La seconda guerra mondiale

Mentre si consuma l’orgia distruttiva della guerra di Spagna, con la vittoria di Franco pochi mesi prima dello scoppio della guerra mondiale, le diplomazie europee sono al lavoro per preparare una carneficina su più vasta scala. L’Internazionale comunista da anni è ridotta o a rifugio relativamente comodo per scampati dal fascismo (so- prattutto a Parigi) o a organo di spionaggio a vantaggio dello stato russo. Demolite dalle forze congiunte del fascismo e dello stalinismo le organizzazioni di classe, era inevitabile che ogni forma di lotta riguardasse ormai solo più il conflitto fra stati na- zionali, prendendo la forma di reti di spionaggio nelle cui maglie e sotto i cui colpi, non infrequentemente, cadevano soprattutto gli antistaliniani47. Il “compromesso di Monaco” (settembre 1938) doveva servire alle democrazie occidentali per acquistare quei pochi mesi che permettessero il completo riarmo degli arsenali, e alla Germania per ottenere una rivincita su quanto le era stato tolto a Versailles nel 1919 e per fare un ultimo tentativo di costruire un’area economica a elevato sviluppo capitalistico nel centro Europa, fra Reno, Danubio e Balcani. Da parte sua, l’accordo russo-tedesco dell’agosto 1939 (il patto Hitler-Stalin) non aveva nulla in comune con il trattato di pace di Brest-Litowsk del 1918. Là si incontravano la diplomazia di uno stato capi- talistico in pieno sviluppo e quella del primo stato comunista, che lanciava al mondo l’invito all’internazionalismo proletario; qui scendevano in campo sinistri figuri che si accordavano sulla spartizione di territori e di popoli (Polonia, Paesi baltici, Bessara- bia). Di colpo, per ragioni di stato, l’aggressore si trasformava in alleato, la dottrina dei Fronti popolari antifascisti era abbandonata, i partiti “comunisti”, fino ad allora stretti attorno al “proprio” governo democratico in difesa della patria, dovevano scoprire che quel governo era un nemico che celava basse mire imperialistiche ed antisovietiche. Ci vorranno due anni, con l’invasione nazista della Russia (21 giugno 1941), per vedere i partiti stalinisti d’Europa tornare alla vecchia tattica del fronte unico antifascista.

È questo l’infame decennio (1930-40) che costituisce l’humus di cui si è nutrito il movi- mento partigiano. Questo movimento emerge dal tradimento che i partiti “comunisti” hanno operato voltando le spalle alla classe che li generò nel corso di lotte grandiose che miravano alla conquista del potere in mezza Europa; e ciò hanno potuto fare solo grazie al sostegno di una potenza imperialista – la Russia stalinista – e di una sua ormai inutile appendice – l’In- ternazionale – che verrà smantellata anche da un punto di vista formale nel 1943.

 

“Resistenza” al fascismo, ovvero rinuncia alla lotta contro il Capitale

Furono pochissime le voci che non si associarono al totale tradimento di quanto ave- vano indicato i primi congressi dell’IC, e queste voci si trovarono completamente isolate non solo – come è naturale – dal campo della socialdemocrazia interclassista, ma anche da quei gruppi e movimenti che si rifacevano alle dirette esperienze rivolu- zionarie dei decenni precedenti, fossero questi i gruppi legati più o meno direttamente al nome di Leone Trotsky, o ai movimenti “infantili” della sinistra tedesca e olandese, o all’operaismo rivoluzionario. Assieme a tutti questi, anche gli anarchici non esitaro- no a scegliere l’opzione della difesa della democrazia (e quindi di uno stato borghese che si voleva “migliore” rispetto a quello fascista).

Lo stalinismo, dal canto suo, non andava per il sottile e, messi tutti nello stesso sacco, li bollava semplicemente come “spie fasciste” e quindi passibili della pena di morte. Individuata nella Russia di Stalin la patria di tutti i comunisti, la tattica era elemen- tare: rispolverando astutamente la classica formula del “disfattismo rivoluzionario”, si esortavano i proletari di tutto il mondo a schierarsi contro le “proprie” borghesie solo se queste manifestassero sentimenti ostili alla Russia; poco male, poi, se ciò avrebbe comportato alleanze con i nazisti contro gli imperialisti occidentali (patto Ribbentrop-Molotov, 1939-41), oppure l’esatto contrario. Qualora queste “proprie” borghesie avessero stretto un’alleanza economico-militare con la Russia, ad esse il proletariato avrebbe dovuto garantire pieno appoggio. A guerra ormai iniziata da due anni, tutti quanti (escluse quelle “voci” di cui sopra) si gettarono di nuovo nelle brac- cia della democrazia violata, schierandosi dunque per il campo imperialistico degli alleati occidentali contro quello degli alleati dell’Asse. In queste braccia si trovarono dunque, schierati sullo stesso fronte, stalinisti, antistalinisti, operaisti, immediatisti, anarchici, socialisti e socialdemocratici: è il momento in cui fiorisce un bosco di sigle, di partitini, di movimenti democratici, tutti con il chiaro intento di giocarsi qualche aliquota di potere a guerra finita, sapendo di avere già fatto la scelta giusta con lo schierarsi dalla parte dei vincitori48.

Dopo il 25 luglio 1943, la borghesia italiana impiegò non più di 45 giorni a tradire i precedenti alleati per scegliersi quelli che ormai (soprattutto dopo l’ingresso nella sce- na bellica degli Usa) apparivano evidentemente i vincitori. Le masse proletarie, total- mente disorganizzate, prive di legami con i pochi elementi comunisti che da quasi due decenni vivevano in esilio in Europa o erano stati massacrati in Russia, furono rapida- mente incanalate sotto le bandiere dell’unità nazionale, della lotta per la “liberazione” in difesa degli interessi nazional-borghesi. Le bestiali condizioni in cui da anni viveva la classe operaia portarono alle prime grandi manifestazioni di classe del 1943, desti- nate anche a rimanere le ultime forti manifestazioni spontanee, non incanalate dentro l’alveo socialdemocratico. Quando, dopo la caduta del governo Mussolini, in agosto nuove manifestazioni percorsero la penisola, il governo antifascista del generale Ba- doglio non esitò a emanare direttive draconiane di “difesa dell’ordine”, appoggiate dall’ordine di sparare sui dimostranti (un centinaio di morti, oltre duemila arresti).

Non è il compito di questo studio ripercorrere le tappe politico-militari dell’oppo- sizione antifascista democratica negli anni della guerra nei due paesi in cui più che altrove essa pretende di avere giocato un ruolo decisivo sulle sorti della guerra.

In Italia, vi erano gli oppositori più o meno nascosti al fascismo ancora al potere (minimi gruppi più o meno organizzati di intellettuali affascinati dalla cultura an- glosassone, che dal 1942 in modo del tutto velleitario cercavano di funzionare come servizio di spionaggio inglese); vi erano gli eredi del liberalismo giolittiano; socialisti riformisti di tradizione turatiana; mazziniani ed esponenti massonici; europeisti ante litteram; democratici cristiani; e magari anche certi insospettabili apparati e arnesi fascisti, se si deve dar credito a vecchi figuri di voltagabbana plurimi (se tutti par- lassero, si legge, “oggi si saprebbe con quanta delicatezza la polizia [cioè l’OVRA, ndr] abbia manovrato per garantire alle spalle quei movimenti clandestini che aveva il compito di scoprire e di perseguitare”)49; vi erano infine, primi inter pares, gli stalini- sti, cioè i “nazionalcomunisti”, gli strenui difensori dell’onore della patria, violato da un ventennio di brutalità fascista. Come si vede, tutto un “fronte unico” che, avendo avuto ben poco da dire nel 1922 a fascismo ormai salito in cattedra – e in ogni caso era, anche quello, un fronte fieramente ostile alle direttive e all’azione rivoluzionaria del PCd’I – ritrovava d’incanto compattezza di ideologia e di azione nei vari “comi- tati d’azione per l’unità del popolo italiano”, o “comitati italiani per la pace e per la libertà” e infine nei “Comitati di Liberazione Nazionale”, soprattutto grazie all’inter- vento militare e finanziario anglosassone. Sotto quelle bandiere era da ritrovare tutta la tradizione invocata vent’anni prima dagli Amendola (il padre: ben più coerente del figlio, bieco esponente dello stalinismo democratico), dai Croce, dai Salandra, dai Missiroli, dai socialisti già accorsi vigliaccamente a firmare col fascismo il lugubre “patto di pacificazione” del 1921.

In Francia, la tradizione di “rivoluzione popolare”, che avanzava al suono della Mar- sigliese oppure sotto le bandiere dell’anarco-sindacalismo, era ben più radicata di quella marxista (la stessa Comune parigina del 1871 aveva dovuto fare i conti con l’improvvisazione proudhoniana). Il Partito comunista, nato su ibride basi, non tardò ad assimilare il dettato stalinista dell’interclassismo antifascista, aderendo al “fronte popolare”, al movimento di liberazione nazionale, alla lotta per la democrazia e as- sicurando il pieno appoggio alla borghesia liberale nazionale: e pazienza se questa, quello stesso 8 maggio 1945 in cui celebrava a Parigi la vittoria del progresso contro la barbarie, annegava in un bagno di sangue (45.000 morti) le rivolte che si scatena- vano in Algeria in nome dell’indipendenza! Che aspettarsi, d’altra parte, da un partito di cui l’Internazionale nel 1922, cioè a poco più di un anno dal congresso di Tours in cui esso si costituiva come sezione dell’IC, denunciava la “tendenza a ristabilire l’unità con i riformisti; […] a formare un blocco con l’ala radicale della borghesia; […] la sostituzione del pacifismo umanitario piccolo-borghese all’antimilitarsimo ri- voluzionario”? 50.

Tornando in Italia, se a ben poca cosa si ridussero gli interventi militari di una qual- che importanza da parte del fronte antifascista nazionale (d’altra parte, mentre gli anglosassoni mettevano in campo 3.000 pezzi di artiglieria, 3.100 carri armati, 5.000 aerei e 19 divisioni, il fronte unico nazionale poteva schierare al più e ottimistica- mente 200.000 uomini dotati solo di armi leggere), ben maggiore decisione questo mostrò – soprattutto per intervento della sua componente staliniana – nel controllo di un movimento operaio che, inaspettatamente, alla caduta del governo Mussolini, aveva dato prove di un non sopito istinto di classe. In primo luogo, si trattava dunque di evitare che qualche testa calda emergesse dalla “spontaneità popolare” – cioè dalla lotta di classe, per ciò che ne restava – , magari pronta ad usare la polvere da sparo in una direzione che non poteva piacere agli stalinisti. In secondo luogo, alla vigilia della vittoria, bisognava costituire squadre armate a protezione e difesa degli impianti indu- striali, in modo da assicurare che la fabbrica, il luogo di pena per milioni di operai, continuasse a svolgere il proprio ruolo di creazione di plusvalore nel processo produt- tivo nel corso del successivo periodo di ricostruzione e di accumulazione capitalistica. Nel dettato stalinista, sarebbero dovuti essere gli operai stessi a sorvegliare che gli impianti – in cui essi sono schiavi salariati – mantenessero la loro piena operatività di centro del potere economico borghese. Di lotta insurrezionale non si doveva più parlare, neppure come ipotesi teorica.

 

Poteva esprimere il movimento partigiano un potenziale realmente rivoluzionario?

Da alcuni decenni, storici e analisti antistalinisti insistono sul fatto che, tra 1943 e 1947, guerra e miseria avevano creato condizioni favorevoli a una soluzione rivo- luzionaria, mettendo tra le mani di partigiani comunisti armi che sarebbero potute essere rivolte, finalmente, contro il nemico di classe. In sostanza, la seconda guerra mondiale avrebbe favorito la polarizzazione delle energie rivoluzionarie: se l’esito si risolse solo in alcuni casi di lotta violenta a carattere locale o si frantumò in innume- revoli casi di vendette di tipo personale, ciò sarebbe in larga misura da attribuire – se- condo questi storici e analisti – alla politica attendistica, intellettualistica e settaria dei gruppi che allora si rifacevano in modo più o meno esplicito alle direttive del PCd’I dei primi anni Venti e che, alla prova dei fatti, avrebbero dimostrato la loro incapacità nell’azione. La realtà suona in modo totalmente diverso. L’unica avanguardia che si era dotata, fin dal 1943, di una sia pur esile struttura di partito era il Partito comunista internazionalista, nelle cui file erano confluiti nuclei operanti soprattutto in Piemon- te e in Lombardia, e a cui avevano aderito alcuni gruppi di emigrati in Francia e in Belgio, che nei due decenni precedenti avevano rappresentato l’unica voce, debole ma pienamente orientata nella dottrina marxista, trovando la propria espressione nei giornali Prometeo e Bilan. Ma quest’organizzazione si era formata senza che ci fosse stato il tempo per fare chiarezza completa su alcuni dei problemi posti dalla contro- rivoluzione in atto negli ultimi venti anni: che cosa è diventata la Russia? come rico- struire il rapporto organico con le masse operaie? come e attraverso quali tappe si può giungere a ricostruire un’avanguardia rivoluzionaria organizzata internazionalmente? qual è l’analisi marxista del corso dell’imperialismo alla luce dell’esito del primo e del secondo massacro mondiale? Non solo dunque il Partito comunista internaziona- lista era caratterizzato da un’eterogeneità forzata: esso aveva anche perso qualsiasi legame autentico con il proletariato internazionale e, a causa delle cristalline posizioni antidemocratiche difese da decenni, era emarginato da tutti i gruppi che si muovevano sul terreno dell’antistalinismo. Così, fu necessario oltre un decennio di messe a punto teoriche ed organizzative, senza le quali sarebbe stato impossibile proporsi come au- tentica guida per le lotte future.

D’altra parte, in che modo il movimento partigiano avrebbe potuto rappresentare uno sboc- co rivoluzionario alla seconda guerra mondiale? Secondo i sostenitori di questa tesi, una reale alternativa alla costituzione di un partito di classe stava in quello che fu avanzato come “programma partigiano” del 1943: guerra alla guerra (formula insufficiente, che la- scia margini ad interpretazioni pacifiste); guerra ai regimi che l’avevano causata e teoriz- zata (quindi, Germania e Italia – ma perché non “guerra” anche a chi l’avrebbe vinta?); disprezzo (?!) per finanzieri, industriali, grandi agrari, cardinali ecc., ma anche “suprema disciplina di azione, rigore di costume, sete di sapere e consapevolezza” (un pasticcio che sta tra la bolscevizzazione della metà degli anni Venti, la “rivoluzione culturale” di Mao e le formulette escogitate dagli studenti del Sessantotto) 51.

Questa posizione, per generosa che possa sembrare oggi a occhi ingenui e non marxisti, era completamente fuori strada. La situazione generale della classe e del suo partito era allora totalmente differente da quelle presenti alla fine del primo conflitto mondiale e una “ripetizione” di un qualcosa che potesse assomigliare al “biennio rosso” era semplicemente impossibile. Allora, l’impulso dato al movimento rivoluzionario dalla Rivoluzione russa, assieme al fermento all’interno delle organizzazioni di classe in cui maturavano – purtrop- po con fatale ritardo – le condizioni per la formazione dei primi partiti comunisti europei, e a quella che sembrava una travolgente marea di agitazioni che stava attraversando l’intera Europa, costituirono effettivamente una solida base per i tentativi di conquista del potere in Germania e nell’Est europeo. Ma con lo scoppio della seconda guerra mondiale le condi- zioni generali della lotta erano radicalmente cambiate, non solo per l’assenza di una orga- nizzazione rivoluzionaria in grado di far sentire la propria voce su scala internazionale, ma perché la penetrazione nel proletariato mondiale della dottrina stalinista della “difesa dello stato proletario” (la Russia), e l’aperto schieramento dei partiti “comunisti” a fianco delle potenze borghesi – prima descritte come imperialiste e plutocratiche, poi come baluardi di pace, progresso, libertà e democrazia – , avevano rappresentato una totale rinuncia alle posizioni storiche di classe e condannato il proletariato a un abbandono, da cui non avreb- bero potuto risollevarlo locali, puntiformi focolai di lotta armata, priva di una direzione programmatica e di un’organizzazione politica consolidate. Inoltre, l’occupazione militare alleata dei paesi sconfitti escludeva la possibilità di qualsiasi tentativo di rovesciamento del potere; e, se non fosse bastata questa, era pronta la vigilanza controrivoluzionaria esercitata dal partito stalinista e dai suoi scagnozzi per intervenire in caso di necessità 52.

Pertanto, “contro il partigianismo barricadiero e piccolo-borghese che convogliava verso le montagne centinaia di giovani operai, i comunisti internazionalisti affermaro- no la necessità che il proletariato combattesse nelle fabbriche la sua battaglia contro il suo nemico capitalistico. Gli scioperi che punteggiarono quel travagliato periodo sto- rico videro il Partito [comunista internazionalista] attivissimo nelle officine di Torino, di Milano, dell’Italia settentrionale” e le nostre parole d’ordine “furono divulgate con tutti i mezzi anche tra i raggruppamenti partigiani, nonostante le difficoltà obbiettive. Il Partito, esile organizzativamente, fu costretto a muoversi tra mille difficoltà com- battendo con coraggio ma con scarsi mezzi i due blocchi politici” 53, pur sapendo che nulla avrebbe potuto forzare una situazione che, in realtà, si presentava come la peggiore possibile. Era dunque perfettamente coerente con le nostre posizioni assunte nei riguardi della guerra di Spagna invitare il proletariato europeo al disfattismo durante e alla fine della seconda guerra mondiale, ma non si poteva prescindere dall’urgenza di rinsaldare le fila dell’organizzazione sulla base di una dottrina rivoluzionaria re- staurata contro tutte le gravissime deformazioni precedenti, sapendo che la ripresa della critica delle armi non poteva giungere che alla fine di un lungo periodo di lavoro interno di analisi e di ripresentazione della dottrina comunista, insieme a una ripre- sa di penetrazione nelle masse proletarie e, infine, a un approfondimento della crisi dell’imperialismo. Al di là di questo, ci poteva essere solo confusione e smarrimento, sotto forma di azioni disperate più o meno individuali o di immediatismo nelle sue varie forme (sindacalismo, operaismo).

Il ribellismo del 1946, strombazzato oggi da qualche volenteroso critico, non poteva avere un grammo di successo rivoluzionario, dal momento che nasceva sulla base di rivolte di carattere locale, giustificate finché si vuole contro il canagliume fascista e chi lo difendeva, ma estranee, per finalità e per organizzazione, all’internazionalismo comunista. Senza una preparazione decennale alla guerra civile, senza un seguito ef- fettivo tra le masse urbane, senza una guida politica in grado di dirigere il movimento, questi sparsi tentativi non potevano finire che nel giro di pochi mesi, come infatti avvenne. Ritenere l’opposto, significa dimenticare quali siano le condizioni ogget- tive del successo rivoluzionario, che Lenin ricordava, nel 1921, a uno sprovveduto Terracini nel corso del III Congresso dell’Internazionale: “avevamo con noi la mag- gioranza dei Soviet dei deputati operai e contadini di tutto il paese […] avevamo con noi quasi la metà dell’esercito, che allora contava per lo meno dieci milioni di uomini […] Abbiamo vinto con tanta facilità perché avevamo preparato la nostra rivoluzione durante la guerra imperialistica. […] Abbiamo vinto perché masse grandissime di contadini erano animate da spirito rivoluzionario contro i grandi proprietari terrieri. […] Il nostro primo passo è stata la creazione di un vero partito comunista per sapere con chi abbiamo a che fare e in chi possiamo avere piena fiducia”54. Avevano i ribelli del 1946 tutto ciò? E basterà tutto ciò ai nostri “critici”, a coloro che avrebbero voluto a tutti i costi “fare la rivoluzione”, a coloro che rimproverano oggi all’esile partito di allora, appena ricostruito in mezzo alle rovine prodotte nel proletariato dalla guerra, dal fascismo, dall’opportunismo democratico, una “tattica attendista”? E alle loro consuete accuse di “settarismo” rivolteci da attivisti e volontaristi di varia estrazione, che stancamente ripetono ciò che da piccoli hanno imparato sulla Piccola enciclope- dia del socialismo e del comunismo stalinista, rispondiamo da sempre (cioè dal 1912, 1919, 1921, 1926: tappe portanti del nostro partito) che “anche in una situazione estremamente sfavorevole e anche nei luoghi in cui la sterilità di questa è massima, va scongiurato il pericolo di concepire il movimento come una mera attività di stampa propagandistica e di proselitismo politico. La vita del partito si deve integrare ovunque e sempre e senza eccezioni in uno sforzo incessante di inserirsi nella vita delle masse ed anche nelle sue manifestazioni influenzate dalle direttive contrastanti con le nostre” (“Tesi di Napoli”, 1965)55. Questo, e non altro, è stato ed è il nostro modo di porci nei confronti del proletariato.

 

Lo stalinismo europeo del secondo dopoguerra

Alla fine della guerra e dopo gli accordi di Yalta, il proletariato europeo si trovava di fronte a nuovi padroni. La fine della prima guerra mondiale aveva sancito, oltre a vari tipi di sanzioni economiche, la mutilazione di territori dei paesi sconfitti. Ma ora si passò alla loro invasione fisica o al loro smembramento. Dove lo stalinismo russo non poté entrare con la forza armata, lo fece attraverso le sue numerose teste di ponte rappresentate dai lo- cali partiti “comunisti”. Non poteva essere il caso della Germania occidentale, dove ogni resistenza di classe era stata schiacciata da decenni. In Francia e in Italia, ove la tradizione di lotta era ancora viva, si trattava di canalizzarla nel senso della riorganizzazione del nuovo ordine borghese, usando tutte le forme necessarie.

In Francia, a quella tradizione, cioè, si doveva sostituire quella dei Frossard, dei Cachin e dei Thorez. Il primo (“gran maestro in scappatoie”, “vecchia volpe del partito”, secondo le espressioni di uno che ben conosceva il partito comunista francese di quegli anni Venti, cioè Alfred Rosmer)56 era segretario del partito e in quanto tale primo responsabile della linea che, per anni, contrappose da destra la linea del partito all’Internazionale: costretto alle dimissioni nel 1922, ritornò ai suoi maestri socialisti per qualche anno finché, fatta l’unica scelta azzeccata della sua vita, finì come ministro nel governo Pétain. Il secondo, entusiasta interventista antitedesco nel corso della prima guerra mondiale, ambasciatore segreto della Francia presso l’ex-rivoluzionario Benito Mussolini in vista della sua con- versione (pagata in franchi) a fianco delle borghesie in guerra tra loro, fieramente ostile ai bolscevichi, avrà il coraggio di presentarsi a Lenin per chiedere perdono dei crimini della borghesia francese, ottenendone la gelida risposta: “Dovreste chiedere perdono per i vostri propri crimini nei confronti del proletariato francese”57. Il terzo, Thorez, l’arnese perfetto dello stalinismo, l’alter ego francese dell’italiano Togliatti, era colui che nel 1926 dichiarava essere i comunisti “i migliori difensori del patrimonio nazionale”; che dieci anni dopo ribadiva di “essere fiero della grandezza passata del nostro paese”; e che, a guerra appena finita, esaltava nel proprio partito “il sangue dei cattolici, dei comunisti […] il sangue di tutti i nostri eroi [che] ha fecondato il nostro suolo e sigillato l’unità nazionale”58.

In Italia, la situazione non era diversa: se possibile, era ancora peggiore. Mentre i prole- tari italiani erano invitati a schierarsi sotto la bandiera anglosassone nei reparti partigiani contro i tedeschi, la caccia all’oppositore dava i suoi frutti, con l’assassinio di valorosi compagni presentati nella stampa “comunista” come “agenti del nemico truccati con ber- retto estremista [...] tenitori di tabarins e di bische clandestine [...] setta di rivoluzionari da strapazzo e visionari dogmatici [trasformati] in agenzia criminale e senza scrupoli di nemici della rivoluzione [...] agenti dell’OVRA e della Gestapo [...] accolita di avventu- rieri che hanno fatto dell’anticomunismo il proprio cavallo di battaglia”59. Liquidando ogni opposizione operaia, accordandosi con i partiti cattolici e spegnendo sul nascere ogni tentativo spontaneo di rivolta, il PCI si apprestava a diventare partito di governo, partecipando alla stesura della Costituzione italiana e mandando il suo uomo più rap- presentativo, Palmiro Togliatti, a fare il Ministro di Grazia e Giustizia due volte sotto il re, la terza con un presidente della Repubblica. In tal veste, nel giugno del 1946, egli firmerà un decreto di amnistia per reati politici in termini tali da garantire una perfetta continuità tra apparato amministrativo-poliziesco fascista (in parte finito in galera) e apparato democratico repubblicano.

Gli eventi successivi presentano aspetti che, al di là delle particolarità locali ereditate da situazioni storiche diverse, si rassomigliano in tutta Europa negli aspetti sostanzia- li, in nome dell’unità nazionale, della democrazia “partecipata”, dell’antistalinismo democratico e dell’antifascismo. Gli anni della ricostruzione postbellica richiedono uno sforzo produttivo gigantesco, e la classe operaia è messa alla catena come mai prima di allora. Nel primo dopoguerra, al taylorismo si era sostituito il fordismo (tanto apprezzato da Gramsci!): allo stesso modo, ora, nel secondo dopoguerra, al fordismo si sostituisce il toyotismo. Certo non per “costruire il socialismo” in nessuna parte del mondo: si trattava invece di forgiare le basi del nuovo ciclo di accumulazione di capitale universale, e costruirlo precisamente facendo ricorso a tutto il più raffinato apparato tecnologico-produttivo e organizzativo-poliziesco.

Masse proletarie scampate agli orrori della guerra e delle campagne militari sono ora riprecipitate nel torchio dell’orgia iper-produttiva e dell’iper-profitto, ma a tanto non bastano briciole di “stato assistenziale”: c’è bisogno della massiccia capacità di convincimento dell’ideologia democratica e, se ciò non basta, per coloro che voglio- no combattere per qualcosa, c’è pronta la “difesa della patria del socialismo” contro gli imperialismi occidentali (ormai non più alleati) e, soprattutto, c’è pronta la difesa della “propria” patria, della “propria” industria, della “propria” azienda. C’è lo sta- linismo che funziona a pieno regime, che attinge a piene mani nei suoi alleati locali: laburismo, operaismo, consiliarismo, gramscismo60.

Certo, non mancarono grandi esempi di lotta, né convulsioni di masse disorientate ma ancora battagliere. Il 1953 conobbe la Comune di Berlino, grande rivolta prole- taria contro l’oppressione del capitale internazionale, che fu schiacciata dalla Santa Alleanza rinnovata tra stalinisti e democratici. Nel 1956, anno decisivo per il riassetto di numerosi aspetti lasciati nell’ombra dai recenti accordi di pace interimperialistici, in un inquieto contesto di crisi internazionale (Cipro, Suez, Medio Oriente, Algeria, Marocco ecc.), esplodeva la bolla antistaliniana al XX Congresso del PCUS, gettando nello smarrimento partiti e intellettuali fautori della “patria del socialismo” e fornen- do le basi per quello che diventerà l’anticomunismo antistalinista, gridato nelle piazze in nome del progresso, della democrazia e della libertà. Nello stesso anno, la rivol- ta operaia di Poznan, grande centro metallurgico polacco, metteva in discussione i “trionfi” dell’economia socialista, rivelando alle masse occidentali attonite la realtà dei bassi salari, dei folli ritmi di lavoro, delle bestiali condizioni di vita: il governo “comunista” non esita a ricorrere alla prassi, consolidata in tutto il mondo, di sparare sulla folla. E, alla fine dell’anno, i fatti di Ungheria saranno lì a confermare, per chi ne avesse ancora bisogno, l’identità tra “democrazia borghese” occidentale e “demo- crazia socialista” orientale.

 

L’antistalinismo democratico

È in questo contesto internazionale che, nei paesi di più antico capitalismo, nascono le opposizioni interne nei vecchi partiti stalinisti: ovunque si cavalca il vecchio ronzino della “democrazia dal basso”, della rivolta contro le alte gerarchie dei propri partiti, del richiamo (generalmente pretestuoso) alle tradizioni rivoluzionarie degli anni Venti (ma ben filtrate da due o tre decenni di lotta antifascista e di alleanze interclassiste). È la fase politica in cui gli uni gridano slogan contro la prepotenza americana, gli altri contro la barbarie totalitaria staliniana. Noi rispondevamo ai primi, ricordando “le loro idiote e servili piaggerie di quel tipo di civiltà e delle direttive di propaganda dei Roosevelt e dei Churchill”; e ai secondi, ricordando “le loro istrioniche esaltazioni de- gli immani sacrifici sui campi di guerra di milioni di proletari russi per la causa di cui erano allora fautori”61. Fu, allora, un rinnovato inseguimento, da parte degli stalinisti pentiti, alle “basi operaie”, che avrebbero garantito la massima protezione contro le derive burocratiche e i culti della personalità. Fu tutto un rincorrere gli elettori della “base” dei vecchi partiti, nella convinzione di poter creare partiti nuovi, nei quali sarebbe stata garantita la libertà di idea, la discussione di tutti i principi, il rispetto di tutte le opinioni, in nome di una rinnovata democrazia.

Ed ecco nascere, in una sorta di riproposizione burlesca di antiche posizioni, da una parte, l’operaismo e lo spontaneismo degli anni Sessanta, legati ad una visione an- tipartitica, anarco-sindacalista, del processo rivoluzionario; e, dall’altra, i rinnovati tentativi di costruire “comitati d’azione”, i cui entusiasti fautori si ritenevano in grado, miracolosamente, di pervenire alla ripresa internazionale del movimento rivoluziona- rio attraverso la formazione di un eterogeneo (a dir poco!) partito di classe. Mentre i primi sorsero da un contesto materiale, quello del “miracolo economico” europeo, dei vertiginosi incrementi produttivi e dei bestiali ritmi di lavoro per le masse proletarie, e potevano rappresentare dunque, fatta esclusione dei tentativi intellettuali di teoriz- zazione antimarxista, un primo embrionale gradino verso una reale presa di coscienza rivoluzionaria, i secondi mostravano la totale incapacità di cogliere da un lato l’ampiezza della controrivoluzione e il grado di oppressione ideologica cui sottostava il proletariato, dall’altro il complesso processo che sta alla base della riorganizzazione dell’avanguardia rivoluzionaria. Come già lucidamente spiegato dalla nostra corrente nel 1926, ogni tentativo di opporsi alla bufera per mezzo di espedienti organizzati- vi (fusioni temporanee di piccole organizzazioni di opposizione, manovre frazioni- stiche) sarebbe stato destinato all’insuccesso: si doveva al contrario e urgentemente metter mano a “un lavoro pregiudiziale di elaborazione di ideologia politica di sinistra internazionale, basata sulle esperienze eloquenti traversate dal Comintern”62. Perciò, quando la cosiddetta “destalinizzazione internazionale” sembrò ai volontaristi di tutto il mondo l’occasione per riproporsi alle masse come gli eredi della tradizione rivo- luzionaria e i veri restauratori “antidogmatici” e liberamente critici del marxismo, il nostro partito dovette reagire con la massima energia: “Quando l’ora sarà dalla storia segnata, la formazione dell’organo di classe non avverrà in una risibile costituente di gruppetti e di cenacoli che si dissero e si dicono antistalinisti e che oggi si dicano bene o male ‘anti-ventesimo congresso’. Il Partito, ucciso goccia a goccia da trent’an- ni [si era nel 1956 – ndr] di avversa bufera, non si ricompone come i cocktails della drogatura borghese. Un tale risultato, un tale supremo evento, non può che essere posto alla fine di un’ininterrotta unica linea, non segnata dal pensiero di un uomo o di una schiera di uomini, presenti ‘sulla piazza’, ma dalla storia coerente di una serie di generazioni. Soprattutto non deve sorgere da nostalgiche illusioni di successo, non fondato sulla incrollabile dottrinale certezza del corso rivoluzionario, che da secoli possediamo, ma sul basso soggettivo sfruttamento dell’annaspare, del vacillare altrui; che è misera, stupida, illusoria strada per un risultato storico ed immenso”63.

 

Lo stalinismo terzomondista

Il secondo dopoguerra, ancor più che il primo, è certamente caratterizzato dal sorgere di violente lotte nelle ex-colonie e, in generale, in tutto il cosiddetto Terzo Mondo. Si è trattato, in larga misura, di lotte di “liberazione nazionale”, di ridefinizione del ruolo delle classi all’interno di quei paesi e, in una certa misura, di autentiche lotte di classe. Tutto ciò ha rappresentato la conseguenza dell’avvenuto erompere delle con- traddizioni tra le nuove forze produttive sviluppatesi, grazie o nonostante la presenza imperialista, all’interno di rapporti patriarcali arcaici.

Non è mancato, né manca oggi, chi vuole cavalcare queste lotte in nome del “comu- nismo”. Lo stalinismo “storico” russo l’ha fatto, ed ha attivamente appoggiato finan- ziariamente e militarmente quelle rivolte, allo scopo di estendere la propria influenza imperialista su aree di mercato sempre più vaste. Esso ha cercato anche una giusti- ficazione teorica, sostenendo che quello era l’unico modo per impedire il progredire mondiale dell’imperialismo a stelle e strisce, tacendo il fatto che, comunque, mai e poi mai verrebbe messa in discussione l’economia di mercato e il controllo militare di quei paesi e di quelle lotte.

Mentre dunque il XX Congresso del PCUS gettava nello sconforto milioni e milioni di proletari ingannati e di intellettuali in crisi di identità, le bandiere classiche dello stalinismo (socialismo in un solo paese; creazione di un mercato nazionale; rivolu- zione “per tappe” di menscevica memoria: vedi Cina 1926-1927 venivano riprese dai dirigenti dei movimenti di lotta e da innumerevoli schiere di illusi nelle metropoli. A nulla potevano ormai valere, anche su questo tema, le classiche posizioni dell’Interna- zionale, espresse nelle Tesi sulla questione nazionale e coloniale nel corso del suo II Congresso (1920): “[il dominio straniero] frena costantemente il libero sviluppo della vita sociale; ne segue che il primo passo della rivoluzione deve consistere nell’eli- minarla. Sostenere la lotta per il rovesciamento del dominio straniero sulle colonie non vuole perciò dire sottoscrivere le aspirazioni nazionali della borghesia indigena; significa invece spianare al proletariato delle colonie la via alla sua emancipazione”64. E, se è vero che le condizioni oggettive dello sviluppo e della maturazione della lotta di classe, ancora ai suoi primi passi, avrebbero reso impossibile la realizzazione del “comunismo” in questi paesi, un partito autenticamente comunista al potere avrebbe enormemente accelerato, grazie all’appoggio dato a esso dal proletariato delle metro- poli, l’estendersi della rivoluzione all’intero pianeta.

Il modo in cui la limpida teoria marxista è stata stravolta nei riguardi della questione coloniale può essere seguito passo passo nelle guerre di liberazione nazionale nei pa- esi “arretrati”. In Cina, lo stalinismo – in questo caso perfettamente sintetizzato nelle figure storiche di Stalin e Mao – appoggiò il movimento nazionalista democratico- borghese: il che significò, come già si è visto, la consegna delle armi al nemico e il conseguente massacro di milioni di proletari, soprattutto nelle grandi città industria- lizzate. La vecchia e sempre attuale teoria dei “tre principi del popolo” di Sun Yat- Sen 65 – nazionalismo, democrazia, socialismo – veniva modificata nella teoria delle “tre tappe”. Queste “tappe”, nelle loro varianti locali, sono state adottate da tutte le successive rivoluzioni anticoloniali sotto le false bandiere del “socialismo”. La prima tappa è quella militare, e sancisce il principio nazionalistico dell’unificazione della “patria”. La seconda tappa è quella culturale, e deve servire per preparare il popolo alla democrazia elettiva. La terza tappa è la sintesi delle prime due, e rappresenta l’acquisito status di “paese socialista”. Mentre le ultime due “tappe” costituiscono l’eterno programma del terzomondismo, basterà sostituire la prima con la sua contro- parte, cioè l’antimperialismo nazionalistico borghese, e troviamo il manifesto di tutti i movimenti no global del XXI secolo. Ma dietro la lotta armata talora violentissima dei popoli di colore, e dietro le virulenze esclusivamente verbali degli antimperialisti occidentali, si trova l’unico punto di approdo possibile: la difesa della democrazia borghese, il pacifismo, il rispetto delle bandiere nazionali, la libertà di commercio. La “teoria della guerriglia”, che vuole estendere a tutto il mondo la rivolta anti-Usa senza toccare i presupposti economici dell’imperialismo mondiale, è figlia diretta dello stalinismo di mezzo secolo fa: sia essa agitata da Castro, da Guevara, da Marcos, dai movimenti contadini di tutti i paesi del Terzo Mondo, essa non può uscire dai limiti di una visione nazionale, e talvolta sotto-nazionale della lotta. A questa teoria e a questa pratica, noi opponiamo “il concetto e la pratica dell’internazionalismo […] al centro dell’attività teorica e pratica, di propaganda e proselitismo […]. Perché proprio su questo terreno, nell’ultimo secolo, la classe mondiale ha subìto la sconfitta più cocen- te: dalla bastarda teoria del ‘socialismo in un solo paese’ alla proclamazione delle ‘vie nazionali al socialismo’ fino a tutti gli episodi di ‘guerre fra i poveri’ o di artificiose contrapposizioni fra settori di una classe che può essere vittoriosa solo se è unita”66.

Come si lotta e come non si lotta contro lo stalinismo

Resta da fare un bilancio di esso, in rapporto anche con il cosiddetto “antistalinismo” stalinista originato dopo il XX Congresso del PCUS (1956) nel seno di gruppi ed organizzazioni di natura democratica67. La battaglia a fondo che il partito ha condotto contro questi gruppi e contro l’ideologia che li esprime ha chiarito che questi gruppi e questa ideologia, se possibile, sono peggiori dello stalinismo storico, di cui hanno ere- ditato i sistemi, mescolandoli ed integrandoli in quelli della democrazia borghese. Si è dimostrato, nel corso di questa decennale polemica, che una ripresa autentica della lotta di classe si potrà realizzare solo quando l’infezione dell’antistalinismo democra- tico che ha impregnato il proletariato internazionale verrà definitivamente sradicata. Già negli anni Cinquanta, gruppi di dissidenti antistalinisti erano sorti in Europa e in America, protestando contro la “tirannia” del regime, gli orrori delle persecuzioni, dei processi, delle fucilazioni contro la vecchia guardia bolscevica e le dettagliate descri- zioni delle repressioni che cominciavano lentamente a valicare la “cortina di ferro”. Il denominatore comune a tutti questi movimenti di “opposizione” era, e ancora è, co- stituito dalla brutalità dei metodi di polizia impiegati dalla polizia russa, o da questo o quell’apparato statale contemporaneo di area “comunista” o democratica, ignorando, o fingendo di ignorare, che qualsiasi apparato statale, in quanto espressione di una società divisa in classi contrapposte, è al servizio della classe dominante, ed esercita la forza in difesa degli interessi di quella classe.

Lo stalinismo si convertì frettolosamente all’antistalinismo, sviluppandosi su linee non identiche, ma tutte convergenti sul piano focale della democrazia, cioè della rinuncia a combattere per il rovesciamento violento dell’ordine borghese. Queste linee si erano affermate con la politica – peraltro interamente “stalinista” – dei fronti popolari, della partecipazione dei partiti “operai” a coalizioni di governo, in alcuni casi con la gestione diretta da parte del partito “comunista” dell’ordine e del- la stabilità dell’economia capitalistica (è il caso della Cina maoista o della Cuba di Castro). In generale, persa ogni prospettiva di classe, si è fatto ricorso alle antiche menzogne dell’opportunismo ottocentesco, come quella della “volontà popolare” che si esprime attraverso “libere elezioni”, del lavoro salariato e del capitale inte- si come “servizio sociale”, dello stato come garante delle “libertà costituzionali”, dell’antifascismo e dell’antistalinismo visti come la più alta espressione della lotta “contro la tirannia”; e su tutto, regna indiscusso il principio dell’inviolabilità di “confini nazionali sacri”, che nessuna organizzazione militante comunista dovrà mai più varcare in nome dell’internazionalismo proletario, e che anzi, come e più che nel 1914 e nel 1939 tutti i proletariati saranno obbligati a rispettare, in difesa di una democrazia sempre minacciata (ieri dal fascismo o dalle democrazie occidentali, oggi da misteriosi “stati canaglia” o da “teocrazie medievali”, domani da altre nuove, e sempre identiche al passato, oscure “minacce” all’ordine borghese). In tutto ciò, scrivevamo nel 1949, “mai la classe operaia fu [e sarà, purtroppo, ancora nei suc- cessivi troppo lunghi decenni - ndr] alleata di se stessa; l’inerzia, la lotta illegale le furono [e le saranno] imposte come mezzo per i fini dei suoi nemici. Tutto sempre finì [e finirà] nella delusione e nella ribadita servitù” 68.

Riprendendo una nostra nota tesi sul fascismo (il cui prodotto peggiore è stato l’an- tifascismo), si è osservato che, nell’ottica di una ripresa rivoluzionaria, il prodotto peggiore dello stalinismo è l’antistalinismo. Nella sua accezione più consueta, picco- lo-borghese ed antimarxista, quest’ultimo non considera affatto lo stalinismo come il corso del processo controrivoluzionario russo ed internazionale che si abbatté sulle masse proletarie di tutto il pianeta a non più di dieci anni dalla vittoriosa rivoluzione russa, esprimendosi attraverso la galera e il massacro di una intera generazione di rivoluzionari ed imponendo la perversa ideologia del “socialismo in un paese solo” a tutto il movimento internazionale. Al contrario, esso rileva, nello stalinismo, solo l’aspetto dittatoriale, antidemocratico (cioè proprio in quello in cui un autentico marxista non troverebbe, in principio, nulla di riprovevole) e, consentendosi di versare una lacri- muccia sulla “rivoluzione che divora i propri figli”, sulla “protervia bolscevica” nel voler imporre ad una rivoluzione popolare una dittatura di partito, sulle “leggi storiche” per le quali ad ogni rivoluzione segue un Termidoro, ecc. ecc.

La quasi totalità dei comunisti scampati alle persecuzioni degli anni Trenta cercò una spiegazione a quanto accadeva in Russia nella violazione dei diritti dell’uomo, della libera consultazione, del libero pensiero. I libertari si sentirono in pieno diritto di gridare il proprio sdegno contro lo Stato-padrone; i piccolo-borghesi si unirono al coro sulle ingiustizie e i soprusi da parte del “tiranno”. Tutti invocarono il ritorno a metodi democratici, alla pace sociale, all’eguaglianza tra le classi. Tutti gridarono che il terrore staliniano era “necessariamente” la conseguenza della teoria, dell’or- ganizzazione, della pratica rivoluzionaria del partito bolscevico. Dunque, una volta eliminate quella teoria, organizzazione e pratica, non si sarebbe più corso il rischio, urbi et orbi, di cadere negli orrori della Russia stalinista: la rottura completa con il programma rivoluzionario comunista non avrebbe potuto essere consumata in modo più rapido e drammatico.

In questo senso, l’antistalinismo è nato assai prima dello stalinismo. Esso è una lontana eredità dell’associazionismo operaio ottocentesco, che produsse l’ideolo- gia della gestione economica della società “dal basso”, della presa del potere po- litico attraverso la “presa della fabbrica”, del mito dei consigli di fabbrica come organi di controllo operaio, dell’inutilità – o della pericolosità antioperaia – della forma-partito. Siccome il proletariato sviluppa in sé la propria forza critica, la pro- pria attitudine rivoluzionaria, le proprie forme spontanee di organizzazione, dun- que il Partito non solo non è necessario, ma anzi è un pericolo dal quale ci si deve tenere lontani: esso è sempre facilmente corruttibile, esso può cadere preda delle mire di un tiranno; solo la larga base proletaria può scongiurare questi rischi per- ché, come sosterranno fin dal 1920 i sinistri “infantili” tedeschi e olandesi in feroce polemica con l’Internazionale, nella fabbrica l’operaio è al riparo dalle influenze ideologiche esterne.

Che tutto ciò, come pure la bizzarra idea che il Partito scenda come deus ex machina dalle sfere celesti della lotta di classe giunta al suo grado supremo di maturazione (non si sa attraverso quali meccanismi psicologici) all’atto con- clusivo dell’assalto al potere, abbia ben poco a che fare col marxismo – chec- ché ne dicano i... microscopisti alla vana ricerca delle demarcazioni tra “partiti storici” e “partiti formali” – è dimostrato non solo dalle catastrofi che hanno accompagnato tutti i movimenti rivoluzionari privi di una vera, autorevole e organizzata guida politica del XX secolo, ma dalla storia stessa del movimento operaio fin dalla sua nascita in possesso di una teoria scientifica e autono- ma, cioè dal 1843-44. Si rileggano le succinte pagine di Engels in Per la sto- ria della Lega dei comunisti69. Dotati di “una giustificazione scientifica della nostra concezione”, per Marx ed Engels divenne “altrettanto importante […] conquistare alle nostre idee [corsivo nostro] il proletariato europeo”, e quindi iniziò una fase di intenso lavoro esterno, per il controllo di organi di stampa (Deutsche Brüsseler Zeitung) e di organizzazioni operaie e artigiane precedenti (Lega dei Giusti, Lega dei Comunisti) in anticipo sul grande movimento rivo- luzionario che, di lì a poco tempo (1848) doveva scuotere tutta l’Europa. Ma anche subito dopo la sconfitta, dopo i massacri proletari e i processi contro i militanti, “la vittoria della reazione era ben lungi dall’essere definitiva. S’im- poneva una nuova organizzazione [corsivo nostro] delle forze rivoluzionarie disperse, e quindi anche dalla Lega”: ciò che porterà alla redazione, nel 1850, di quel capolavoro di tattica e strategia rivoluzionaria che è l’“Indirizzo del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti”. Che cos’è tutto ciò, se non la dimostrazione che, nel pensiero dei fondatori della moderna scienza rivoluzio- naria, senza un’organizzazione politica centralizzata è preclusa ogni possibilità di influire sul proletariato, di svolgere un’attività di propaganda in direzione rivoluzionaria e, infine, di guidarlo nella lotta per la conquista del potere quan- do lo sviluppo della crisi sociale lo permetterà?

La ragione per la quale Marx ed Engels si allontanarono infine dalle vecchie associazioni, preferendo l’isolamento nonostante tutto, non era affatto per di- sprezzo verso l’organizzazione politica del proletariato in quanto la situazione fosse oggettivamente sfavorevole, ma per il fatto – come spiega chiaramente Engels – che la vecchia Lega pensava di agire, in un contesto controrivoluzio- nario di inaudita violenza e di forte ripresa economica dopo gli anni di crisi, come se all’ordine del giorno si ponesse la presa del potere, e “si univano a Londra a mucchi per formarvi dei governi provvisori dell’avvenire, non solo per i loro rispettivi paesi, ma anche per tutta l’Europa; e in cui non si trattava più che di raccogliere in America il denaro necessario sotto la forma di prestito rivoluzionario, per realizzare in un attimo la rivoluzione europea”70. Rifiutando l’attivismo di una larga parte di quello che allora si presentava come un partito di classe, Marx ed Engels spiegarono in molte occasioni71  che era vano dar rilievo, secondo la tendenza praticata allora da tutte lo organizzazioni ri- voluzionarie europee, “come fatto  fondamentale  nella rivoluzione,  invece che ai rapporti reali, alla volontà. Mentre noi diciamo agli operai: dovete ancora superare 15, 20, 50 anni di guerre civili, per cambiare i rapporti, per rendere voi stessi capaci di assumere il potere, da parte loro si è detto: dobbiamo andare al potere immediatamente, o possiamo metterci a dormire”72. Marx ed Engels risolsero dunque di abbandonare ogni organizzazione per un certo tempo: non “per mettersi a dormire”, o per il timore che essa scivolasse verso la “dittatura di capi”, o corresse il rischio di sostituirsi al proletariato nell’imporre una dit- tatura di classe, ma, al contrario, per ritessere con pazienza le fila di una nuova, più matura organizzazione, cui si porranno a capo di lì a quindici anni (Prima Internazionale).

Noi rifiutiamo perciò come attitudine antimarxista e controrivoluzionaria l’an- tipartitismo di molte tendenze antistaliniste, ben sapendo che l’unica condi- zione che in qualche misura può salvare un partito rivoluzionario dalla dege- nerazione è il chiarimento preliminare e condiviso sul suo programma, sulle sue norme tattiche e sull’accordo generale sulle norme di organizzazione. In particolare, rifiutiamo quell’antipartitismo che alla necessità dell’organizza- zione rivoluzionaria preferisce una lettura dei fatti storici fondata sulla libi- dine di potere dell’uomo, del potente, dell’astuzia di questo o quello Stalin73. Ad esso, noi opponiamo “la fisica dei fatti economici, la lotta corpo a corpo degli interessi materiali di classe, al vertice del cui ribollire la nostra scuola ha posto le chiavi del presente, del passato e del futuro, nel quadro unitario di cui abbiamo conquistata la totale visione”74. Il marxismo sarebbe spacciato, se davvero all’urto delle forze sociali si sostituisse come causa motrice della storia la prepotenza di un Bruto, il tradimento di un Giuda, il narcisismo di un Mussolini – o le vellicazioni sessuali vere, presunte o immaginarie, del... Berlusconi di turno!

 

Lo stalinismo post-stalinista

L’equazione “Lenin = Stalin”, invocata da tutta la borghesia e piccola borghe- sia planetaria allo scopo di allontanare per sempre le masse proletarie dal co- munismo, si è radicata dopo le “rivelazioni” (da decenni note ai rivoluzionari autentici) del XX Congresso del PCUS. Coloro che vedono negli “arcipelaghi gulag” l’eredità storica e necessaria della polizia della Russia rivoluzionaria “dimenticano” un piccolo dettaglio: che tra quelli e questa ci stanno migliaia e migliaia di rivoluzionari morti ammazzati dalla controrivoluzione; che i primi e i secondi erano entrambi, certo, manifestazione di violenza di classe, ma mentre la Ceka – la polizia rivoluzionaria creata nel dicembre 1917 con l’incarico di combattere la controrivoluzione e il sabotaggio – rivolse le sue prime energie contro “il sabotaggio dell’amministrazione da parte della borghesia, le distru- zioni e le violenze commesse da folle ubriache […] e il banditismo”75 (dunque, per la difesa della rivoluzione), l’apparato di terrore costruito dalla Russia sta- linizzata (dunque, compiutamente borghese) rivolse i propri fucili e le proprie piccozze contro quelli che, quella rivoluzione, l’avevano strenuamente organiz- zata e diretta. Frasi tante volte ripetute, come il banale luogo comune secondo cui “la rivoluzione divora i propri figli”, ecc., hanno il solo scopo di mascherare la verità di classe: quella per cui la violenza, che i comunisti certo non rifiutano, viene esercitata dalla borghesia con inaudita ferocia per la difesa dei propri in- teressi nazionali e internazionali. Una tale frase andrebbe perciò trasformata in ben altro modo: “la controrivoluzione divora i propri nemici, che hanno cercato di rovesciare l’ordine precedente”.

Coloro che denunciano le brutalità staliniste del gulag in nome della non violenza si pongono, da un punto di vista teorico, come i difensori di una concezione trascendente della storia; da un punto di vista pratico, contro ogni possibilità di rovesciare la dittatura mondiale della borghesia. “Le strida contro la rivendica- zione della dittatura, oggi [1946] dissimulata ipocritamente dagli stessi rappre- sentanti del regime di ferro moscovita, e le grida di allarme contro la pretesa impossibilità di frenare la corsa alla libidine di potere, e quindi di privilegio ma- teriale, da parte del personale burocratico cristallizzato in nuova classe o casta dominante, ben si conciliano con la posizione inferiore e metafisica di chi tratta della società e dello Stato come enti astratti, e non sa trovare le chiavi dei pro- blemi nell’indagine sui fatti della produzione e nei rivolgimenti di ogni rapporto che scaturiscono dagli urti delle classi”76. Perciò noi rifiutiamo l’etichetta di “antistalinisti”; il nostro antistalinismo è una rivendicazione della violenza di classe, della rivoluzione e della dittatura proletaria; non è il pietistico lamento pacifista e anti-violento delle schiere moderne di ingenui oppositori.

La rivendicazione della violenza non basta, dunque, a distinguere il comunismo dal suo opposto. In certe fasi della sua storia, anche la borghesia ha ri- vendicato l’uso della violenza di classe – lo stato russo stalinizzato essendone una variante – proibendone però l’esercizio alle classi sottomesse. Ciò che lo stalinismo ha imposto nel secondo dopoguerra sulla scena internazionale è la sostituzione della lotta di classe – che nasce dalla contrapposizione tra capitale e lavoro salariato, dunque all’interno del processo lavorativo capitalistico – con la lotta tra Stati “sfruttati” e “sfruttatori”, ritenendo possibile  la  distruzione della forma massima di capitalismo, quella imperialistica, attraverso operazioni militari condotte in nome di questo o quel paese, assurto nell’occasione (falsa- mente) come nuovo “Stato guida” della rivoluzione internazionale. I teorici di questa “dottrina della guerriglia” sono oggi osannati come massimi esponenti dell’antimperialismo. Essi hanno sostituito alla lotta di classe la lotta fra Stati; vogliono eliminare l’imperialismo tenendo in piedi il capitalismo degli Stati imperialisti; rinunciano alla distruzione dei rapporti di classe su cui si fonda lo sfruttamento nelle (ex) colonie e negli stati dominanti. Ciò nonostante, ricor- rono effettivamente ad azioni violente, talvolta di grande efficacia, contro un nemico che appare, da un punto di vista della tecnologia bellica, enormemente più dotato.

Può sembrare strano, agli sprovveduti, che la “teoria della guerriglia” germogli dallo stalinismo e dal post-stalinismo, per lunghi anni fautore del policentrismo democratico, della coesistenza pacifica, della “via nazionale al socialismo”, dell’interclassismo. In realtà, quella teoria non fu altro che la giustificazione di principio dell’imperialismo russo e della sua penetrazione violenta nelle economie in sviluppo di Asia, Africa e America latina; oppure rappresentò il programma di rivoluzione nazionale contadina di intere aree geostoriche, nelle quali l’inesorabile processo di sviluppo economico doveva far saltare in aria gli antichi vincoli sociali.

Non avremmo nulla da obiettare, se le rivoluzioni popolari che hanno attraver- sato il mondo nel secondo dopoguerra si fossero presentate come tali, non ne- gando il proprio carattere di rivolte nazionali democratiche e borghesi, e quindi autenticamente progressive, in grado dunque di risolvere le contraddizioni che impedivano l’emergere dei conflitti di classe in senso interamente moderno. Ma tutte quelle rivoluzioni, dalla Cina alla Bolivia, dall’Indonesia a Cuba, hanno pienamente utilizzato lo schema staliniano della “rivoluzione socialista in un paese solo”, al solo scopo di impedire all’unica classe realmente rivoluzionaria, il proletariato, di porsi alla guida di quei movimenti. Ostacolando la chiarifica- zione politica e il contenuto di classe di quei movimenti, esse hanno preteso di rovesciare le chiare indicazioni tattiche fissate dalla III Internazionale in merito al movimento anticoloniale ed antimperialistico: invece di alzare forte l’invito al proprio proletariato di fraternizzare con quello internazionale, lo hanno rin- chiuso nel proprio ghetto di sfruttamento capitalistico, in nome di un falso “so- cialismo” fatto di merci, denaro e ritmi bestiali di lavoro nelle fabbriche, nelle miniere e nelle piantagioni.

 

Primo, provvisorio bilancio

Ciò che contraddistingue l’ultimo secolo è, senza tema di smentite, l’inaudito svi- luppo di violenze che hanno saturato l’intero pianeta. Le pur sanguinosissime guerre di sistemazione nazionale nell’Europa del XIX secolo e le guerre napoleoniche ap- paiono ben poca cosa in confronto ai massacri delle due guerre mondiali: le prime, in un’epoca di capitalismo in sviluppo, erano volte a distruggere eserciti; le seconde, nella fase imperialistica, miravano a distruggere enormi masse di forze produttive e di uomini. Dopo la seconda di queste ultima, non c’è angolo della Terra che sia stato risparmiato da stragi e conflitti di varia intensità. La borghesia ne attribuisce in genere la causa a fenomeni locali, quando non personali e psicologici (guerre di carattere tribale, o religioso, o dovute a “pazzia” di qualche esaltato). Noi riteniamo che il mo- vente principale vada invece cercato nelle tensioni che, in quelle aree martoriate, si creano tra le principali potenze imperialistiche per mettere le mani su fette più o meno importanti di risorse organiche e minerali, oltre che di rendita, o per il controllo stra- tegico di regioni che possano garantire in futuro l’accesso a quelle medesime risorse. Resta il fatto che il quadro che il mondo offre dopo cinque secoli di sviluppo capita- listico nelle aree più “progredite”, e pochi decenni di devastazione imperialistica in quelle “arretrate”, è ben diverso dalla visione di eterno sviluppo e progresso che ne tracciarono i filosofi e gli economisti borghesi all’epoca delle rivoluzioni antifeudali. I congressi dei padroni del mondo, che si tengono ormai a tamburo battente, hanno all’ordine del giorno solo più la discussione su come ritardare il crollo dell’econo- mia mondiale, su come fingere di elargire qualche elemosina a questo o quel paese disastrato (naturalmente mascherando il vero intento, che è quello della rapina) e decidere misure contro prossime, prevedibili rivolte sociali. Protagonisti attivi della violenza mondiale, essi devono alterare il senso di quella violenza, trasformandola in lotta per la pace, per il benessere, per la felicità di tutti. Soprattutto, devono ottenere dalle masse assoggettate una cambiale in bianco, che garantisca loro piena libertà di azione e nuovi, lunghi margini di tempo per la realizzazione del loro mitico mondo di armonia sociale. Come è possibile che il proletariato, l’unica classe in grado di porre la parola fine a tutto ciò, resti così a lungo assente? Come è possibile che esso sembri aver delegato ogni forma di lotta su scala internazionale ad altre classi, sembri aver abdicato ai propri programmi di rivoluzione sociale?

Accanto ad altre, più antiche forme di controllo sociale, lo stalinismo è stato un ele- mento di prim’ordine nel processo di distruzione delle organizzazioni rivoluzionarie, ed ha saputo evitare alla borghesia internazionale quella resa dei conti finale che gli artefici della Terza Internazionale avevano scritto nella prima pagina del proprio pro- gramma.

Dovremmo rimproverare allo stalinismo di aver ecceduto nell’eclettismo politico o di aver cinicamente abusato dell’autorità che gli ha dato il potere dello Stato? Oppure di avere esagerato nell’uso della violenza o del disfattismo di fronte alle grandi forze del capitalismo internazionale? Contro l’antistalinismo odierno, noi sosteniamo che non è l’uso di metodi di polizia, né il sadismo controrivoluzionario o l’uso di metodi igno- bili che hanno reso lo stalinismo lo strumento della conservazione capitalistica, “ma è invece il pacifismo sociale che esso ha imposto in tutte le organizzazioni operaie.

E queste usciranno da questa sconfitta non per la strada della democrazia, dell’etica, della morale, dell’eclettismo ideologico, ma per quella della necessità della violenza e della dittatura” 77.

Lo stalinismo ha il merito storico di aver sfruttato ai fini della rivoluzione borghese la formidabile energia sociale liberata dalla rivoluzione proletaria del 1917. Suo compito teorico fu quello di mistificare il programma della rivoluzione comunista internazionale con quello della rivoluzione borghese nazionale. La vittoria di questo lugubre program- ma ha paralizzato il proletariato internazionale per ben oltre mezzo secolo. Se la rivo- luzione russa versò più sangue di quelle europee, è proprio perché lo stalinismo ebbe a distruggere non solo le resistenze anticapitalistiche nelle campagne, ma anche tutto ciò che restava delle correnti rivoluzionarie che avevano diretto il 1917. Esso si prese dunque in carico il compito internazionale cui, nei due anni dopo la rivoluzione, le flotte e gli eserciti europei non erano riusciti ad assolvere contro l’Armata rossa 78.

Vi è una tragica ironia storica nel destino della Russia. L’impero degli zar, che Marx ed Engels consideravano come il bastione della controrivoluzione europea, con lo stalinismo si è trasformato in una repubblica “comunista” che ha esercitato sul movi- mento rivoluzionario mondiale una influenza pari, se non peggiore.

Esso ha costituito dunque il primo esempio storico, che probabilmente resterà l’unico, di una rivoluzione capitalista che deve combattere allo stesso tempo l’inerzia storica di forme di produzione arcaiche e preborghesi e il proletariato comunista che lotta per mantenere il potere. Lo stalinismo fu dunque una rivoluzione, se lo si considera dal punto di vista dei residui feudali; e una controrivoluzione, se lo si considera dal punto di vista comunista.

Le condizioni storiche che hanno permesso la nascita dello stalinismo “storico” sono state dunque:

  1. all’interno, una situazione sociale arretrata, nella quale altre classi rispetto al prole- tariato industriale urbano si trovavano in una schiacciante maggioranza e la questione agraria, cui lo zarismo non era stato in grado di dare una sistemazione in una pro- spettiva pienamente capitalistica, era destinata a far sentire il proprio peso sull’intera società; in questo contesto, la perdita, da parte della classe operaia, del controllo sulle mezze classi si trasformò in subordinazione sul piano economico all’economia di mer- cato, e in sconfitta sul piano sociale, nei rapporti politici e giuridici;
  2. all’esterno, una fase di sconfitta generale sul piano internazionale delle lotte rivo- luzionarie, senza che a questa si sapesse opporre un ordinato ripiegamento dei partiti comunisti su posizioni di assoluta intransigenza programmatica, mettendo in salvo per la futura ripresa le esperienze di quelle lotte.

Su queste basi, e sulla teoria del socialismo in un paese solo, si fonderanno tutte le successive lotte nei paesi arretrati o nelle colonie, condannate perciò o ai massacri proletari (Cina 1927) o a limitarsi a rivoluzioni nazionali di stampo contadino: lotte importanti, certo, nel quadro dei contrasti imperialistici, ma combattute contro i principi della solidarietà internazionale del proletariato e, perciò, contro il comunismo. La penetrazione dell’ideologia rivoluzionaria contadina-piccolo borghese dei paesi arretrati, con il suo necessario corredo di alleanze interclassiste, nei paesi ad alto sviluppo industriale e quindi, in un certo senso, pienamente organizzati per la rottura rivoluzionaria e l’abbattimento della borghesia: questo è il prodotto finale dello sta- linismo. Solo la crisi irreversibile dell’imperialismo metterà la parola fine a questo deragliamento del dramma storico, benché il suo sviluppo abbia causato inaudite sof- ferenze al proletariato mondiale.

Conclusione

È evidente che, come sempre, con questo excursus sul passato non abbiamo avuto inten- zione di fare pura storiografia. La lotta (teorica, politica, organizzativa) contro ciò che si usa chiamare “stalinismo”79 è una lotta perenne, perché – in tutti i suoi aspetti – esso ha voluto dire abbandono del programma e della prospettiva comunista, e in quanto tale è destinato (in forme magari solo esteriormente diverse) a ripresentarsi come nemi- co del proletariato. Al di là di quanto ha rappresentato storicamente (la distruzione del movimento comunista), esso ha infatti voluto dire un totale ribaltamento del concetto stesso di partito, del rapporto fra partito e classe, della dimensione internazionalista, del rapporto con la democrazia borghese, delle prospettive delle lotte parziali e an- che e soprattutto della lotta finale, cioè del comunismo. Nato come controrivoluzione all’interno della Russia comunista e rapidamente estesosi sul piano internazionale, lo stalinismo, esaurito il proprio compito di lotta armata contro i partiti rivoluzionari, ha adeguato la propria funzione alle vicende storiche del secondo dopoguerra. La ripresa economica degli anni Cinquanta, cui fece seguito nei decenni successivi, in Russia, un inesorabile lento declino dei ritmi di accumulazione e un progressivo intrecciarsi di cri- si dell’apparato industriale e finanziario, ha necessariamente modificato teoria e prassi dell’ideologia stalinista. Restando come suo principio e suo fine l’anti-internazionali- smo (e perciò la negazione dell’intero programma rivoluzionario marxista), essa si è rapidamente allineata a tutti i movimenti che fanno del primitivismo (cioè, del rifiuto dell’organizzazione di classe), dell’operaismo (cioè, dell’isolamento del proletariato all’interno dei propri luoghi di lavoro e di pena quotidiana), della democrazia parteci- pata (cioè, della dottrina borghese, nata con le rivoluzioni antifeudali, secondo cui non più le classi ma gli individui singoli sono dotati di una “forza” in grado di dirigere la storia) la propria dottrina controrivoluzionaria. A dispetto di chi ritiene di aver sepolto per sempre lotta di classe, rivoluzione sociale e comunismo, la storia del XX secolo ha significato, per l’umanità, una straordinaria e feconda lezione nel processo di chiarifica- zione dei destini della società borghese, destinata a soccombere per morte violenta. Ma di questa lezione si potranno cogliere pienamente i frutti solo quando piazza pulita sarà fatta del furto storico che lo stalinismo ha operato per decenni nelle file del proletariato: quello del nome e delle bandiere del comunismo rivoluzionario.

Quali sono dunque le ragioni della nostra lotta? Lottare contro lo stalinismo è tutt’uno che lottare contro tutte le ideologie messe in campo dal nostro nemico di classe nel suo percorso storico e sulla base delle proprie contingenze locali (fascismo, democrazia). Ogni tentativo attuato dalla borghesia e dai suoi manutengoli di trasfor- mare la nostra teoria e le nostre organizzazioni di classe nel loro opposto, nei belati “per un mondo migliore”, per “più giustizia e benessere”, per un “ambiente vivibile”, per “lavoro per tutti”, fingendo di dimenticare l’inesorabile avanzare della crisi e delle guerre, sottacendo sempre che quando si parla di lavoro nella presente economia si parla di lavoro salariato, cioè di vendita sottopagata di forza-lavoro, e quindi, infine, di produzione di capitale, è un tentativo che ha avuto successo su masse disorientate dalle continue promesse di un “futuro migliore” contro l’orrore del presente, solo perché i grandi tentativi di rivolta sociale che percorsero il mondo nei decenni scorsi furono soffocati nel sangue e nell’inganno riformista.

A queste masse noi ancora ci rivolgiamo ricordando che il comunismo non è ciò per cui da sempre il loro nemico di classe le invita ad andare a votare. Non è la scelta di questo o quell’amministratore più o meno corrotto dello Stato o del Comune. Non è lo zuccherino dell’aumento di qualche centesimo nella busta-paga (che comunque evaporerà prontamente al calore dell’inflazione, delle tasse, delle necessità del capi- tale di fronteggiare la concorrenza internazionale con il taglio di salari e di quote di “stato sociale”). Non è il ricorso al rispetto di “leggi morali superiori” contro corrotti e corruttori.

Il marxismo ha luminosamente dimostrato che, da un secolo, la necessità storica che da circa tre o quattro millenni ha condotto l’umanità all’origine e ai tormenti delle società divise in classi è ormai priva di senso, è pienamente superata. Nella sua fase storica progressiva, il capitalismo ha avuto l’immenso ruolo di sviluppare all’estremo le forze produttive. È maturo ormai da molto tempo il processo per cui l’intera società, e non più la classe borghese, si impadronisca con la violenza di quelle forze produt- tive. Per usare le espressioni di Engels nell’Antidühring, solo quando le forze sociali che oggi agiscono in modo cieco, violento e distruttivo, saranno comprese nella loro natura, esse, nelle mani dei produttori associati, dunque dell’intera società, potranno essere trasformate da demoniache dominatrici in docili serve. Quando le odierne forze produttive saranno considerate in questo modo, all’anarchia sociale della produzione subentrerà una regolamentazione socialmente pianificata della produzione, risponden- te ai bisogni sia della comunità che di ogni singolo.

“Nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e ap- punto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra…”80. Vogliamo un’ultima, precisa definizione di cosa sarà il comunismo, dopo la distru- zione dei rapporti sociali e di interi settori parassitari dell’economia capitalistica? La troviamo in uno dei nostri testi fondamentali – e sia essa la pietra tombale di ogni ideologia stalinista:

A. Abolizione dell’amministrazione della produzione per esercizi di aziende. “B. Abolizione della distribuzione col mezzo dello scambio mercantile e mone- tario, sia per i prodotti-merci che per la forza umana di lavoro.

C. Piano sociale unitario, misurato da quantità fisiche e non da equivalenti economici, dell’assegnazione delle forze di lavoro, materie prime, strumenti, ai vari settori produttivi e dell’assegnazione dei prodotti nei settori di consumo. “Formule volgarmente errate sono quelle che sia socialismo la soppressione del plusvalore e la restituzione dell’intero frutto ad ogni produttore. “Socialismo è l’abolizione di ogni valore mercantile e di ogni lavoro costretto e pagato, col dono del sopralavoro di ciascun singolo alla società, non ad altri né a se stesso”81.

Si facciano dunque avanti stalinisti ed antistalinisti, con i loro programmi di sviluppo nazionale, di crescita e di concorrenza. Si facciano avanti gli adoratori di riforme e gli apologeti del lavoro salariato “per tutti”. Si facciano avanti gli antimperialisti, lontani e tristi eredi democratici dello stalinismo, che “lottano” per lo sviluppo e l’indipen- denza (!) delle economie nazionali fatte di aziende, di banche e di scambi “da pari a pari”. Si guardino in faccia, e si riconosceranno per quello che sono: i cani da guardia più sicuri e fidati del capitale.

 

Note

45. Per un approfondito bilancio della Guerra di Spagna, si vedano i nostri articoli La funzione controrivoluzionaria della democrazia al banco di prova della Spagna, 1930-1939, in il programma comunista, 15, 16, 17, 18/1976.
46. L’intero testo dell’“Appello” è stato ripubblicato all’interno del volume di Bruno Grieco (vera acrobazia .. revi- sionismo storico, fin dal titolo!), Un partito non stalinista, Marsilio 2004.
47. Tra le numerose vicende, si potranno vedere quelle narrate ad in E. K. Poretski, I nostri, Ed. Graphos 1994, e in H. Höhne, La vera storia dell’“Orchestra rossa”, Garzanti 1972.
48. Il lettore può approfondire i temi trattati di seguito nei seguenti lavori di partito: “Il proletariato nella seconda guerra mondiale e nella ‘Resistenza’ antifascista”, in il programma comunista, nn. 7, 9, 10/1975; Dialogato coi mor- ti, ed. il programma comunista, 1956; “Confluenza nella unitaria dottrina storica internazionalista dei grandi apporti delle lotte rivoluzionarie nei paesi moderni”, in il programma comunista, 23/1964 e segg.
49. Silvestri, Matteotti, Mussolini e il dramma italiano, ed. Cavallotti, Milano 1981.
50. A. Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria. Vol. I: 1919-1923, Editori Riuniti, pp. 543-44.
51. “La lotta partigiana italiana fuori delle interpretazioni patriottarde”, Azione Comunista, nn. 42 e 43/1959.
52. Non è certo un caso che, nei casi in cui “partigiani comunisti” sembrarono sul punto di prendere possesso con la forza delle armi di piccoli comuni nelle campagne italiane, il PCI si sia affrettato ad agitare la carota, con la minaccia (poi più volte attuata) di usare il bastone.
53. “Il proletariato nella seconda guerra mondiale e nella ‘Resistenza’ antifascista”, in il programma comuni- sta, 10/1975 (si veda anche l’opuscolo dal medesimo titolo, che riproduce anche numerosi materiali di partito dell’epoca).
54. Lenin, “Discorso in difesa della tattica dell’Internazionale Comunista”, in Opere complete, 32, Editori Riuniti 1967, pp. 447-49.
55. “Tesi sul compito storico, l’azione e la struttura del partito comunista mondiale, secondo le posizioni che da oltre mezzo secolo formano il patrimonio storico della Sinistra comunista (Tesi di Napoli, luglio 1965)”, ora in In difesa della continuità del programma comunista, il programma comunista, Milano 1989, p.178.
56. Alfred Rosmer, A Mosca al tempo di Lenin, Jaca Books, Milano 1973.
57. L’episodio è ricordato in Il movimento operaio francese dal 1914 al 1921, in il programma comunista, 15/1963.
58. “Thorez au Panthéon national!”, in Le Prolétaire, 13/1964.
59. F. Platone, “Vecchie e nuove vie della provocazione trotzkista”, Rinascita, aprile 1945.
60. I presupposti della cosiddetta “riorganizzazione scientifica del lavoro” furono perfettamente espressi già da Tay- lor: dimezzamento dei costi, riduzione del personale, raddoppio dei salari degli operai superstiti, triplicandone la produttività. F. W. Taylor, Processo a Taylor, a cura di D. Di Masi, ed. Olivares, Milano 1992.
61. “ Le prospettive del dopoguerra in relazione alla Piattaforma del Partito”, in Prometeo, n. 3/1946, ora in Per l’or- ganica sistemazione dei principi comunisti, il programma comunista, Milano 1973 , p. 154.
62. Cfr., oltre alle già citate Tesi di Lione, la “Lettera di Amadeo Bordiga a Karl Korsch”, riprodotta in La crisi del 1926 nel Partito e nell’Internazionale, I quaderni del Programma Comunista, n.4/1980 (di prossima pubblicazione).
63. Dialogato coi morti, il programma comunista, 1956, pag. 6.
64. “Tesi sulla questione nazionale e coloniale”, in Storia della sinistra comunista. 1919-1920, , p.719.
65. Si ricorderà che Sun Yat-Sen, autentico padre spirituale di Mao e presidente della Repubblica cinese dal 1911, aveva propugnato un programma di radicalismo borghese molto avanzato, col doppio scopo di cercare di evitare lo sviluppo del capitalismo e di conseguire una riforma agraria radicale (nazionalizzazione della terra): programma ampiamente analizzato e fatto a pezzi fin dal 1912 da da Lenin.
66. “Non è con i ‘pii desideri’ che si fermerà la corsa distruttiva del capitalismo. Solo il proletariato internazionale guidato dal suo partito potrà farla finita una volta per tutte con il sistema del profitto, dello sfruttamento, della distru- zione e delle guerre”, in il programma comunista, 4/2001.
67. Il lettore potrà proficuamente integrare il presente capitolo con numerosi testi di partito, tra cui menzioniamo: “Appello per la riorganizzazione internazionale del movimento (1949)”, in Lezioni delle controrivoluzioni, Edizioni Il programma comunista, 1951 e 1981; Plaidoyer pour Staline, in il programma comunista, 14/1956; “En marge de nôtre appel: stalinisme, antistalinisme et paix sociale, in Programme communiste, n. 3/1958 ; “Organizzazione, conseguenza della continuità tattico-programmatica del partito storico nella sua materiale configurazione”, in il pro- gramma comunista, nn. 18 e 19/1972.
68. “Movimento sociale e lotta politica”, in Battaglia comunista 43/1949.
69. Marx, F. Engels, Il partito e l’Internazionale, Ed. Rinascita 1948. 70. Idem, pp. 28-29.
70. Idem, pp. 28-29.

71. Si veda ad es. la “Seduta del Comitato centrale della Lega dei comunisti del 15 settembre 1850”, in K. Marx, F. Engels, Opere complete, Ed. Riuniti, vol. X, p.626 e segg.; la “Rassegna maggio-ottobre [1850]”, Neue Rheinische Politische-ökonomische Revue, V-VI fascicolo, in Opere complete, p. 501 e segg.

72. “Seduta del Comitato ..”, cit., p. 627.

73. Per esempio: “Questi fatti [la lotta per il potere tra Stalin, Zinoviev, Bucharin, Trotzky – ndr] aprirono la via a Sta- lin, il più astuto, il più forte e quello che aveva meno scrupoli tra tutti i presunti eredi, e gli permisero di arrivare, con una tattica che si direbbe ripetere quella del combattimento tra Orazi e Curiazi, al potere totale” (A.Tasca, Autopsia dello stalinismo, Comunità, 1958, p. 14).
74. Dialogato coi morti, cit., p. 117.
75. H. Carr, La rivoluzione bolscevica. 1917-1923, Einaudi 1964, p. 158.
76. “Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe”, in Prometeo, 8/1947 (oggi in Partito e classe, Edizioni il pro- gramma comunista, 1972, p. 104).
77. “En marge de nôtre Appel”,cit. , pag. 3.
78. Basti pensare all’entusiasmo con cui la borghesia internazionale accolse le parole del Consigliere della Corona e Premio Stalin 1951, l’avvocato inglese N. Pritt, convocato a Mosca per i processi contro i bolscevichi nel 1936: “Io considero il modo in cui gli accusati sono stati trattati come un esempio da seguire per il mondo intero” (cit. in A. Tasca,, p. 22).
79. Ricordiamo quanto abbiamo scritto in apertura di questo lavoro: noi non demonizziamo l’individuo, che sappia- mo essere espressione di forze storiche, sociali ed economiche – nel caso specifico, delle forze economiche e sociali borghesi entro le cui categorie (e catene) la rivoluzione russa è rimasta rinchiusa, in assenza dell’espandersi della rivoluzione comunista in Occidente, e che – originariamente dominate e indirizzate dal Partito rivoluzionario in un’ottica sempre internazionale – hanno poi preso il sopravvento sul Partito stesso, facendone lo strumento dell’accu- mulazione capitalista in Russia. Negli anni Trenta, per indicare quest’indirizzo, si usava il termine “centrismo”, che oggi non avrebbe alcun senso; non si andrebbe troppo fuori dal seminato, usando anche il termine “menscevismo”, perché proprio del menscevismo lo stalinismo riprende molte pratiche – ma anche questo sarebbe termine insuffi- Comunque lo si voglia chiamare, esso ha rappresentato un aspetto della generale controrivoluzione borghese, scagliatasi contro il movimento operaio e comunista a partire dalla metà degli anni Venti.
80. Marx, F. Engels, Ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1958, p. 29.
81. “Codificato così Il marxismo agrario” in il programma comunista 12/1954.
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