò arbitrio" dei politici - perché, in una società divisa in classi in cui gli uomini sono dominati totalmente dalle forze produttive, nessuna libe­ra scelta di mezzi è ad essi lasciata. Secondo il marxismo la guerra nasce da determinazioni economiche e sociali e svolge un ruolo che trascende la volontà degli uomini al potere che l'hanno dichiarata. Ciò è tanto vero che gli scopi enunciati da costoro non solo non vengono raggiunti con la guerra ma ne sono addirittura sconvolti insieme ai più minuziosi piani tat­tici e strategici. Classico esempio è la guerra del 1870-71 che, iniziata come guerra difensiva per la Prussia, si trasformò in guerra civile di classe con la Comune di Parigi, e terminò come guerra di rapina imperialista: l'annessione alla Germania dell'Alsazia-Lorena - come Marx previde - costituì infatti uno dei germi della guerra mondiale nel 1914.

Dunque, la guerra non è uno "strumento" che passivamente si lascia adoperare da Questo o da quel Bismark. Non Bismark impose la sua politica, ma fu la politica borghese che si impose a Bismark e questi fu licenziato non appena non fu più capace di comprenderla e di eseguirla. Marx ha sempre mostrato la piccolezza di questo "grande".

A seconda delle condizioni generali di maturità delle strutture economiche esistenti nel dato periodo storico in cui essa si svolge, la guerra può modificare di molto il corso storico favorendo la violenza rivoluzionaria di classe. A queste "guerre di progresso" fanno riscontro quelle in cui l'inerzia storica delle forze sociali da partita vinta alla violenza delle forze controrivoluzionarie di classe: in tal caso le guerre hanno carattere conservatore e reazionario.

Come si vede, il giudizio marxista e l'atteggiamento prole­tario e rivoluzionario di fronte alle guerre non ha nulla a che vedere con quelli di ogni altra corrente di pensiero.

I risultati - di sviluppo o di regresso cui conduce la guerra non stupiscono, purché si pensi alle profonde trasformazioni cui essa da luogo nel campo della produzione economica e della sua distribuzione.

Il marxismo ha tratto il suo sapere dalla realtà sociale del capitalismo che ha creato il proletariato. E' dalla realtà to­tale di questa società che esso analizza i fatti, non dalla vi­sione delle attività e delle scienze alla quale la borghesia è condannata con tutti i suoi uomini politici e militari ultra gallonati.

Contro il capitalismo il proletariato rivoluzionario impie­gherà i suoi mezzi generali e totali tanto sul piano del sape­re teorico, quanto su quello della violenza. A ciò il proleta­riato è determinato dalla sua stessa natura di classe rivolu­zionaria, cui la storia affida la missione di distruggere tul­le le altre classi, compresa la sua.

A questi dati importanti che - ripetiamo - ci differenziano da ogni altra forza politica, vanno aggiunti i dati sul come le nostre conoscenze ci permettono di impiegare i mezzi a disposizione.

Nello studio delle forme successive di produzione - cioè lo sviluppo crescente delle forze produttive - vedremo che ogni forma superiore di produzione conferisce alla classe rivoluzionaria che ne è l'agente una sicura superiorità militare contro la forma precedente e inferiore. Da questa analisi trarremo la conclusione che il proletariato lungi dall'appellarsi ai supe­riori "valori" di una astratta giustizia e di una falsa morale utilizzerà tutti i suoi mezzi superiori di lotta armata.

Questo concetto che il proletariato farà uso per i suoi fi­ni di tutti i mezzi di lotta, a sua disposizione non è applica­to dal marxismo solo sul terreno delle grandi manifestazioni di violenza, come le guerre fra stati e le guerre civili, ma anche su quelle delle modeste lotte quotidiane per la difesa del salario e la diminuzione della giornata lavorativa. E come potrebbe essere diversamente, quando la borghesia approfitta di ogni circostanza per lo scopo opposto di sfruttare ancora più gli operai.

"Durante il XVI secolo ed anche durante i primi due terzi del XVII la giornata di lavoro normale fu di 10 ore in tutta l'Inghilterra. Durante la guerra contro i Giacobini, che fu in realtà una guerra dell'aristocrazia inglese contro le masse lavoratrici inglesi, il Capitale, celebrando i suoi baccanali, prolungò la giornata di lavoro da 10 a 12, da 14 a 16 ore" (Marx: "Salario, prezzo e profitto").

Un partito che permettesse ai sindacati di seguire le teorie degli opportunisti secondo i quali il salario dipende unicamente dalle leggi economiche e dal loro gioco avulso da ogni altro avvenimento politico e militare, o comunque impastato di violenza, questo partito sarebbe esso stesso opportunista. Quelle "teorie" non sono che una sporca giustificazione dell'appoggio ai capitalisti.  

La dimostrazione di Marx, secondo la quale il saggio del salario dipende dal rapporto di forza delle classi antagoniste, sbaraglia tutte le teorie degli economisti-puri che pretendono far dipendere la mercede solo da astratte e inviolabili leggi economiche. Il proletariato può e deve quindi adoperare in ogni caso tutti i mezzi di lotta: legali ed illegali, pacifici e violenti.

All'opportunismo degli economisti puri fa riscontro nel campo borghese quello dei violentisti-puri alla Proudhon e alla Durhing.

La scuola del signor Proudhon insegna che "la proprietà è un furto". Egli fa partire la dominazione di classe da, un abu­so della forza da parte di individui più robusti che mantengo­no un tale dominio solo impiegando la violenza in luogo di fa' partire le successive dominazioni di classe nella storia dalle strutture economiche e produttive. Proudhon trova ingiusto questo abuso della forza e pone dunque la giustizia sociale - cioè un ideale utopistico - come scopo da realizzare.

La "teoria della violenza" del sig. Duhring è ben nota: per lui la forza è "il fatto fondamentale della storia", il fine e non il mezzo per tenere in piedi un determinato ordine economico o per rovesciarlo; per lui la forza politica è la ba­se e il fatto originario della divisione in classi, e non viceversa. Ma facciamo parlare Engels (Antiduhring): " E' nell'ar­mamento navale che si vede nel modo più tangibile come la vio­lenza politica immediata che, presso il sig. Duhring, è la cai sa decisiva delle condizioni economiche esistenti, è al contrario interamente assoggettata alle condizioni economiche; come non soltanto la produzione, ma anche il maneggio degli strumenti della violenza sul mare, le navi da guerra, è diventata, es­sa stessa un ramo della grande industria moderna. Se le cose prendono sempre più questa piega, nessuno può farci niente, e non vi è a1cuno più contrariato della violenza, dello, stesso Stato, che deve rassegnarsi a considerare già invecchiate, dunque deprezzate, queste navi così costose prima ancora di aver preso il mare e che deve sentire lo stesso disgusto del sig. Duhring difronte al fatto che l'uomo dell'"ordine economico", l'ingegnere, è diventato più importante a bordo dell'uomo della "violenza immediata", il capitano".

A maggior chiarimento e conclusione, circa la posizione marxista sui rapporti fra economia e violenza, conviene ascol­tare ancora Engels: "Quello che qui importa stabilire è che dappertutto il dominio politico ha avuto  a suo fondamento l'esercizio di una funzione sociale e che il dominio politico ha continuato ad esistere per lungo tempo solo laddove ha mantenuto l'esercizio di questa sua funzione". E più avanti: "E' chiaro di conseguenza, quale funzione abbia la forza nella storia, di fronte allo sviluppo economico. In primo luogo ogni forza politica è fondata originariamente su una funzione economica, sociale e si accresce nella misura in cui, con la dissoluzione delle comunità primitive, i membri della società vengono tra­sformati in produttori privati e quindi vengono estraniati ancor più da coloro che amministrano le funzioni sociali comuni. In secondo luogo, dopo che la forza politica si è resa indipendente di fronte alla società, si è trasformata da serva in pa­drona, essa può agire in duplice direzione. O agisce nel senso e nella direzione del regolare sviluppo economico: in questo caso fra i due non sussiste alcun" conflitto e lo sviluppo eco nemico viene accelerato. O invece agisce nel senso opposto e, in questo caso, salvo poche ecce zioni, soggiace interamente allo sviluppo economico".

"Queste poche eccezioni sono casi isolati di conquista, in cui i conquistatori, più rozzi, hanno sterminato e cacciato via la popolazione di un paese e ne hanno guastate o distrutte le forze produttive … Laddove invece il potere statale inter no di un paese è entrato in opposizione col suo sviluppo economico, come ad un certo grado di sviluppo è capitato ad ogni potere politico, la lotta ogni volta è finita con la caduta, del potere politico. Senza eccezione ed ineluttabilmente lo svi­luppo economico si è aperta la via: abbiamo già ricordato lo ultimo e più lampante esempio di questo fenomeno: la grande Rivoluzione francese ... Per il sig. Duhring, la forza è il male assoluto, il primo atto di violenza è per lui il peccato originale, tutta la sua esposizione è una geremiade sul fatto che la violenza, questa potenza diabolica, ha infettato tutta la storia fino'/ad ora con la tabe del peccato originale, ed ha vergognosamente falsificato tutte le leggi naturali e sociali. Ma che la violenza abbia nella società, ancora un'altra funzio­ne, una funzione rivoluzionaria, che essa, secondo le parole di Marx, sia la levatrice di ogni società gravida, di una nuova, che essa sia lo strumento con cui si compie il movimento della società, e che infrange forme politiche irrigidite e morte, di tutto questo nel sig. Durhing non si trova nemmeno una parola".

Le forze della borghesia rivoluzionaria

In ogni rivoluzione borghese si trovano due "momenti", due "fasi" contraddittorie: duella della spontaneità e quella della dittatura militare. Esse possono presentarsi o separate nel tempo o ravvicinate a seconda del momento storico in cui una data rivoluzione si verifica, cioè a seconda del grado di maturità generale delle forze produttive e dello sviluppo delle lotte di classe nell'ambito del paese direttamente interessa­to, e della situazione politica internazionale.

La rivoluzione francese aveva in un primo momento distrat­to insieme allo stato feudale anche l'esercito, ma subito do­po dovette preoccuparsi di ricostituire l'apparato militare insieme a quello politico. La ferrea necessità, imponeva di dar si un'organizzazione se non si voleva veder fallire la rivoluzione per opera sia della reazione interna che di quella esterna degli altri stati rimasti feudali, e decisi a difendere con l'offeso "ancien regime" dall'infezione rivoluzionaria. Per questi stati che portarono l'offesa nel cuore della giovane repubblica di Francia, la guerra aveva un carattere di "dife­sa reazionaria". Al contrario, la guerra di "difesa rivoluzionaria" della Francia era una legittima guerra di difesa con­tro gli stati limitrofi.

Insieme alla "guardia nazionale" si creò 1'"esercito rego­lare". Ma ben tre anni occorsero a Dumouriez nell'organizzare una sola armata di 60+80 mila uomini: dal 1789 al 1892. Se pure Dumouriez vinse a Valmy gli eserciti di Prussia, Austria e Piemonte, è incontestabile che l'esercito francese è disorga­nizzato e manca del cemento essenziale che distingue un eser­cito vero e proprio: la disciplina. Come avrebbe potuto la Francia fronteggiare il blocco europeo nella quale l'Inghilterra capitalistica svolgeva un ruolo di primo piano? (Altro no­tevole carattere contraddittorio della rivoluzione borghese!) Forse con l'ascendente dei generali? Evidentemente, l'influenza di costoro si potrà manifestare solo dopo l'esito Vittorio so di diverse battaglie, non certo nei momenti di maggior pe­ricolo per le sorti della rivoluzione. Non c'era che un mese, per riuscire allo scopo: il terrore nella politica interna, la dittatura militare. Si ha così la leva in massa del 1793; l'esercito si trasforma in "nazione armata". Il provvedimento imposto duramente, quasi con ferocia, certo con eccessi spaven­tosi, salva, sia pure a caro prezzo, la Francia.

Dopo rotto il blocco (1795), la Francia, si prepara a varare nuove leggi per l'organizzazione dell'esercito, come la nuova situazione richiede, cioè come reclama il carattere (di massa) dello stesso esercito divenuto molto diverso da quello feuda­le. Nel 1798 si ha la legge sulla coscrizione obbligatoria:

questo sistema di reclutamento non solo diventerà normale nel la Francia borghese, ma sarà. - per forza di cose - assimilato anche dagli altri stati, con tutti gli aggravi finanziari che ne derivano per le casse statali.

La differenza fra le due fasi contraddittorie della rivolu­zione borghese sono da Trotsky notate sia nella rivoluzione inglese che in quella americana. Nel suo libro "Difesa del terrorismo" si legge: "Nel XVII secolo l'Inghilterra compie due rivoluzioni: la prima provoca violenti moti sociali e lunghe guerre nonché l'esecuzione capitale di Carlo I; la seconda, finisce con l'arrivo al trono di una nuova dinastia. La borghe­sia inglese ed i suoi storici considerano queste due rivoluzioni sotto angoli molto diversi: la prima è ai loro occhi una rivolta popolare, una "vasta ribellione"; la seconda ha ricevuto il nome di "gloriosa rivoluzione". Nella prima rivoluzione inglese, nella "vasta ribellione", il popolo agiva, nella seconda esso si è quasi taciuto".

L'attitudine della borghesia inglese è caratteristica di fronte alla coscrizione militare generale. Per paura davanti al popolo in armi, una legge del 1689 vietava in tempo di pace l'esercito permanente di tutti i cittadini in età di leva. Il marxismo trova questa paura della borghesia totalmente giustificata, come si vedrà in seguito quando esamineremo la politi ca proletaria nelle forze armate borghesi.

Naturalmente l'Inghilterra ha utilizzato il servizio mili­tare obbligatorio quando la sua borghesia doveva condurre una guerra importante.

Passiamo ora a dare uno sguardo alla rivoluzione tedesca. Si è preteso che in Germania il servizio obbligatorio fosse legato non al regime borghese, ma al gusto militare dei tede schi ed in particolare degli junkers prussiani. Il re di Prussia si lasciò forzare la mano nel 1813 e limitò il servi zio al tempo di guerra quando scoppiò il conflitto contro la Francia: guerra di liberazione nazionale. Mehring ci dice che l'esercito non aveva nulla di democratico in ragione delle numerose restrizioni: noi sappiamo che ciò era il risultato del debole sviluppo della lotta rivoluzionaria della borghesia prussiana. Si sente già a quest'epoca che la rivoluzione tedesca ha una forte tendenza a compiersi dall'"alto", a reprime­re e controllare la fase della spontaneità popolare. E Marx che lo sapeva bene scriveva prima ancora della rivoluzione del 1848 che la Germania era molto vicina ad una rivoluzione pro­letaria. Dopo lo scacco del 1849, nel 1865 Engels scriveva giustamente che la sola istituzione democratica esistente in Germania era il servizio obbligatorio per tutti. Effettivamente, questa "istituzione democratica" svolse un ruolo importante che Marx ed Engels ebbero il merito di conoscere e di ap­poggiare per la formazione dell'unità tedesca.

Nella guerra civile americana si vede pure come la sponta­neità popolare è "presa in mano" dal potere statale e dalla dittatura borghese. Trotsky cita a tal proposito la testimo­nianza di un colonnello, certo Fletcher: "Così il popolo ame­ricano si vide privare nello stesso istante della maggior par tè delle sue libertà. E' degno di nota che la maggior parte della popolazione era talmente assorbita dalla guerra, e così profondamente disposta a consentire a tutti i sacrifici per raggiungere il suo scopo che, lungi dal riprovare la perdita delle sue libertà, non se ne accorse nemmeno".

E' questo ciò che Marx chiama il "potere magico" di una classe. E' il modo di produzione che determina la violenza:

in questo senso, tale determinazione è perfettamente "involontaria", ed è anche in questo senso che la storia dello sviluppo sociale umano duo fare l'oggetto della scienza e, in ciò che concerne la missione del proletariato, rendere possibile e sicura la previsione della sua vittoria finale.

Le forze rivoluzionarie del proletariato

L'incapacità storica della borghesia di dirigere cosciente mente la sua rivoluzione è un riflesso delle contraddizioni del suo modo di produzione e degli interessi antagonisti del­le classi di cui essa si compone (imprenditori industriali e proprietari fondiari), e delle classi medie e, principalmente, del proletariato.

Il modo di produzione borghese spinge la storia verso soluzioni radicalmente diverse, che implicano l'abolizione di tut le le contraddizioni delle società divise in classe ed un mo­do di vivere veramente aderente alla natura umana. L'inevita­bile rivolta elementare delle forze produttive contro tutte le soprastrutture politiche e sociali della società borghese per affermare il proprio sviluppo non trova quindi nessuna forza antagonista di carattere economico, ed anziché opporsi ad una direzione cosciente esse la esigono e la trovano nel partito internazionale del proletariato rivoluzionario. Come vuole la dottrina marxista del rovesciamento della prassi, questo partito ha la capacità di prevedere, organizzare e volere la insurrezione armata contro il Capitale e può anche abbatterlo gra­zie alle enormi risorse che gli .'derivano dagli scopi grandiosi che vuole realizzare e dalla superiorità militare rispetto al nemico.

La classe borghese non poteva avere quest'organo di direzione cosciente della lotta che è il partito. Ma non ne aveva neppure bisogno perché la sua rivoluzione non faceva a pezzi la macchina statale feudale, ne cambiava solo la vernice esterna, lasciandone intatta la sostanza funzionale di mezzo di repressione delle altre classi che attentavano al privilegio borghese, non meno esoso ed insopportabile di quello feudale.

Il proletariato, per raggiungere i suoi scopi ultimi, strappa di mano alla borghesia la sua infernale macchina statale, non per adoperarla, ma per distruggerla, e deve poi crearne una nuova che, dopo avergli efficacemente servito a sconfiggere ogni reazione delle classi abbattute, dovrà servirgli - per l'opera ancora "più rivoluzionaria di trasformare le strutture economiche capitalistiche in senso socialista.

Ma, se la dottrina ed il programma rivoluzionario generale sono patrimonio del partito fin dalla sua prima apparizione, cioè dall'epoca del Manifesto, la presenza fisica di tale par tifo con la sua organizzazione veramente impegnata a realizzare i fini socialisti è condizionata dalla storia delle lotte di classe che si svolgono nei vari paesi. Altrettanto dicasi della volontà di decidere l'azione insurrezionale che il par­tito non può ne deve volere in un momento qualunque, ma solo in quegli svolti storici in cui la sua capacità di analisi del la situazione storica gli mostra che i rapporti di forza visti su scala internazionale offrono le migliori possibilità di sferrare l'attacco.

Purtroppo la storia del movimento operaio dimostra che queste occasioni non si presentano con molta frequenza e perciò, quando esse capitano, il partito ha il dovere di chiamare le masse proletarie alla rivolta. Il partito bolscevico "fece" la rivoluzione non solo perché le condizioni lo permettevano, ma perché lo volle: era un vero, autentico, partito marxista internazionalista, e vinse. Pur raggruppando un'esigua mino­ranza della classe proletaria russa, il partito bolscevico ebbe la capacità di influenzare le altre organizzazioni di massaie, in primo luogo, i soviet, trasformandoli da informi parlamenti operai in efficienti organi di lotta a dominazione proletaria e socialista. La natura dei soviet è tale che si presenta adatta ad ogni modificazione non solo sociale, ma anche politica e, data la loro elasticità, essi si sono dimostra ti spontaneamente, quasi naturalmente, come gli insostituibi­li organi dello stato proletario e socialista. Con la degene­razione staliniana del partito russo, anche i soviet sono de­generati.

Il partito, nel guidare la lotta rivoluzionaria del prole­tariato, si avvale dei principi della sua dottrina per giudi­care e promuovere qualunque azione. La sua capacità di discernimento gli deriva dalla possibilità di analizzare le situa­zioni nel suo insieme. La sua abilità organizzativa si può esplicare in ogni campo: sia in quello della lotta armata, con la costituzione dell'esercito rosso e la sua disciplina di ferro, che in quello della produzione economica e della distribuzione dei beni.

Grazie a queste sue capacità di giudizio e di azione il partito non si fa distogliere dalle critiche degli opportunisti e, peggio, dai loro suggerimenti. La storia del partito bolscevi­co è un esempio luminoso di come si maneggi la dottrina di Marx,

Gli opportunisti, falsi sinistri, centristi e via dicendo, sono soliti considerare i "rapporti di forza" in base alle so­le condizioni economiche di un dato paese, avulso da ogni altro dato economico e politico di carattere sia interno e nazionale che esterno e internazionale. E spesso concludono che la situazione non è matura per prendere il potere. Non è difficile ri­levare che i loro "argomenti" sono solo un paravento di prote­zione dietro il quale questi agenti borghesi si nascondono per sabotare gli sforzi rivoluzionari. Così accadde al tempo della rivoluzione russa: ai menscevichi si unì, dall'esterno, l'autorevole voce del "rinnegato Kausky". Costui e gli altri trascu­ravano il fatto che il partito bolscevico rappresentava in Russia il proletariato internazionale ed i suoi interessi rivoluzionari. Anche lo zar si trovava al disotto dei rapporti di forza russi considerati alla maniera di Kautsky, beneficiando dei capitali stranieri.

E ciò era apparso chiaro quando la Russia "arretrata" aveva preso parte "come membro del tutto" al conflitto imperialista. Non lo si ripeterà mai abbastanza: la rivoluzione e le crisi sociali determinano a loro volta i rapporti sociali ed il par tifo rivoluzionario è, a Questo titolo, esso stesso una forza fisica.

Trotsky, sferzando appunto questi opportunisti, diceva:

"Se si fosse potuto predire a Kautsky, a Federico Adier e a Otto Bauer, due anni fa, che la dittatura del proletariato si manterrebbe in Russia, i saggi della II Internazionale avreb­bero considerato questa previsione come una prova di risibile ignoranza dei "rapporti di forza". E davanti a tutti i successi riportati, Kautsky continuava a sostenere la tesi del "rapporto di forze" sfavorevole al potere sovietico, e questa enormità: "la condotta della guerra non è in generale il lato forte del proletariato".

Il militarismo della borghesia postrivoluzionaria e l'ascesa del proletariato.

Bopo aver mostrato a grandi tratti la caratteristica della violenza impiegata dalla borghesia rivoluzionaria, seguiamo o ra la sua evoluzione fino al declino di questa classe*

Nel manoscritto di un articolo che Engels scrisse su "la prospettiva di una guerra rivoluzionaria subito dopo il 1849 e 'le conseguenze di una guerra della Francia rossa contro questa Santa Alleanza", noi troviamo la definizione della forza militare borghese. Engels non pubblicò più l'articolo, poiché la crisi rivoluzionaria tardò; ma il suo scritto ha pienamen­te valore, come vedremo considerandone il contenuto. Engels vi fa l'ipotesi seguente: "Ammetto come dato certo che ogni rivoluzione parigina vittoriosa nel 1852 avrà imme­diatamente come seguito una guerra della Santa Alleanza. Questa guerra, sarà del tutto differente da quella del l792/'94 e gli avvenimenti di allora non possono servirci per alcun parallelo".                     

Abbiamo citato questo passo per confutare anche il Programma del partito russo approvato al XXII congresso, che pretende che "i comunisti non hanno mai pensato che la via della rivoluzione passi per le guerre tra gli stati".

Certamente tutte le guerre che faranno i "comunisti alla Krusciov" saranno delle guerre reazionarie, ma in ciò che con cerne i veri comunisti essi hanno sempre pensato che la guerra fra stati proletari e stati borghesi-reazionari è non sol tanto possibile, ma inevitabile.

Nel suo scritto, Engels mostra come, dopo Napoleone I ha applicato più o meno bene la tattica militare imposta dal nuovo modo di produzione borghese, tutte le battaglie che ebbe­ro luogo fra moderni stati siano state condotte sul principio napoleonico (così per esempio gli Austriaci in Italia). I principi di guerra borghese erano dunque legati al modo di produzione borghese. La pesantezza degli eserciti prerivoluzionari era legata al feudalesimo. La massa d'equipaggiamento degli ufficiali impediva ogni movimento e costringeva l'esercito allo stesso ritmo lento e faticoso. Bisognerà attendere l'epoca in cui si sviluppano gli stati moderni perché i sol­dati siano convenientemente nutriti, e possano quindi servi­re in modo più organizzato dei mercenari della fine del feu­dalesimo. Engels ci ricorda quanto le monarchie assolute fossero povere e gli eserciti non potessero più funzionare che con denaro.

La tattica nuova è direttamente legata al modo di produ­zione: la borghesia sviluppa in maniera gigantesca i trasporti di tutti i generi; eleva le forze produttive e la stessa produttività quanto basta perché una percentuale importante della popolazione possa essere inviata alle armi, equipaggia fa, nutrita a sufficienza ed anche in maniera superiore. En­gels mostra (1850), a tal proposito, che mentre la Russia feudale può reclutare appena il 3% della popolazione, uno stato moderno ne può reclutare fino al 15%.

Altro fattore a vantaggio della borghesia è l'aumento del la densità di popolazione che, combinato con lo sviluppo dei trasporti, permette di dislocare forze militari in vaste zo­ne.

Il sistema militare borghese, sviluppato già da Napoleone I, riposa su due principi fondamentali: la massività dei mezzi d'attacco (uomini, loro equipaggiamenti, artiglierie, ecc.) e la mobilità di questi stessi mezzi.

Gli eserciti feudali segnavano il passo per mesi interi in un cerchio di venti miglia, ed erano costretti a spostarsi quando le risorse di quella regione erano esaurite.

Engels mostra che l'esercito francese del 1794 non era una truppa vibrante d'entusiasmo e "morente per la Repubblica" ma una "very fair army", cioè un esercito molto leggero che, se pure indisciplinato, valeva assai più dei disciplinati e ben equipaggiati eserciti della coalizione che erano pesanti e tardi nei movimenti. Engels prosegue nel descrivere i caratteri organizzativi delle forze rivoluzionarie borghesi: "i gene­rali francesi erano sì migliori di quelli della coalizione, anche se fecero molte gaffe; ma era la ghigliottina che assi­curava l'unità di comando e l'armonia delle operazioni". O virtù della dittatura militare!

Ai generali borghesi Engels oppone poi i capi militari proletari ai quali augura che non abbiano le tare borghesi: "Viceversa un ministro della guerra che abbia una certa conoscenza di guerre, di rivoluzioni e di metodi propri per mettere rapidamente in piedi un esercito, ed al quale non si pongano fra le gambe gli ostacoli derivanti dall'ignoranza e dalla ricer­ca di popolarità, potrà fare delle grandi cose".


 

Partito Comunista Internazionale
(
il programma comunista, n. 23, 1961)

 

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