Con scarponi chiodati, la crisi economica prosegue la sua marcia, schiacciando milioni di vite proletarie ovunque nel mondo. E' una crisi di sovrapproduzione di merci e capitali, una crisi strutturale, cioè connaturata al modo di produzione capitalistico. Non è un'anomalia o una patologia dovute a “cattiva gestione”, a “oscuri complotti”, all'“egoismo” di singoli o istituzioni, come da più parti vogliono farci intendere: è la norma, la fisiologia stessa del capitalismo, che ha come propria legge ferrea quella di produrre sempre di più con l'obiettivo di accumulare senza sosta profitti, rendite, interessi.

 

A questa crisi strutturale, la classe dominante di tutti i paesi reagisce nell'unica maniera che le è nota: torchiando sempre più i proletari e creando (non per volontà o cattiveria, ma per le leggi stesse del modo di produzione capitalistico) le premesse di un nuovo macello mondiale che distrugga quanto si è prodotto in eccesso e la stessa sovrappopolazione proletaria (non si dimentichi: Prima guerra mondiale, almeno 17 milioni di morti; Seconda guerra mondiale, almeno 71 milioni di morti). Da questo “bagno di sangue rigeneratore”, il modo di produzione capitalistico uscirà imponendo poi alle nuove generazioni un ulteriore immenso sforzo produttivo, come è già successo nel primo e nel secondo dopoguerra. Fino a che... il ciclo riprende.

Il proletariato non ha subito passivamente lo sfruttamento nel corso delle crisi susseguitesi negli ultimi quarant'anni – da quando cioè il ciclo espansivo dell'economia mondiale s'è inceppato. Soprattutto nei cosiddetti “paesi periferici”, giunti di recente alla piena maturità capitalistica, i proletari si sono battuti contro l'attacco portato alle loro condizioni di vita e lavoro (Egitto, Tunisia, Estremo Oriente, Cina), anche se le loro lotte sono state presto bloccate e incanalate verso miserabili rivendicazioni democratiche e piccolo-borghesi, nazionaliste e religiose. Nel cosiddetto “Occidente avanzato”, i proletari hanno invece faticato (faticano ancora) a scrollarsi di dosso le camicie di forza delle illusioni e delle promesse sparse a piene mani da tutti i partiti dell'arco costituzionale, in guerra come in pace, nel corso degli ottant'anni della più lunga epoca di violenza che il movimento operaio e comunista abbia subito; illusioni e promesse accompagnate da briciole ben materiali – sempre, comunque, strappate con la lotta e non generosamente donate e destinate a scomparire via via che le crisi si susseguivano.

Ma, loro malgrado, quegli scarponi chiodati stanno sbriciolando anche questi muri, eretti intorno ai proletari per tenerli in gabbia e obbligarli a piegare il groppone senza lamentarsi troppo. Negli ultimi mesi, sull'onda anche di lotte condotte con generosità, e purtroppo nell'isolamento, da lavoratori immigrati nei vari paesi (proletari puri, che non hanno nulla da perdere se non le loro catene), abbiamo assistito – e seguito con interesse e attenzione, ove possibile facendo sentire la nostra voce – a piccoli segnali di risveglio, in Italia come in Francia, Gran Bretagna, Spagna, negli stessi Stati Uniti e nella stessa Germania. Piccoli segnali, ripetiamo: ma dimostrazione concreta, materiale, che non è possibile subire e accettare in eterno – che la pressione, giunta al livello di guardia, non può far altro che produrre l'esplosione.

Al pericolo di quest'esplosione, la classe dominante si prepara da tempo. Lo fa con le armi (ideologiche, politiche, religiose) della retorica sull'“innovazione”: la crisi (economica e sociale) sarebbe causata da arretratezze che vanno superate tramite un “nuovo salto di qualità”, “nuove riforme strutturali”, “nuovi investimenti”, “nuove politiche” – tutta vecchia fuffa, come noi comunisti abbiamo sempre denunciato e dimostrato. Ma, attenzione, proletari! La parola “innovazione” fa rima con un'altra parola, destinata a risuonare sempre più aggressiva sui luoghi di lavoro, nelle strade e nelle piazze, sui mezzi di comunicazione di massa, nei rauchi ragli dei politicanti e degli scribacchini, dei preti e soprattutto dei poliziotti: la parola repressione.

La classe dominante borghese conosce bene il proprio nemico, anche quando esso sembra dormiente. Mette in campo i propri eserciti, le “forze dell’ordine”, le proprie istituzioni: partiti politici parlamentari, sindacati diventati da tempo strutture portanti dell'ordine capitalistico, intellettuali pronti ad affittarsi al miglior offerente, la magistratura che è parte di quell'ordine… E, per l’appunto, lo Stato, con le sue bande repressive legali e illegali. I primi segnali li abbiamo già visti, in Italia come altrove: i proletari picchiati, imprigionati, perseguitati, perché reagiscono al massacro delle vite proprie e delle proprie famiglie – proletari indigeni e proletari immigrati, purtroppo ancora divisi sotto il manganello del poliziotto e non ancora uniti in un fronte di lotta.

Attenti, proletari! A questa repressione occorre saper rispondere con coraggio e senza tentennamenti. E' necessario che tornino a risuonare con sempre maggior vigore, rabbia e consapevolezza, le parole d'ordine del movimento operaio: difesa intransigente delle proprie condizioni di vita e di lavoro, rifiuto di ogni ricatto che subordini quelle condizioni alle necessità superiori dell'economia nazionale (e soprattutto, in un futuro che potrebbe non esser lontano, dello sforzo bellico), solidarietà piena e attiva con i proletari più sfruttati e marginalizzati (immigrati, donne, precari, disoccupati, pensionati), estensione del fronte di lotta per difendersi dagli attacchi delle bande legali e illegali dello Stato (che è il braccio armato della classe al potere)...

Questa risposta di difesa, però, per avere successo, non può essere circoscritta, non può essere fine a se stessa. Essa deve essere il necessario allenamento all'attacco. Non si tratta, banalmente, di “due fasi”: oggi la difesa, domani l’attacco. Se condotta e organizzata con la corretta prospettiva (quella della preparazione delle condizioni di una ripresa della lotta di classe con finalità rivoluzionaria), quella lotta di difesa è già un primo passo verso l'attacco, perché comincia a mettere in discussione i rapporti di forza tra sfruttati e sfruttatori.

In tutto questo, non ci stanchiamo di ripetere (e di operare perché ciò divenga possibile), fondamentale e imprescindibile è la presenza militante del partito rivoluzionario, il suo rafforzamento e radicamento internazionali. Le avanguardie proletarie di lotta, che, nel corso delle loro battaglie (cui i nostri militanti contribuiscono e contribuiranno), hanno visto ben schierati i propri nemici, non tarderanno a riconoscerlo e a orientarsi verso il nostro partito, il Partito comunista internazionale, che ha saputo per oltre ottant'anni resistere a tutte le forze convergenti della controrivoluzione borghese e mantenere saldo e forte il filo della tradizione comunista.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°06 - 2014)

 

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