Se prendiamo due fatti molto lontani e di peso e valenza anche molto diversi fra loro come la guerra in Irak e lo sciopero degli auto-ferrotranvieri in Italia (piutto-sto che un qualunque altro epi-sodio di lotta rivendicativa scoppiata in Francia o in Germania o altrove nel cuore del mondo capitalista) e li studiamo attentamente, ci accorgiamo subito di un elemento di analisi comune a entrambi gli avvenimenti. La guerra in Irak, condotta dal capitalismo più forte (quello statunitense) per il mantenimento della propria suprema-zia planetaria attraverso il controllo di un’area economicamente e strategicamente vitale e contro le mire dei suoi concorrenti (Europa, Russia, Giappone, Cina) in una fase di sempre più grave crisi mon-diale del processo di accumulazione e valorizzazione capitalistico, s’è impantanata e sta suscitando acute reazioni: che però non riescono a uscire dal vicolo cieco di una “resistenza popolare” armata, guidata e indirizzata da fazioni esplicita-mente borghesi locali (e non solo: quanti sono gli interessi europei e asiatici nell’area!), in reciproca concorrenza e su-bordinate di fatto alle dinami-che del gioco di appetiti e conflitti interimperialistici, le cui uniche vittime continuano a essere il proletariato e le masse diseredate (1). Ad anniluce da Baghdad e dintorni, l’agitazione degli au-toferrotranvieri ha costituito un ottimo esempio del modo in cui la classe proletaria (anche nei suoi segmenti tradizional-mente più “protetti”) sappia istintivamente riappropriarsi di parole d’ordine e azioni di lotta di stampo squisitamente clas-sista come lo sciopero senza preavviso e senza limiti di tempo e di spazio, ma non possa di per sé andare oltre i limiti di un’azione rivendicativa, segnando il passo e rifluendo, proprio mentre altre categorie scendono in lotta (per es., gli o-perai delle acciaierie di Terni, rimanendo a titolo esemplifi-cativo in Italia). to localizzata come teatro di combattimento, e attacco economico alle condizioni materiali dei lavoratori salariati so-no, entrambi, eventi che non possono che trovare risposte limitate, isolate e alla lunga i-nadeguate o impotenti, se questa risposta rimane circoscritta nell’angusto spazio e tempo delimitato dalla mancanza del Partito politico del movimento proletario internazionale. In entrambi i casi – sia sul piano politico generale, sia su quello economico specifico – a farsi sentire con forza è dunque la necessità del partito ri-voluzionario, il solo che possa far uscire il proletariato me-diorientale dal vicolo cieco di una lotta (anche armata, anche cruenta) condotta per finalità non sue e che, contempora-neamente, sappia organizzare e guidare il proletariato delle metropoli capitalistiche oltre i limiti (che da solo o sponta-neamente non può superare) delle lotte rivendicative e par-ziali, per prepararlo e orientar-lo verso l’unificazione e cen-tralizzazione delle lotte in di-fesa delle proprie condizioni materiali e inquadrarlo e gui-darlo verso l’abbattimento del modo di produzione capitali-stico, quando le condizioni og-gettive siano mature. Il Partito comunista rivoluzionario è il solo che possa operare, attra-verso la sua attività comples-siva e nel quotidiano e pazien-te lavoro (che in quella atti-vità rientra) a fianco e tra le fila della classe operaia, la necessaria saldatura fra lotte parziali rivendicative e lotta generale per l’emancipazione della classe proletaria, fra pro-letariato del centro e delle pe-riferie dell’imperialismo mondiale, fra drappelli e set-tori diversi di un unico eserci-to proletario. Sui caratteri del partito rivolu-zionario siamo tornati più e più volte, sull’arco di una tra-dizione che risale sia alle gran-di lotte degli anni ’20 del ‘900 sia ai capisaldi teorici, programmatici, tattici fissati fin dal 1848, e che, sola, ha saputo trarre le vitali lezioni delle controrivoluzioni. Tale partito monolitica, su princìpi inattac-cabili, su un programma preci-so e noto a tutti i militanti, su una “rosa di eventualità tatti-che” saldamente ancorate ai princìpi e alla teoria, su un’or-ganizzazione chiusa e discipli-nata, temprata politicamente, radicata internazionalmente, capace di sviluppare, anche quando la situazione generale è storicamente sfavorevole (come continua a esserlo oggi), tutta l’ampia gamma delle attività che lo contraddistin-guono, “tutte le forme di atti-vità proprie dei momenti favo-revoli nella misura in cui i rap-porti reali di forze lo consentono” (2). Tale partito deve con-tinuare ad affinare e scolpire la teoria nata in un sol blocco, studiando e analizzando in maniera incessante le realtà e le manifestazioni del modo di produzione capitalistico e pre-parando così le future genera-zioni di militanti ai compiti e-normi che spetteranno loro (nell’immediato e nel futuro: guidare lo sviluppo rivoluzio-nario, prendere il potere, diri-gere la dittatura proletaria, introdurre tutte le misure di tipo politico, sociale ed economico destinate a dischiudere la pro-spettiva del socialismo – cose non da poco!). Deve lavorare a contatto con la classe operaia per combattere apertamente le influenze borghesi e piccolo-borghesi che sempre s’esercitano su di essa paralizzandola, corrompendola, deviandone gli sforzi verso finalità non sue, con l’obiettivo, se e quan-do i rapporti di forza lo con-sentano, di influenzarne l’indirizzo, di organizzare e dirigere le sue lotte oltre i limiti puramente rivendicativi, verso o-biettivi politici. Perché, come ci ha insegnato Lenin nel Che fare?, “La coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta e-conomica, dall’esterno della sfera dei rapporti fra operai e padroni” (3O. Non c’è in questo, non ci può essere, un solo grammo di pri-mitivismo e spontaneismo, di attivismo e volontarismo: “credere che col gioco di que-te e largamente organizzate, si possano spostare le situazioni e determinare, da uno stato di ristagno, la messa in moto del-la lotta generale rivoluziona-ria, questa è ancora una conce-zione volontarista che non può e non deve trovar posto nei metodi della Internazionale marxista. Non si creano né i partiti né le rivoluzioni. Si dirigono i partiti e le rivoluzioni, nella unificazione delle utili e-sperienze rivoluzionarie internazionali, allo scopo di assicu-rare i migliori coefficienti di vittoria del proletariato nella battaglia che è l’immancabile sbocco dell’epoca storica che viviamo” (4). E non c’è in questo nemmeno un grammo di fatalismo e attendismo, per cui il partito prima o poi, non si sa bene né co-me né quando, risorgerà: sap-piamo fin troppo bene che il partito deve sapere attendere le masse, ma che le masse non possono essere messe in alcun modo, pena la disfatta, nella condizione di dover attendere il partito, la cui formazione e preparazione deve di gran lun-ga precedere i momenti in cui la classe proletaria potrà diret-tamente contendere alla bor-ghesia il dominio politico. Il Partito comunista – ed è questo che distingue il marxi-smo da tutte le schiere di ribel-li e oppositori di varia natura – è un organo della classe prole-taria, ma non è una sua parte, nel senso che non si sprigiona da essa ma dalla necessità sto-rica di un modo di produzione superiore al capitalismo dissi-patore di risorse e uomini. Questo Partito non nasce dalle lotte spontanee né si può im-provvisare; esso è il prodotto della storia del movimento o-peraio da Marx ad oggi e la sua teoria monolitica – restau-rata alla luce delle lezioni del-le controrivoluzioni – ne costi-tuisce l’arma fondamentale senza la quale esso non po-trebbe esistere o agire come soggetto storico. Da tutto ciò (e il tema è enorme e non cesseremo di affrontarlo) discende anche la necessità della preparazione rivoluzio-naria del partito e della classe: senza di essa, senza il lungo, a-nonimo, sotterraneo, lavoro controcorrente (di chiarifica-zione teorica e di intervento at-tivo: i due aspetti sono inestri-cabilmente legati insieme), senza questa lotta politica a 360 gradi, rivolta a ogni aspet-to della società borghese e con-tro le organizzazioni che ema-nano da essa, per quanto si di-chiarino operaie o proletarie, non v’è partito, non v’è classe operaia che impari a lottare per sé, non v’è prospettiva rivolu-zionaria, non ci potrà mai esse-re un attacco diretto volto ad abbattere le basi politiche del dominio di classe borghese, non vi potrà mai essere una organizzazione della società cor-rispondente allo sviluppo armonico della Specie Umana. E i proletari continueranno a lot-tare per briciole che verranno loro subito sottratte e a farsi massacrare per cause non loro.

 

Note:

1. Si vedano le ampie analisi contenute nell’arti-colo in due parti intitolato “La seconda guerra del Golfo. La catena delle guerre imperialiste non si spezzerà se le lotte contro il capitale non ritrove-ranno la strada del marxismo rivoluzionario” e pubblicato sui nn.4 e 5/2003 di questo giornale.

2. “Considerazioni sull’organica attività del parti-to quando la situazione è storicamente sfavorevo-le (1965)”, in In difesa della continuità del proste forze, sia pure egregiamengramma comunista, Edizioni il programma co-munista, 1970, p. 166.

3 Lenin, Che fare?, Cap. III: “Politica tradunio-nista e politica socialdemocratica” (vale la pena di ricordare che il termine “socialdemocratico” in questo caso vale “comunista”).

4 “Partito e azione di classe” (1921), in Partito e classe, Efdizioni Il programma comunista, 1972, p. 46.

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2004)

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