Poiché riteniamo di fondamentale importanza proseguire con la pubblicazione di materiali di inquadramento teorico generale, prima di passare all'analisi specifica della crisi economica in corso, dal Libro III del Capitale (Sez. III, cap. XV, par. 3; alle pp.320-331 dell'edizione Utet), riportiamo il paragrafo dal titoloEccesso di capitale con eccesso di popolazione”. Qui Marx lavora in modo specifico sulla realtà e dinamica delle “crisi di sovrapproduzione di merci e di capitali”, argomento che ha già affrontato in modo specifico nelle Teorie sul plusvalore (vol. II, cap. XVII; alle pp.517-597 dell'edizione Editori Riuniti), ove prende di mira la “teoria dell’accumulazione di Ricardo”, e nei Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica 1857-1858 (vol. II; alle pp.1-31 dell'edizione La Nuova Italia). Il paragrafo 3 si inserisce in un capitolo del Libro III del Capitale, il XV, di estrema importanza: quello in cui viene chiarito lo “Sviluppo delle contraddizioni intrinseche della legge della caduta tendenziale del saggio medio di profitto”. Nelle prime pagine del capitolo, Marx introduce i caratteri generali (“Generalità”); poi, espone il “Conflitto tra estensione della produzione e valorizzazione”; il terzo paragrafo è dedicato alla “crisi sovrapproduzione di merci e di capitali”; le “Integrazioni” completano il capitolo. E’ bene chiarire che il paragrafo 3 non esamina “questa” o “quella” crisi: esso rappresenta il fondamento teorico attraverso cui esaminare ogni crisi di sovrapproduzione. 


 

Eccesso di capitale con eccesso di popolazione

Con la caduta del saggio di profitto cresce il minimo di capitale che dev’essere nelle mani del singolo capitalista a scopo d’impiego produttivo del lavoro; che è richiesto sia per il suo sfruttamento in generale, sia affinché il tempo di lavoro impiegato sia il tempo di lavoro necessario per la produzione delle merci, affinché non superi la media del tempo di lavoro socialmente necessario per produrre le merci. E nello stesso tempo cresce la concentrazione, perché al di là di certi confini un grande capitale con basso saggio di profitto si accumula più rapidamente che un piccolo capitale con alto saggio di profitto. A sua volta questa concentrazione crescente, raggiunto un certo livello, provoca una nuova caduta del saggio di profitto.

La massa dei piccoli capitali dispersi viene così trascinata sulla via dell’avventura: speculazioni, frodi creditizie, frodi azionarie, crisi. La cosiddetta pletora di capitale si riferisce sempre essenzialmente o alla pletora del capitale per cui la caduta del saggio del profitto non trova un compenso nella sua massa – ed è questo sempre il caso per i capitali freschi di nuova formazione – o alla pletora che questi capitali incapaci di azione propria e indipendente mettono, sotto forma di credito, a disposizione di dirigenti dei grandi rami d’affari. Questa pletora di capitale trae origine dalle stesse circostanze che provocano una sovrappopolazione relativa ed è quindi un fenomeno complementare di quest’ultima, benché le due si trovino su poli opposti, capitale inutilizzato da una parte e popolazione operaia inutilizzata dall’altra.

Perciò sovrapproduzione di capitale, non di singole merci – sebbene la sovrapproduzione di capitali implichi sempre una sovrapproduzione di merci – non significa altro che sovraccumulazione di capitale. Per capire cosa sia questa sovraccumulazione (la sua analisi approfondita segue più oltre), non c’è che da supporla come assoluta. Quando sarebbe assoluta la sovrapproduzione di capitale – e una sovrapproduzione che non si estenda a questo o quel campo della produzione, o a un paio di settori importanti della produzione, ma sia assoluta nella sua stessa estensione, quindi abbracci tutti i rami dell’attività produttiva? Si avrebbe sovrapproduzione assoluta non appena il capitale addizionale per lo scopo della produzione capitalistica fosse=0.

Ma lo scopo della produzione capitalistica è la valorizzazione del capitale, cioè l’appropriazione di pluslavoro, la produzione di plusvalore, di profitto. Se dunque il capitale fosse cresciuto, in rapporto alla produzione operaia, in una proporzione tale che non si potesse né prolungare il tempo di lavoro assoluto fornito da questa popolazione, né estendere il tempo di plusvalore relativo (cosa, quest’ultima, comunque inattuabile nel caso in cui la domanda di lavoro fosse molto forte e quindi i salari avessero la tendenza a salire); se dunque il capitale accresciuto producesse solo una massa di plusvalore equivalente o persino inferiore a quella prodotta prima della sua crescita, allora si avrebbe una sovrapproduzione assoluta di capitale; cioè il capitale accresciuto C + ΔC non produrrebbe un profitto maggiore o ne produrrebbe perfino uno minore che il capitale C prima del suo incremento di ΔC.

In entrambi i casi, si verificherebbe pure una forte ed improvvisa caduta del saggio generale di profitto, questa volta però a causa di un mutamento nella composizione del capitale dovuta non allo sviluppo della forza produttiva, ma ad un aumento nel valore monetario del capitale variabile (per effetto dei salari cresciuti) ed alla diminuzione ad esso corrispondente nel rapporto fra pluslavoro e lavoro necessario.

Nella realtà, la cosa si presenterebbe in modo che una parte del capitale resterebbe totalmente o parzialmente inoperosa (perché dovrebbe, prima di potersi valorizzare, scacciare dalla sua posizione il capitale già in funzione) e l’altra sotto la pressione del capitale inutilizzato o semi-inutilizzato, si valorizzerebbe a un tasso di profitto inferiore. E qui sarebbe indifferente che una parte del capitale addizionale subentrasse al vecchio e questo così occupasse un posto nel capitale addizionale: si avrebbe sempre da un lato la somma di capitale originaria e dall’altro la somma addizionale. La caduta del saggio di profitto sarebbe accompagnata questa volta da una diminuzione assoluta della massa del profitto, perché in base alle nostre ipotesi, la massa della forza lavoro impiegata non potrebbe essere accresciuta né aumentato il saggio del plusvalore, quindi neppure la sua massa. E la massa di profitto diminuita dovrebbe essere calcolata su un capitale totale accresciutosi.

Ma, anche supponendo che il capitale occupato continui a valorizzarsi al vecchio saggio di profitto, e quindi la massa del profitto rimanga invariata, essa si calcolerebbe pur sempre su un capitale totale accresciuto, e anche questo implica una caduta del saggio di profitto. Se un capitale totale di 1000 dava un profitto di 100 e dopo il suo aumento a 1500 ne dà ancora soltanto uno di 100, nel secondo caso 1000 rende ancora soltanto 66 2/3. La valorizzazione del vecchio capitale avrebbe subito una diminuzione assoluta: nella nuova situazione, il capitale=1000 non fornirebbe più di quanto prima forniva un capitale=666 2/3. E’ però chiaro che questa svalorizzazione di fatto del vecchio capitale non potrebbe avvenire senza lotta; che il capitale addizionale ΔC non potrebbe funzionare come capitale senza una battaglia. Il saggio di profitto non cadrebbe in seguito a concorrenza dovuta a sovrapproduzione di capitale; al contrario, si avrebbe lotta di concorrenza perché caduta del saggio di profitto e sovrapproduzione di capitale nascono ora dalle stesse cause.

La parte di ΔC che dovesse trovarsi in mano ai vecchi capitalisti in funzione sarebbe lasciata giacere più o meno in ozio da costoro per non svalorizzare il proprio capitale originario e per non restringerne il posto nel campo di produzione, o essi se ne servirebbero per scaricare su nuovi venuti e in genere sui loro concorrenti, anche a prezzo di una perdita temporanea, l’inattivazione del capitale addizionale.

La parte di ΔC che si trovasse in nuove mani cercherebbe di conquistarsi un posto a spese del vecchio capitale, e in parte vi riuscirebbe, riducendone all’inattività una frazione e costringendolo a cedergli il posto per prendere quello del capitale addizionale utilizzato solo in parte o non utilizzato affatto.

Una messa a riposo di un’aliquota del vecchio capitale dovrebbe comunque avvenire; una messa a riposo nella sua qualità di capitale destinato a funzionare come capitale e a valorizzarsi. Quale parte ne sarà colpita, lo deciderà la lotta di concorrenza. Finché tutto va bene, come si è visto a proposito del livellamento del saggio generale di profitto, la concorrenza agisce come fratellanza pratica della classe dei capitalisti, che quindi si ripartiscono il bottino comune in proporzione al rischio assunto da ogni singolo individuo. Non appena tuttavia si tratta non più di dividersi il profitto ma le perdite, ognuno cerca di ridurre il più possibile la sua quota in esse e di riversarla sulle spalle altrui. Per la classe nel suo insieme la perdita è inevitabile. Ma quanto di essa un individuo debba sopportare, in quale misura debba prendervi parte, diventa allora questione di forza e di astuzia, e la concorrenza si trasforma in lotta tra fratelli-nemici. L’antitesi fra l’interesse di ogni singolo capitalista e quello della classe capitalistica nel suo insieme si fa allora valere così come, prima, l’identità di questi interessi si affermava in pratica attraverso la concorrenza.

Come si appianerebbe questo conflitto, e come si ristabilirebbero le condizioni proprie di un “sano” movimento della produzione capitalistica? Il modo di appianamento è già racchiuso nella semplice enunciazione del conflitto che si tratta di appianare. Esso implica una messa a riposo e perfino una parziale distruzione di capitale, per l’ammontare di valore dell’intero capitale addizionale ΔC o almeno di una sua parte, benché, come risulta già dalla presentazione del conflitto, questa perdita non si ripartisca affatto uniformemente fra i singoli capitali individuali, ma la sua ripartizione si decida in una lotta di concorrenza nella quale, a seconda dei particolari vantaggi o di posizioni già acquisite, la perdita si distribuisce in modo altamente ineguale e in forma molto diversa, cosicché un capitale giace inattivo, un altro viene distrutto, un terzo subisce solo una perdita relativa o una svalorizzazione temporanea, etc.

In tutti i casi, però l’equilibrio si ristabilirebbe mettendo a riposo in misura più o meno grande e perfino distruggendo capitale. Ciò si estenderebbe in parte alla sostanza materiale del capitale; per es. una parte dei mezzi di produzione, capitale fisso e circolante, non entrerebbe in funzione, non agirebbe come capitale; una parte delle imprese produttive cesserebbe la sua attività. Sebbene, da questo lato, il tempo intacchi e deteriori tutti i mezzi di produzione (esclusa la terra), qui l’arresto nel funzionamento provocherebbe un’effettiva distruzione, assai più grave ed estesa, di mezzi di produzione. L’effetto principale, sotto questo punto di vista, sarebbe tuttavia che questi mezzi di produzione cesserebbero di funzionare come tali; sarebbe cioè la distruzione più o meno prolungata della loro funzione di mezzi di produzione.

La distruzione più importante, e del carattere più acuto, si avrebbe in rapporto al capitale in quanto possiede carattere di valore; in rapporto ai valori capitali. La parte del valore capitale esistente nella forma di semplici buoni su quote future del plusvalore, del profitto, in realtà nella forma di semplici titoli di credito sulla produzione in forme diverse, viene subito svalorizzata con la riduzione dei ricavi su cui la si calcola. Una parte dell’oro e dell’argento sonanti giace inoperosa, non funziona come capitale. Una parte delle merci che si trovano sul mercato può compiere il suo processo di circolazione e riproduzione solo grazie ad un’enorme contrazione dei suoi prezzi, dunque grazie ad svalutazione del capitale ch’essa rappresenta. Più o meno svalorizzati sono pure gli elementi del capitale fisso. Si aggiunga che, poiché determinati e presupposti rapporti di prezzo condizionano il processo di riproduzione, il ribasso generale dei prezzi provoca ristagno e scompiglio in quest’ultimo. Tale scompiglio e tale ristagno paralizzano la funzione del denaro come mezzo di pagamento – funzione generalizzatasi contemporaneamente allo sviluppo del capitale e poggiante su quei rapporti di prezzo presupposti; spezzano in cento punti diversi la catena degli impegni di pagamento a date fisse; sono ulteriormente aggravati dal crollo così determinatosi nel sistema creditizio sviluppatosi contemporaneamente al capitale, e portano a crisi acute e violente, a forti e improvvise svalorizzazioni, a un effettivo ristagno e scompiglio del processo riproduttivo, quindi a una reale contrazione della riproduzione. Nello stesso tempo, tuttavia, sarebbero stati in gioco altri fattori. L’arresto della produzione avrebbe gettato sul lastrico una parte della classe operaia, e messo la parte occupata in condizioni tali da doversi rassegnare ad una caduta del salario perfino al disotto della media; operazione che ha per il capitale lo stesso identico effetto che se, a salario medio, il plusvalore relativo o assoluto fosse cresciuto. Il periodo di prosperità avrebbe favorito i matrimoni tra gli operai e ridotto la decimazione della loro progenie, circostanze queste che – per quanto possano causare un reale aumento della popolazione – non implicano aumento della popolazione effettivamente lavoratrice, ma agiscono sul rapporto fra operai e capitale come se il numero degli operai realmente in funzione fosse aumentato. Il ribasso dei prezzi e la lotta di concorrenza, d’altra parte, avrebbero spronato ogni capitalista a comprimere il valore individuale del proprio prodotto complessivo al di sotto del suo valore generale, mediante impiego di nuove macchine, metodi di lavoro perfezionati, nuove combinazioni; l’avrebbero cioè spronato ad accrescere la forza produttiva di una data quantità di lavoro, a diminuire il rapporto del capitale variabile al capitale costante, e, di conseguenza, a licenziare operai; insomma, a creare una sovrappopolazione artificiale. La svalorizzazione degli elementi del capitale costante sarebbe inoltre essa stessa un fattore tale da implicare l’aumento del saggio dl profitto. La massa del capitale costante impiegato sarebbe cresciuta rispetto al capitale variabile, ma il valore di questa massa potrebb’essere diminuito. Il ristagno intervenuto nella produzione avrebbe preparato – entro i limiti capitalistici – un ulteriore allargamento della produzione. E così il cerchio sarebbe di nuovo percorso. Una parte del capitale che l’arresto del suo funzionamento aveva svalorizzato riprenderebbe il suo valore originario. E lo stesso circolo vizioso sarebbe ripercorso in condizioni di riproduzione allargata, con un mercato più vasto ed una forza produttiva superiore.

Ma anche nell’ipotesi estrema che abbiamo fatta, la sovrapproduzione assoluta di capitale non è sovrapproduzione assoluta in generale, sovrapproduzione assoluta di mezzi di produzione. E’ sovrapproduzione di mezzi di produzione nella sola misura in cui questi funzionano come capitale e, quindi, devono includere, in rapporto al valore cresciuto con l’aumento della loro massa, una valorizzazione di questo valore; devono creare un valore addizionale.

E tuttavia sarebbe pur sempre sovrapproduzione, perché il capitale sarebbe incapace di sfruttare il lavoro nel grado imposto dallo sviluppo “sano”, “normale” del processo di produzione capitalistico; in un grado di sfruttamento che, quanto meno, accresca la massa del profitto con la massa crescente del capitale impiegato, e quindi escluda che il saggio di profitto diminuisca nella stessa misura in cui aumenta il capitale, o che il saggio del profitto diminuisca più rapidamente di quanto non aumenti il capitale.

Sovrapproduzione di capitale non significa mai altro che sovrapproduzione di mezzi di produzione – mezzi di lavoro e mezzi di sussistenza – in grado di funzionare come capitale, cioè d’essere utilizzati per sfruttare il lavoro ad un dato grado di sfruttamento, poiché la discesa di questo grado di sfruttamento al di sotto di un certo punto provoca perturbazioni e ristagni nel processo di produzione capitalistico, crisi, distruzione di capitali. Non vi è nulla di contraddittorio nel fatto che a questa sovrapproduzione di capitale si accompagni una più o meno grande sovrappopolazione relativa: le stesse circostanze che hanno elevato la forza produttiva del lavoro, aumentato la massa delle merci prodotte, esteso i mercati, accelerato l’accumulazione del capitale, sia come massa che come valore, e diminuito il saggio del profitto, le stesse circostanze hanno creato e creano una sovrappopolazione relativa; una sovrappopolazione di operai che il capitale sovrabbondante non impiega a causa del basso grado di sfruttamento del lavoro al quale soltanto li si potrebbe impiegare, o almeno a causa del saggio del profitto troppo basso che se ne otterrebbe a grado di sfruttamento dato.

Se si spedisce capitale all’estero, ciò non avviene perché sia escluso in assoluto che lo si possa impiegare in patria; avviene perché all’estero lo si può impiegare ad un saggio di profitto più alto. Ma questo capitale è capitale sovrabbondante in assoluto per la popolazione operaia occupata e per il dato paese in generale; esiste come tale accanto alla popolazione relativamente sovrabbondante, e fornisce un esempio di come i due fenomeni coesistano e si condizionino a vicenda.

D’altra parte la caduta del saggio di profitto legata all’accumulazione genera necessariamente una lotta di concorrenza. La compensazione della caduta del saggio di profitto grazie all’aumento della massa del profitto vale soltanto per il capitale totale della società e per i grandi capitalisti già saldamente impiantati. Il capitale addizionale nuovo, agente per proprio conto, non trova invece bell’e pronte quelle condizioni compensatrici, deve prima conquistarsele, per cui è la caduta del saggio di profitto a provocare la lotta di concorrenza fra i capitali e non viceversa. Certo, questa lotta è accompagnata da un temporaneo aumento dei salari e da un’ulteriore caduta temporanea del saggio di profitto ad esso conseguente. Lo stesso fenomeno si esprime nella sovrapproduzione di merci, nella saturazione dei mercati.

Poiché il capitale non ha come scopo la soddisfazione dei bisogni, ma la produzione del profitto, e raggiunge tale scopo solo grazie a metodi che regolano la massa della produzione in funzione della sua scala, e non viceversa, è inevitabile che si crei una discrepanza continua fra le dimensioni limitate del consumo su base capitalistica e una produzione che tende costantemente a superare il proprio limite immanente. Del resto il capitale si compone di merci, quindi la sovrapproduzione del capitale implica sovrapproduzione di merci. Di qui lo strano fenomeno per cui gli stessi economisti, che negano la sovrapproduzione di merci, ammettono quella di capitale. Se si dice che non si verifica sovrapproduzione generale, ma sproporzione fra i diversi rami di produzione, ciò non significa se non che, nell’ambito della produzione capitalistica, la proporzionalità dei singoli rami di produzione si rappresenta come costante processo di superamento della sproporzionalità, perché qui il nesso interno dell’intera produzione si impone agli agenti della produzione stessa come legge cieca, non come legge che, compresa e quindi dominata dal loro intelletto associato, abbia sottoposto il processo di produzione al loro comune controllo. Si pretende, inoltre con ciò, che paesi in cui il modo di produzione capitalistico non è ancora sviluppato debbano consumare e produrre nel grado che si addice ai paesi con modo di produzione capitalistico. Se si dice che la sovrapproduzione è soltanto relativa, si ha perfettamente ragione; ma l’intero modo di produzione capitalistico è appunto un modo di produzione soltanto relativo, i cui limiti non sono assoluti, anche se, sulla sua base, assoluti sono. Come potrebbe, altrimenti, far difetto la domanda delle stesse merci di cui la massa del popolo sente la mancanza, e come sarebbe possibile che si debba cercare questa domanda all’estero, su mercati remoti, per poter pagare agli operai in patria la media dei mezzi di sussistenza necessari? Solo in questo specifico nesso capitalistico, infatti, il prodotto eccedente riceve una forma in cui il suo detentore può metterlo a disposizione del consumo solo quando esso si riconverta per lui in capitale. Se infine si dice che i capitalisti non hanno che da scambiarsi i loro prodotti e consumarli, si perde completamente di vista il carattere della produzione capitalistica, dimenticando che ciò di cui qui si tratta non è il consumo, ma la valorizzazione del capitale. In breve, tutte le obiezioni contro le manifestazioni tangibili della sovrapproduzione (manifestazioni che di tali obiezioni non si curano né tanto né poco) vanno a parare nell’argomento che le barriere della produzione capitalistica non sono barriere della produzione in generale, quindi non lo sono neppure di questo specifico modo di produzione, il modo di produzione capitalistico. Ma la contraddizione del modo di produzione capitalistico risiede appunto nella sua tendenza allo sviluppo assoluto delle forze produttive, che entrano costantemente in conflitto con le specifiche condizioni di produzione in cui si muove, e soltanto può muoversi, il capitale.

Non è che si producono troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente. Al contrario. Se ne producono troppo pochi per poter soddisfare in modo decente ed umano la massa della popolazione.

Non è che si producano troppi mezzi di produzione per poter occupare la parte della popolazione idonea al lavoro. Al contrario. Prima si produce una parte eccessiva della popolazione, che non è realmente atta al lavoro; che, per le sue condizioni, dipende dallo sfruttamento del lavoro altrui, o da lavori che possono valere come tali sono nell’ambito di un modo di produzione miserabile. Non si producono, in secondo luogo, mezzi di produzione sufficienti perché tutta la popolazione idonea al lavoro lavori nelle condizioni più produttive, quindi il suo tempo di lavoro assoluto si abbrevi grazie alla massa e all’efficienza del capitale costante impiegato nel corso del tempo di lavoro.

Ma periodicamente si producono troppi mezzi di lavoro e mezzi di sussistenza, per farli funzionare come mezzi di sfruttamento dei lavoratori ad un saggio di profitto dato. Si producono troppe merci per poter realizzare nelle condizioni di distribuzione e nei rapporti di consumo dati dalla produzione capitalistica il valore in esse contenuto e il plusvalore ivi racchiuso, e riconvertirli in nuovo capitale, cioè per poter compiere questo processo senza esplosioni perennemente ricorrenti.

Non è che si produca troppa ricchezza. E’ che si produce periodicamente troppa ricchezza nella sua contraddittoria forma capitalistica.

Il limite del modo capitalistico di produzione si rivela:

1. Nel fatto che lo sviluppo della forza produttiva del lavoro genera, nella caduta del saggio di profitto, una legge che ad un certo punto si oppone nel modo più ostile al suo stesso svolgimento, e che perciò dev’essere continuamente superata per mezzo di crisi.

2. Nel fatto che a decidere dell’ampliamento o della limitazione della produzione non è il rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di uomini socialmente evoluti, ma l’appropriazione di lavoro non pagato e il rapporto tra questo lavoro non pagato e il lavoro oggettivato in generale, o, per esprimersi in termini capitalistici, il profitto e il rapporto tra questo profitto e il capitale impiegato, quindi un certo livello del saggio di profitto. Ne segue che esso si scontra in barriere già a un grado di estensione della produzione che invece, partendo da altri presupposti, apparirebbe in larga misura insoddisfacente; si arresta quando non la soddisfazione dei bisogni, ma la produzione e la realizzazione del profitto, gli impongono di arrestarsi.

Se diminuisce il saggio di profitto, da un lato si ha tensione da parte del capitale di tutte le sue forze perché il singolo capitalista riduca con metodi migliori etc. il valore individuale delle sue merci singolarmente prese al di sotto del loro valore sociale medio, e così, ad un dato prezzo di mercato, lucri un sopraprofitto; dall’altro si ha frode e incitamento alla frode mediante appassionati tentativi di innovazione nei metodi di produzione, negli investimenti di capitale, nelle avventure, per assicurarsi un sovraprofitto qualunque che sia indipendente dalla media generale, e la superi.

Il saggio di profitto, cioè l’incremento proporzionale del capitale, è importante in primo luogo per tutti i capitali di nuova formazione raggruppantisi in modo indipendente. E, non appena la formazione di capitale si concentrasse nelle sole mani di pochi grandi capitali già stabiliti, per i quali la massa del profitto compensasse il saggio di profitto, lo stesso fuoco vivificante della produzione si estinguerebbe; questa cadrebbe in letargo. Nella produzione capitalistica, il saggio di profitto agisce come forza trainante, e si produce soltanto ciò che, e nella misura in cui, può essere prodotto con profitto. Di qui il panico degli economisti inglesi per la diminuzione del saggio di profitto. Il fatto che questa semplice possibilità turbi i sonni di Ricardo, prova da sola la sua profonda conoscenza delle condizioni della produzione capitalistica. Ciò che gli si rimprovera, il fatto cioè che, incurante degli “uomini”, nel considerare la produzione capitalistica egli non veda che lo sviluppo delle forze produttive – poco importa con quanti sacrifici in uomini e valori capitali lo si paghi – , è invece proprio il lato in lui importante. Lo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale è il compito storico e la legittimazione del capitale. Appunto così esso crea inconsciamente le condizioni materiali di una forma di produzione superiore. Quel che allarma Ricardo è che il saggio di profitto, pungolo della produzione capitalistica e condizione e motore dell’accumulazione, sia minacciato dallo stesso sviluppo della produzione. E qui il rapporto quantitativo è tutto. In realtà alla base del problema v’è qualcosa di più profondo, ch’egli appena intuisce. In modo puramente economico, cioè dal punto di vista borghese, nei limiti delle capacità di comprensione capitalistiche, dall’angolo visuale della produzione capitalistica, qui si rivelano i suoi confini, la sua relatività, il fatto che esso non è un modo di produzione assoluto, ma soltanto storico, corrispondente ad una certa e limitata epoca di sviluppo delle condizioni materiali della produzione.


 

(da Karl Marx, Il capitale, Libro III, Capitolo XV, Par. 3, Edizione UTET, pp.320-331) 

 

Partito Comunista Internazionale 

(il programma comunista n°06 - 2013)
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